samedi, avril 23, 2011

Lassini e l’art. 21 della Costituzione

Lassini e l’art. 21 della Costituzione | The Frontpage
Lassini e l’art. 21 della Costituzione


di fr thefrontpage.it    20110422



Per trent’anni Marco Pannella è andato denunciando la “Cupola partitocratica”, ma né i partiti di governo né le vittime della mafia lo hanno mai accusato di vilipendio o ne hanno chiesto le dimissioni dal Parlamento. Perché è evidente che si trattava di una metafora, e che questa metafora esprimeva un’opinione politica, un giudizio, un punto di vista.

Anche “Fuori le Br dalle Procure” è una metafora, e il suo significato è chiaro: alcuni magistrati fanno un uso terroristico della giustizia, cioè colpiscono con violenza nel mucchio per dare il buon esempio e spingere il popolo alla sollevazione. È un’opinione come un’altra, che merita di essere discussa, confutata, respinta o confermata. Non solo: è un’opinione largamente condivisa dal centrodestra, naturalmente con parole e toni anche molto diversi, ed espressa pubblicamente più volte negli ultimi diciassette anni dal presidente del Consiglio.

Perché Roberto Lassini non dovrebbe poter dire ciò che molti altri hanno pensato e detto? È un candidato alle elezioni, e dunque non ha soltanto il diritto, ma anche il dovere di esporre agli elettori le sue opinioni, così da consentire loro di valutarlo ed eventualmente di votarlo. L’indignazione multipartisan che s’è abbattuta su Lassini – persino il presidente della Repubblica s’è sentito in dovere di intervenire, mentre Letizia Moratti ha minacciato di ritirarsi dalla corsa elettorale – è un monumento all’ipocrisia nazionale, alla mediocrità dei politici e dei commentatori, all’arroganza della magistratura organizzata, all’impotenza e alla marginalità del pensiero liberale in Italia.

In tanto difendere la Costituzione, qualche indignato potrebbe rileggersi l’articolo 21: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.


vendredi, avril 22, 2011

Se adesso la Fiat va Detroit ringraziate la Cgil C'è l'accordo: il Lingotto è al 46% di Chrysler

Se adesso la Fiat va Detroit ringraziate la Cgil C'è l'accordo: il Lingotto è al 46% di Chrysler - Economia - ilGiornale.it del 22-04-2011
Se adesso la Fiat va Detroit ringraziate la Cgil C'è l'accordo: il Lingotto è al 46% di Chrysler

di Francesco Forte  ilgiornale.it    20110422


Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. È il caso della Cgil, della Fiom, ma anche di un certo nume­ro di politici ed economisti e dei cerchio bottisti che non sembrano capire che quel che sta succedendo in Fiat auto è cruciale per la crescita dell’economia italiana. Fiat, che aveva da poco aumentato la quota di Chrysler dal 25%al 50%ha esercitato,prima del previsto,l’opzio­ne per comprarne un altro 16%, sborsando 1,270 miliar­di di dollari. E Sergio Marchionne ha anche annunciato che entro l’anno Fiat comprerà un altro 5% di Chrysler, raggiungendo la maggioranza assoluta. I conti di Fiat auto vanno bene nonostante il calo di vendite in Italia compensato dall’aumento in Brasile, in Polonia e altro­ve ed ha mezzi e credibilità per anticipare le strategie di acquisizione del 51% di Chrysler. E il modello Marchion­ne, che i sindacati di Detroit hanno accettato, ha funzio­nato, insieme alla strategia di produzione, di marketing e di finanza, dei manager Fiat che si è portato a Chrysler. Quindi le banche danno il credito necessario per l’ope­razione di controllo totale di Chrysler.

