samedi, janvier 22, 2011

«La Supercoop siamo noi: chi può darvi di più?»

Il Riformista
«La Supercoop siamo noi:  chi può darvi di più?»

di Tonia Mastrobuoni    ilriformista.it    20110122

Il 27 gennaio le nozze tra “bianche” e “rosse”. Per il capo di Legacoop è una «svolta storica». E spiega perché hanno retto alle trasformazioni industriali e alle crisi; che sono un paradigma culturale; e che il contratto aziendale non è una buona idea.
Nella foto: Giuliano Poletti (presidente Legacoop)
Sul finire dello scorso millennio, quando era presidente degli industriali mantovani, Montezemolo coniò il battagliero slogan «l’Emilia non è il Nord-Est, non è il FarWest!». Ad un decennio di distanza la quintessenza di quella fiera alterità rispetto alla galassia esplosa dei capannoni nordestini, è ancora il mondo delle cooperative. Una realtà culturale, oltre che industriale, innestata in un territorio che Edmondo Berselli definì un «accidente orografico» dal «corredo genetico particolare», cioè l’Emilia. Un’isola insomma che è anche la patria di provenienza di Giuliano Poletti. Il presidente della Lega delle cooperative, del colosso “rosso” da otto milioni e mezzo di soci, mezzo milione di dipendenti e quasi 57 miliardi di fatturato, è l’architetto, assieme al presidente di Confcooperative Luigi Marino e a quello dell’Agci Luigi di una gigantesca operazione di fusione che metterà insieme il 90 per cento dell’intero movimento cooperativo. E che rappresenterà dal mese prossimo la bellezza di tredici milioni di soci.
Alle Giornate delle cooperative (Geco) della scorsa settimana Poletti ha annunciato che il 27 gennaio si celebreranno le nozze tra “bianche” e “rosse”. Il numero uno di Legacoop spiega al Riformista perché questo matrimonio, perché “Cooperativa Italia” «s’ha da fare», perché il modello delle cooperative sembra inossidabile rispetto ai grandi cambiamenti del mondo industriale ma anche perché il movimento si è rivelato quasi impermeabile alle grandi crisi, compresa l’ultima. Ma anche quale sarà il rapporto futuro di questo “gigante coop” con la politica e perché ci sono alternative sia agli strappi di Sergio Marchionne - «un contratto nazionale più leggero» - sia alla contrapposizione pubblico/privato nel dibattito sulle municipalizzate.

Presidente, pronto per le nozze?
Sì, insomma, ormai la decisione è assunta. Adesso il punto è riuscire a praticarla nel migliore dei modi, renderla più efficiente ed efficace. È un passaggio molto importante che ci garantirà una capacità di relazione naturalmente molto più forte. Abbiamo dei valori in comune che ci consentiranno di confrontarci in maniera sistematica e costruttiva sui problemi e sulle opportunità. Siamo a una svolta storica.

Qual è il segreto di un modello che ha superato indenne non solo la crisi recente ma anche le grandi trasformazioni del nord, l’atomizzazione delle imprese, la scomparsa dei grandi gruppi?
Il dato della partecipazione attiva, anzitutto. L’idea per cui i comportamenti umani non sono solo dettati dall’interesse economico. Le cooperative dimostrano che le persone prendono decisioni per motivi molto più complessi, c’entra l’interesse economico, certo, ma anche fattori culturali e ideologici. C’è un sostanziale rifiuto dell’idea della vita tagliata in due: da una parte il lavoro, non libero, obbligatorio, mal sopportato, necessitato dal problema della sopravvivenza; dall’altro il tempo libero inteso come tempo della vita. La chiave del successo delle cooperative è il contrario: sono persone che vogliono contribuire ai modelli di organizzazione, nominarsi propri dirigenti, eccetera.

Un politologo americano di Harvard, Robert Putman, ha studiato decenni fa il “modello emiliano” scoprendo che era la società a determinare la qualità delle istituzioni e non viceversa e che lì si puntava molto sul “capitale sociale” basato sulla fiducia reciproca. Contrariamente ad altre aree del Paese dove sembra prevalere il familismo amorale e la diffidenza reciproca o un individualismo piuttosto spinto. Vale ancora questo modello?
È vero che le esperienze culturali di tutte le cooperative, di ogni colore, al fondo hanno matrice comune, ma ormai è un principio che vale a livello mondiale, in Cina come in Italia. Se poi hanno avuto a riferimento la dottrina sociale della Chiesa o il riformismo del Pci non cambiano i valori di riferimento, cioè il pluralismo, la democrazia, la partecipazione, la responsabilità, il pensiero lungo, collegamento con i territori, intergenerazionalità. È questa la base comune per far bene assieme, dal 27 gennaio prossimo.

Ma sul successo delle coop non influisce anche il regime fiscale agevolato rispetto alle altre aziende?
Mettiamola così. Fa parte della nostra cultura vincente ma non per il motivo che crede lei. Il fatto cioè che le cooperative debbano destinare a riserva indivisibile una quota degli utili è una garanzia di stabilità. La legge prevederebbe un obbligo a riserva degli utili del 30 per cento. I dati però ci dicono che le cooperative mettono a riserva più dell’80 per cento. Fanno una scelta più impegnativa: di fronte a avere un euro subito o consolidare le aziende, i soci delle cooperative preferiscono garantirsi il futuro. Il dato egoistico “mi prendo un euro oggi invece di aspettarne dieci domani anche per corazzarmi da eventuali crisi” non ha mai fatto strada. È uno dei motivi per cui abbiamo retto meglio alla crisi.