Non si può incolpare Fiat auto di non amare l’Italia, perché potrebbe spostare la sua produzione da Torino, Pomigliano e Melfi, in Polonia, in Brasile, a Detroit se la Cgil continua a fare ricorsi alla magistratura che blocca­no i programmi di Fabbrica Italia, che prevedono i nuo­vi modelli di auto, sulla base del nuovo contratto di lavo­ro, che la maggioranza dei lavoratori ha accettato. Che cosa è questo nuovo principio della sinistra politica e sindacale per cui quando non vincono con le schede delle votazioni pretendono di vincere con le carte bolla­te in tribunale o quanto meno di impantanare chi ha vinto nelle vertenze, per estenuarlo? La politica non ha regole oggettive, ma l’economia e la finanza privata e pubblica le ha. E non ci può scherzare, con le carte bolla­te, né giocare con un colpo al cerchio e uno alla botte o il piede in due staffe. Ai rappresentanti sindacali della ex Bertone, ora carrozzeria di Grugliasco, che non lavora da anni ed ha 700 addetti sino alla scorsa settimana in cassa integrazione straordinaria, Fiat, che l’ha rilevata dal dissesto, ha proposto di costruire auto Maserati con un investimento di mezzo miliardo, sulla base del nuo­vo contratto Marchionne. Tutti i posti di lavoro attuali verrebbero garantiti. Fiom di Cgil che ha la maggioran­za fra i 700 addetti che ancora sono in fabbrica, non solo si oppone, come si era opposta a Pomigliano e Mirafiori ove è rimasta in minoranza, ma per aggravare l’opposi­zione il giorno prima dell’incontro con Marchionne ha presentato i ricorsi contro tale contratto negli stabili­menti Fiat. Quanto a Emma Marcegaglia, dopo avere dichiarato, a nome del vertice confindustriale, che l’at­teggiamento della Fiom non fa bene ai lavoratori italia­ni, in quanto di chiusura rispetto alla competitività del­le imprese e rispetto al pagamento di salari più alti ai lavoratori, ha aggiunto che lo si vede alla Bertone, come lo si è visto prima a Pomigliano e Mirafiori.

Dopo questo bel colpo al cerchio, ecco quello alla bot­te. Riferendosi al referendum che la Cgil esige alla ex Bertone essa ha detto «anche in caso di referendum ne­g­ativo auspichiamo che la Fiat decida di tenere la produ­zione in Italia». Una dichiarazione come questa aiuta la Cgil a vincere, perché così essa potrebbe dimostrare che Fiat auto non ha affatto bisogno di far fare i turni notturni e gli straordinari flessibili, per realizzare lo sfruttamento ottimale degli impianti e fronteggiare le variabilità del mercato. E ovviamente gli altri sindacali­sti che chiedono di votare «sì»per salvaguardare l’occu­pazione apparirebbero come dei pavidi servitorelli del padrone. Ma Fiat non bluffa, vuole applicare questo contratto in Italia, perché lo adotta nelle altre fabbriche e se in Italia le auto del gruppo Fiat perdono quote di mercato è perché il rapporto qualità-prezzo non è ade­guato. La questione se facendo nuovi modelli si vende di più con profitto è una questione di costi e prezzi, quin­di di produttività. Molti lavoratori di Bertone sono vici­ni alla pensione e sperano in altra cassa integrazione. Ma è così che si pensa al futuro dei giovani e alla crescita economica?


Persino per Toni Negri Silvio è perseguitato

Persino per Toni Negri Silvio è perseguitato - Interni - Articolo stampabile - Il Giornale.it
Persino per Toni Negri  Silvio è perseguitato

di Giordano Bruno Guerri   ilgiornale.it   20110422

Persino il guru della sinistra, teorico di Potere operaio, ha scritto in un libro: "Ciò che fu fatto dai giudici ai socialisti adesso si ripete coi berlusconiani, è orrido"

Aperte le virgolette: «Il potere giudiziario è diventato un potere quasi autocratico. A quel tempo il partito dei giudici era appena nato: il loro potere è diventato esorbitante grazie a un patto con la sinistra istituzionale che aveva dato alla magistratura mano completamente libera».

A quel tempo significa il 1983. Ma chi è l’autore di queste parole esplosive? Berlusconi, certamente Berlusconi.

Riapriamo le virgolette: «Sia ben chiaro, non metto assolutamente in discussione l’esercizio della giustizia e la sua indipendenza. Il dramma inizia quando la giurisdizione sostituisce interamente la giustizia, quando occupa e alla fine domina lo spazio politico».

Insomma, questo Berlusconi, sempre la solita solfa. L’unica novità, sembra, è che si fa risalire il «patto» scellerato addirittura alla fine degli anni Settanta e non alla sua discesa in campo.

Ancora virgolette, ma con sorpresa: «Quello che è stato fatto dai giudici contro l’estrema sinistra alla fine degli anni Settanta è stato ripetuto dieci anni dopo contro i socialisti e i berlusconiani. È stato orrido, questo déjà vu...». È davvero Berlusconi? Quel riferimento ai magistrati contro l’estrema sinistra avrà fatto venire qualche sospetto ai lettori. Che, infatti, hanno ragione. Il brano non è del capo del governo, bensì di Toni Negri, guru dell’estrema sinistra pensante e operante.

Il passaggio è a pagina 28 di un suo libro abbastanza recente, Il ritorno (Rizzoli 2003), pubblicato poco dopo il successo planetario di Impero, per il quale Time inserì Negri tra «le sette personalità che stanno sviluppando idee innovative in diversi campi della vita moderna». Può darsi, anche se di certo Negri non è un personaggio amabile.

Prima dirigente dei giovani dell’Azione Cattolica, poi socialista, infine fondatore, teorico e stratega di Potere Operaio insieme a Oreste Scalzone e a Franco Piperno. Fu processato per associazione sovversiva e insurrezione armata e condannato a 30 anni, nel 1984. Il processo si svolse sulla base del «teorema Calogero», dal nome del sostituto procuratore di Padova: il quale fu accusato da Amnesty International, insieme a altre autorità italiane, di avere manipolato la vicenda e avere commesso numerose irregolarità. La pena venne poi ridotta a 17 anni. Nel frattempo Marco Pannella aveva candidato Negri alla Camera, sostenendo che era vittima di leggi repressive imposte dal Partito comunista italiano con l’entusiastico appoggio della magistratura. Negri venne eletto, ma sarebbe ugualmente tornato in galera, dopo l’autorizzazione all’arresto concessa dal Parlamento, così fuggì in Francia. Ci rimase per 14 anni, insegnando all’università, finché decise di rientrare in Italia, per scontare la pena: prima in prigione, poi in semilibertà, fino al 2003. Due anni dopo Le Nouvel Observateur lo inserì tra i venticinque «grandi pensatori del mondo intero».

Non giurerei che lo sia davvero, ma non sbagliava quando parlò di una giustizia che «occupa e alla fine domina lo spazio politico»: prima contro l’estrema sinistra, poi con Tangentopoli, oggi contro Berlusconi. Ovvero contro gli avversari di quelli che Berlusconi chiama «i comunisti».

«Dovevano ricacciarmi in galera, nei meandri della persecuzione giudiziaria... troppo spesso in Italia le cose si risolvono così».

Sarebbe interessante sapere cosa pensa delle attuali vicende processuali di Berlusconi, oggi, il quasi ottantenne Toni Negri. Magari durante una cena a Arcore.

www.giordanobrunoguerri.it


mercredi, avril 20, 2011

Una professoressa taglia e incolla

Una professoressa taglia e incolla - News - Italiaoggi
Una professoressa taglia e incolla

Di Giampaolo Cerri   italiaoggi.it              20110420


Se in Germania fai il ministro e hai copiato la tesi di dottorato ti dimetti, se in Italia lo fai con qualche decina di libri con cui ti presenti a un concorso universitario, finisci in cattedra. Alla vicenda di Karl-Theodor Guttenberg, ministro della Difesa dimessosi perché denunciato per il forsennato «copia e incolla» con cui aveva forgiato le 475 pagine della sua tesi di dottorato, l'Italia risponde con la sconcertante vicenda di Flaminia Saccà, ricercatrice in Sociologia a Cassino, idonea a un concorso a Viterbo per professore associato e chiamata dallo stesso ateneo, malgrado avesse copiato interi passaggi di saggi altrui, come un commissario ha documentato a verbale.

Una situazione surreale: il docente-contestatore, Marcellino Fedele, ordinario alla Sapienza, uno dei quattro commissari sorteggiati, produceva, il 19 gennaio scorso, passi di famosi sociologi con, a fronte, i brani della Saccà, tratti dalle pubblicazioni.