Ma su quegli utili delle riserve indivisibili non pagate tasse
Però oggi i vantaggi sono molto limitati. Quando distribuiamo la ricchezza siamo trattati come tutti gli altri. Quando resta dentro l’impresa l’utile non viene trattato nello stesso modo, è vero. Ma non potrà mai più essere distribuito ai soci. Dunque, se lo Stato rinuncia a un po’ di tasse, anche il cittadino della cooperativa rinuncia a prendersi l’utile prodotto dalla sua impresa. Anzi, noi diciamo che è un modello, dovrebbe esserlo.

Cioè? Vorreste che venisse esteso?
Esatto. Questa regola dovrebbe essere estesa a tutti. Tra i limiti delle nostre imprese c’è il fatto che sono poco patrimonializzate e che non sempre l’investitore lascia in impresa ciò di cui ci sarebbe bisogno.

Forse perché gli utili sono bassi in Italia, almeno a giudicare dai dati ufficiali.
Guardi, è ovvio che ogni azienda ha la sua storia e i suoi risultati. Ma c’è un problema generale che riguarda anche la correttezza fiscale nel nostro paese. Che viene fuori ogni volta che c’è, ad esempio, uno scudo fiscale e si scopre che all’estero ci sono montagne di soldi. Se uno volesse pubblicare l’elenco, non credo ci sarebbero molte cooperative.

Le nozze della prossima settimana sono un ulteriore sintomo della rottura con la cinghia di trasmissione che vi legava ai partiti o alla Chiesa?
Il tema della relazione con la politica è importante, ovvio. Ma ormai è consolidato il fatto che le cooperative devono considerare la politica - le istituzioni il Parlamento, il governo - scelti democraticamente dai cittadini. Dunque, il comportamento deve essere lineare: non dobbiamo pretendere né trattamenti speciali né altro. Sul piano nostro, interno, mi sento di dire che siamo abbastanza tranquilli perché non c’è stato un atto importante che negli ultimi anni non abbiamo sottoscritto assieme. Abbiamo sottoscritto senza rotture il Patto per l’Italia o l’ultimo assetto dei contratti. Sui sostanziali c’è una comunanza di vedute ormai forte.

A proposito di assetto dei contratti: cosa pensa della proposta di Federmeccanica di introdurre il contratto aziendale in alternativa a quello nazionale?
Non ne abbiamo ancora discusso. Ma la mia opinione è che i contratti nazionali hanno una loro utilità perché rispondono all’esigenza di una dimensione unificata dei mercati. Faccio fatica a immaginare che nelle piccole aziende ognuna si autodetermini un contratto. Anche perché come diavolo fanno, chi rappresenta i lavoratori?
Ma è mai pensabile che ogni azienda si infili in una contrattazione - e potenzialmente in un conflitto - senza un quadro generale di riferimento che riguardi le condizioni di lavoro, le garanzie sulla sicurezza, i diritti fondamentali?

I diritti minimi, par di capire, sarebbero garantiti a livello nazionale.
Ma il contratto aziendale è comunque la risposta sbagliata a un problema antico. Il contratto nazionale è stato in questi decenni un’accumulazione storica di un impianto abbastanza standardizzato dagli anni Cinquanta in poi. Ad ogni rinnovo vengono aggiunte nuove norme, qualche istituto in più. Il risultato è quello di assommare norme nel tempo. Bisognerebbe fare una profonda revisione alleggerendo molto di contenuti i contratti nazionali.

Qualche esempio?
Pensi alla regolazione dell’orario. Una volta stabilito limite massimo, e alcune regole fondamentali, andare molto addentro alla materia, accorciando o allungando di venti minuti, stabilendo le modalità di lavoro il sabato o che so io, sono le tipiche regolazioni che dovrebbero essere lasciate alle singole aziende. Un altro esempio clamoroso è il part time. In Italia non conviene anzitutto ai datori di lavoro: lo pagano di più.

Il 27 nasce un soggetto molto forte, proprio mentre evapora un interlocutore importate, il Governo...
Credo che in generale sia un bene che i paesi si dotino di istituzioni forti. Certo, siamo consapevoli che molte cose non dipendono da noi. Ma noi andiamo avanti con i nostri progetti a prescindere, continuiamo a progettare percorsi di imprenditoria coooperativa, a inventarci modi nuovi di fare impresa.

Cosa sono le “cooperative di comunità” alle quali state lavorando? Una sorta di “ultimo miglio” dei servizi?
Sì è un modo per far sì che nelle piccole comunità in cui i servizi chiudono perché non c’è più una dimensione economica conveniente, i cittadini si organizzino in cooperative per non subire gli effetti della chiusura di tutti i negozi e tutti i servizi, quelle cose che fanno morire le realtà piccole.

Un esempio di cittadinanza attiva.
Certo: il cittadino non può essere considerato protagonista solo il giorno che si va a votare. Mi domando ad esempio: nell’attuale dibattito sulla gestione degli acquedotti municipali pubblico o privato dove sta scritto che autogestito non funzioni meglio? Il Nobel dell’economia Elinor Ostrom ha dimostrato la validità di questo modello. Ha dimostrato che nelle municipalizzate i migliori risultati in termini di efficienza li hanno ottenuti proprio le imprese autogestite dagli utenti, sia rispetto alle imprese pubbliche sia a quelle private. Oltretutto, negli Stati Uniti!


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