Una visione sinottica che mostrava come la studiosa avesse saccheggiato testi di Francesco Amoretti, Gianfranco Bettin, Gianpietro Mazzoleni, Gabriel Almond e Sidney Verba, senza citarli mai, talvolta utilizzando anche, tali e quali, le traduzioni fatte dagli autori. Scoperta che aveva spinto Fedele, come si legge nel verbale sul sito dell'ateneo della Tuscia, «a voler mutare il giudizio originariamente espresso sulla candidata, la cui produzione, alla luce di sopravvenuti elementi di valutazione si configura priva di originalità e dunque con un valore scientifico in larga misura inesistente». Il giudizio, pesante come un macigno, era stato preceduto da una sibillina introduzione del documento: «Questi testi», si legge, «ripetono generalmente senza indicarne le fonti in maniera adeguata, brani di testi precedentemente pubblicati da altri autori». Ma come in una pièce ioneschiana, gli altri quattro commissari, Gloria Pirzio, scelta dalla Tuscia ma docente alla Sapienza, Giacomo Mulé, professore a Palermo, Riccardo Scartezzini, che insegna a Trento, e Vincenzo Pace, ordinario a Padova, decidevano che andava bene lo stesso: «I membri della Commissione», annotano nella medesima relazione, «prendono atto di quanto dichiarato dal professor Fedele» e quindi sentenziano, evidentemente a maggioranza, che «la valutazione complessiva della candidata, in considerazione del curriculum e dei titoli presentati e delle due prove orali risulta essere più che buona». Un giudizio che, per la Saccà, vale l'idoneità, visto che solo la preparazione di un'altra candidata viene definita «ottima».

Un bel risultato, visto che la Saccà da qualche anno non si dedica a tempo pieno alla ricerca, essendo stata nominata, dal giugno del 2007, presidente della Società finanziaria laziale di sviluppo della Regione Lazio, la Filas Spa, dove è in prorogatio dall'aprile dello scorso anno ma che a breve sarà sostituita dalla giunta di Renata Polverini.

A sceglierla era stata infatti la giunta di centrosinistra. Lo stesso Piero Marrazzo aveva parlato di «una nomina di alto profilo che conferma la sensibilità del sistema Regione nei confronti del sostegno alle imprese», ma uno dei meriti della sociologa, all'epoca, era quello d'essere responsabile università dei Ds. In quella veste, nel 2004, guidava la contestazione al ministro Letizia Moratti: «Bisogna dare vita a una battaglia culturale contro tutte le forme di sfruttamento, malcostume e opacità che tuttora esistono nel mondo accademico», dichiarava al Manifesto.Ma non è solo il passato politico di Flaminia a rendere il suo concorso un pasticciaccio brutto. Chi l'ha chiamata, con decreto 171, firmato il 25 febbraio scorso, forse non leggendo troppo attentamente gli atti, è il fresco presidente della Conferenza dei rettori italiani-Crui, il rettore viterbese Marco Mancini, che proprio sulla materia dei concorsi aveva rilasciato al Corriere la prima e unica intervista, in cui chiedeva: «Libertà agli atenei di scegliere i docenti».


Una professoressa taglia e incolla

Una professoressa taglia e incolla - News - Italiaoggi
Una professoressa taglia e incolla

Di Giampaolo Cerri   italiaoggi.it              20110420


Se in Germania fai il ministro e hai copiato la tesi di dottorato ti dimetti, se in Italia lo fai con qualche decina di libri con cui ti presenti a un concorso universitario, finisci in cattedra. Alla vicenda di Karl-Theodor Guttenberg, ministro della Difesa dimessosi perché denunciato per il forsennato «copia e incolla» con cui aveva forgiato le 475 pagine della sua tesi di dottorato, l'Italia risponde con la sconcertante vicenda di Flaminia Saccà, ricercatrice in Sociologia a Cassino, idonea a un concorso a Viterbo per professore associato e chiamata dallo stesso ateneo, malgrado avesse copiato interi passaggi di saggi altrui, come un commissario ha documentato a verbale.

Una situazione surreale: il docente-contestatore, Marcellino Fedele, ordinario alla Sapienza, uno dei quattro commissari sorteggiati, produceva, il 19 gennaio scorso, passi di famosi sociologi con, a fronte, i brani della Saccà, tratti dalle pubblicazioni.



Una visione sinottica che mostrava come la studiosa avesse saccheggiato testi di Francesco Amoretti, Gianfranco Bettin, Gianpietro Mazzoleni, Gabriel Almond e Sidney Verba, senza citarli mai, talvolta utilizzando anche, tali e quali, le traduzioni fatte dagli autori. Scoperta che aveva spinto Fedele, come si legge nel verbale sul sito dell'ateneo della Tuscia, «a voler mutare il giudizio originariamente espresso sulla candidata, la cui produzione, alla luce di sopravvenuti elementi di valutazione si configura priva di originalità e dunque con un valore scientifico in larga misura inesistente». Il giudizio, pesante come un macigno, era stato preceduto da una sibillina introduzione del documento: «Questi testi», si legge, «ripetono generalmente senza indicarne le fonti in maniera adeguata, brani di testi precedentemente pubblicati da altri autori». Ma come in una pièce ioneschiana, gli altri quattro commissari, Gloria Pirzio, scelta dalla Tuscia ma docente alla Sapienza, Giacomo Mulé, professore a Palermo, Riccardo Scartezzini, che insegna a Trento, e Vincenzo Pace, ordinario a Padova, decidevano che andava bene lo stesso: «I membri della Commissione», annotano nella medesima relazione, «prendono atto di quanto dichiarato dal professor Fedele» e quindi sentenziano, evidentemente a maggioranza, che «la valutazione complessiva della candidata, in considerazione del curriculum e dei titoli presentati e delle due prove orali risulta essere più che buona». Un giudizio che, per la Saccà, vale l'idoneità, visto che solo la preparazione di un'altra candidata viene definita «ottima».

Un bel risultato, visto che la Saccà da qualche anno non si dedica a tempo pieno alla ricerca, essendo stata nominata, dal giugno del 2007, presidente della Società finanziaria laziale di sviluppo della Regione Lazio, la Filas Spa, dove è in prorogatio dall'aprile dello scorso anno ma che a breve sarà sostituita dalla giunta di Renata Polverini.

A sceglierla era stata infatti la giunta di centrosinistra. Lo stesso Piero Marrazzo aveva parlato di «una nomina di alto profilo che conferma la sensibilità del sistema Regione nei confronti del sostegno alle imprese», ma uno dei meriti della sociologa, all'epoca, era quello d'essere responsabile università dei Ds. In quella veste, nel 2004, guidava la contestazione al ministro Letizia Moratti: «Bisogna dare vita a una battaglia culturale contro tutte le forme di sfruttamento, malcostume e opacità che tuttora esistono nel mondo accademico», dichiarava al Manifesto.Ma non è solo il passato politico di Flaminia a rendere il suo concorso un pasticciaccio brutto. Chi l'ha chiamata, con decreto 171, firmato il 25 febbraio scorso, forse non leggendo troppo attentamente gli atti, è il fresco presidente della Conferenza dei rettori italiani-Crui, il rettore viterbese Marco Mancini, che proprio sulla materia dei concorsi aveva rilasciato al Corriere la prima e unica intervista, in cui chiedeva: «Libertà agli atenei di scegliere i docenti».


mardi, avril 19, 2011

Però Lassini le Procure le conosce davvero

Però Lassini le Procure le conosce davvero | The Frontpage
Però Lassini le Procure le conosce davvero



Lassini tiene banco. L’autore dei manifesti milanesi “Fuori le BR dalle Procure”. Adesso donna Letizia ha posto un aut aut al Pdl, imponendo il ritiro della candidatura al candidato indisciplinato. Il casto Firmigoni, già alle prese con la grana (radicale) delle firme false, si affretta a precisare che quella non è la posizione del partito e per questo invoca l’opportunità di un’autosospensione. Ci vuole autodisciplina, tuona moderatamente, com’è nel suo stile. La stessa autodisciplina, bisbigliamo noi, che dovrebbe indurre alle dimissioni il Presidente abusivo, che, ben consapevole della mega truffa elettorale, ha mentito per mesi e mesi ai cittadini lombardi.

Che cosa ha fatto Lassini? Quello che i partiti italiani fanno ogni giorno. Tappezzare di manifesti (preventivamente condonati) i muri delle nostre città, violando ogni regola sulla propaganda elettorale. E mentre gli stessi partiti bisticciano per finta e si accordano per vero, i Radicali sono i soli a denunciare lo scempio di legalità nella quasi indifferenza dei grandi mezzi di distrazione di massa.

Eppure questa volta s’è mobilitato nientemeno che il Presidente della Repubblica. Secondo Napolitano s’è oltrepassato il segno. Perché il manifesto “Fuori le BR dalle Procure” è un’offesa alle vittime delle BR. Mi pare logico, no? Ugualmente dettato dalla logica (politica), del resto, è il silenzio della massima carica dello Stato sull’abusivismo sistematizzato. Sull’illegalità sistematizzata.

Ritorniamo però su Lassini. Mentre tutti si sperticano in professioni di cieca fede nella magistratura (e nei magistrati?), la vita di Lassini è una storia da manuale della malagiustizia. Lui le Procure le ha conosciute, con l’irresponsabilità dei magistrati ha dovuto fare i conti sulla propria pelle. Da sindaco di un Comune del milanese al “più nulla”. In mezzo un’indagine per tentata concussione avviata dalla Procura di Milano, 42 giorni di carcere e poi più di cinque anni in attesa di essere assolto con formula piena. La frase che ripete è: “Ho perso tutto”.

Fuori le BR dalle Procure, a rigor di logica, non significa che le Procure sono le BR. Quella delle BR è evidentemente una metafora, un’esagerazione provocatoria, un’iperbole, che io mi sarei volentieri evitata. Ma ancor prima mi sarei evitata questo spettacolo immondo. La sfilata di ipocrisia partitocratica, che dinanzi alla violazione quotidiana della legalità costituzionale non si scompone; dinanzi alle vite dilaniate dalla malagiustizia italiana non batte ciglio; dinanzi all’attivismo a corrente alternata dei magistrati non proferisce parola, se non per ingraziarsi il benestare del terzo potere.
A me il “reato di vilipendio” fa sorridere, come tutti i reati d’opinione. Che la sensibilità del supremo ordine giudiziario ne sia uscita toccata, me ne dispiace. Risentiti lo siamo tutti. Da questo teatrino, che toglie il fiato. E supera la fantasia.


Il complotto delle toghe inizia trentasei anni fa

Il Tempo - Il complotto delle toghe inizia trentasei anni fa


          Il complotto delle toghe inizia trentasei anni fa

    
  di Francesco Perfetti   iltempo.it    20110419
      
È davvero incredibile, ma è proprio così. Passano gli anni, passano i decenni e le cose non cambiano. L’invasione di campo della politica da parte della magistratura è antica. Mi è capitato sotto le mani un numero di un periodico moderato, pubblicato dalla casa editrice Rusconi, diretto da Ignazio Contu, «Il Settimanale» dell’11 gennaio 1975: una bella copertina color rosso raffigurante un tocco sormontato da un grande titolo, «Il complotto dei magistrati», e un sommario, «Rapporto sullo strapotere giudiziario», che rinvia a una inchiesta firmata da Giampiero Pellegrini ed Ernesto Viglione. Cominciava con una frase di Henry Kissinger a Aldo Moro: «I vostri giudici hanno messo sotto accusa i servizi segreti italiani proprio mentre, in Medio Oriente, potrebbe scoppiare da un momento all’altro una nuova guerra. Non vi rendete conto di aver imboccato una strada pericolosa?».

Trentasei anni fa. Sembra oggi. L’inchiesta era dura ma dettagliata: parlava dei pretori d’assalto e delle toghe scomode, ma soprattutto denunciava l’esistenza, dietro le quinte, di un «disegno concertato», di un «attentato alla democrazia», di un «vero golpe strisciante» che ha per obiettivo quello di «strangolare le libertà comuni attraverso la costituzione di un corpo di giudici» che mancano al «dovere dell’imparzialità» e «abdicano alle funzioni istituzionali» diventando, per usare le parole di Giovanni Colli, all’epoca Procuratore Generale della Cassazione, «soltanto i gestori di un potere arbitrario». L’inchiesta denunciava gli strumenti - accelerazioni od omissioni o ritardi dell’azione giudiziaria ovvero anche sentenze politiche ispirate a una concezione classista della giustizia - attraverso i quali la parte più politicizzata della magistratura si dava da fare per portare avanti un disegno, in sostanza, eversivo.


E denunciava, per inciso, come si fosse costituita di fatto - attraverso associazioni di magistrati articolate in correnti e sottocorrenti ideologizzate - una vera e propria «partitocrazia giudiziaria». E, ancora, sottolineava come fosse invalsa la moda persino di rispondere con inammissibili «controinaugurazioni» dell'anno giudiziario alle preoccupate denunce provenienti da alti e coraggiosi magistrati decisi a difendere l'indipendenza della magistratura dalla politica militante.

Roba vecchia, si dirà. Roba di trentasei anni or sono. Roba da Prima Repubblica, di una Prima Repubblica, per di più, la cui classe politica era giudicata impietosamente da un sondaggio della Demoskopea, pubblicato nello stesso numero del periodico, che rivelava come solo il 2% degli intervistati ritenesse che i governanti italiani fossero migliori di quelli di altri paesi. Roba vecchia e datata, dunque. Certamente, ma, purtroppo - e fa impressione che qualche modus operandi è cambiato, ma la sostanza - l'ingerenza del giudiziario e le sue pretese di porsi al di sopra dell'esecutivo e del legislativo - è rimasta la stessa. Per esempio, sono scomparse le «controinaugurazioni» degli anni giudiziari ma, al loro posto, sono apparse pittoresche e non meno inammissibili «contestazioni» di quegli stessi eventi.

Ancora, ai sottili tentativi di sostituirsi al legislativo attraverso l'emanazione di sentenze che di fatto snaturavano la legge ricorrendo alla cosiddetta «interpretazione evolutiva» della norma è subentrata la prassi del ricorso a una Corte Costituzionale la quale, attraverso sentenze politicizzate che sono talora veri e propri esercizi di sofismi giuridici, annullano, snaturano o riscrivono le norme. La verità è che il problema della politicizzazione della magistratura, o quanto meno di una parte di essa - e, quindi, del traviamento della civiltà giuridica italiana - ha radici lontane che risalgono ai primi tempi della Repubblica e si ricollegano alla gestione da parte di Palmiro Togliatti del ministero della Giustizia. È storia di ieri, che però non ha esaurito le sue conseguenze. Molta acqua, da allora, è passata sotto i ponti, ma la presenza invasiva della cultura e della mentalità gramsci-azionista, in combutta con il cattocomunismo, si è radicata nei gangli più delicati e vitali del corpo della società italiana, magistratura compresa.

La caduta del muro di Berlino e la fine dei regimi fondati sul cosiddetto socialismo reale hanno distrutto, forse, le illusioni della creazione di una società comunista, ma non sono stati sufficienti per generare degli anticorpi capaci di bloccare i germi patogeni della degenerazione del sistema democratico e liberale fondato sull'equilibrio dei poteri. Anzi. La stagione di «tangentopoli» animata da un giacobinismo giudiziario portato avanti da magistrati che Sergio Romano ebbe a definire icasticamente «Ayatollah della Repubblica» ha realizzato la decapitazione di un'intera classe politica grazie, per usare una espressione di Francesco Cossiga, a un vero e proprio «colpo di Stato legale». Tutto ciò ha comportato non soltanto l'eclissi della politica, indebolita e frastornata, ma anche una vera e propria alterazione dell'equilibrio dei poteri dello Stato, al punto che la magistratura, la magistratura militante, divenuta sempre più un blocco corporativo, ha finito e finisce per dominare la scena pubblica, per occupare spazi e dettare regole.

È diventata, insomma, questa magistratura militante, un vero e proprio «contropotere» che considera strumento legittimo di lotta politica l'uso e l'abuso dell'amministrazione della giustizia. Si tratta di una anomalia, tutta italiana, che fa sì che il problema della cosiddetta riforma della giustizia sia davvero, oggi, una priorità per il governo.


lundi, avril 18, 2011

Un'immagine da difendere

Un'immagine da difendere - Corriere della Sera
Un'immagine da difendere

di   Antonio Polito    corriere.it          18 aprile 2011

Ci sono molte ragioni per deprecare Berlusconi (alcune delle quali riguardano proprio i suoi comizi di questi giorni). Ma non c'è nessuna buona ragione per deprecare anche l'Italia e la storia d'Italia al fine di condannare il suo premier pro tempore.
E invece è proprio questo il vizietto che si nasconde dietro quella che è ormai diventata una specie di formula retorica ripetuta all'infinito dai critici di Berlusconi, i quali sembrano tutti avere un amico all'estero che gli chiede stupito: ma come mai gli italiani non se ne liberano? Domanda che sottintende quantomeno una nostra immaturità democratica, se non una congenita attitudine al servaggio, cui viene contrapposta la superiorità di virtù civiche dello straniero.

Un'eco di questa sgradevole auto denigrazione nazionale si trova spesso nelle corrispondenze sulla stampa estera, dove sono invece gli autori stranieri ad avere amici italiani che vorrebbero liberarsi di Berlusconi. Sul New Yorker, prestigioso settimanale americano, è per esempio appena uscito un lungo saggio di Tim Parks - scrittore inglese da trent'anni espatriato in Veneto - secondo il quale le «stravaganze» politiche dell'Italia odierna affondano le radici in un'Unità fasulla e immeritata. Recensendo tre volumi pubblicati all'estero in occasione del 150°, vi si sostiene infatti che la nascita stessa della nazione non fu altro che un «colpo di fortuna», che «la grande maggioranza degli italiani non ha cercato l'unità e anzi molti l'hanno combattuta», e che la sua sopravvivenza fu assicurata solo dal «gioco di potere» tra potenze straniere. Un «infelice anniversario», dunque, ciò che celebriamo quest'anno: «Una coppia sull'orlo del divorzio certo non gioisce per l'anniversario del proprio matrimonio».

Verrebbe da ricordare che ogni processo di unificazione nazionale ha le sue magagne: negli Stati Uniti è passato per una sanguinosa guerra civile, e nel Regno Unito per la sottomissione violenta dell'Irlanda e della Scozia. Ma ciò che conta osservare è che la polemica pubblica anti berlusconiana sconfina sempre più spesso in una contestazione delle basi stesse dello Stato democratico e unitario. Come se solo in una nazione fallita potesse verificarsi un simile fenomeno politico.

Questo slittamento logico andrebbe contrastato con fermezza e buoni argomenti dagli intellettuali, italiani all'estero o stranieri in patria che siano. Ma specialmente da chi in Italia intende fare opposizione a Berlusconi, perché un discorso anti patriottico e denigratorio è politicamente suicida. Purtroppo non avviene. Non tutti i critici del premier arriverebbero infatti a sognare un golpe democratico come ha fatto Asor Rosa; ma molti si auspicano che la scossa per ottenere ciò che a loro non riesce in patria venga dall'estero, da una battuta di Sarkozy o di Obama, da un'agenzia di rating o dal discredito sulla stampa.

Non è solo una speranza mal riposta. È anche un po' umiliante per un Paese che non è figlio di un dio minore; e che dunque, come tutte le nazioni democratiche, è geloso del suo diritto a scegliere da solo.




Asor Rosa chiede il golpe ma è distratto: già fatto, dai politici contro la politica


Una elettorale demenziale e il gioco è fatto: così il Palazzo sfiducia i cittadini e si suicida

di Gianpaola Pansa   libero-news.it   20110418



Come succede spesso ai cervelloni della sinistra più vecchia, anche il professor Alberto Asor Rosa non si è accorto di quanto è accaduto all’esterno del suo studio. Qualche giorno fa, in un articolo sul «Manifesto», si è augurato l’avvento di un colpo di Stato in Italia. Un golpe vero, con tanto di carabinieri, di poliziotti, di militari in assetto di guerra. A favore di chi? Confesso di non averlo capito. Contro chi? Questo mi è risultato chiaro: contro il caimano Berlusconi e quella parte d’Italia che lo ha votato.
È un gran distratto, il professor Asor Rosa. Nessuno gli ha spiegato che il colpo di Stato è già avvenuto. A farlo è stata l’intera casta politica a danno di se stessa. Non era mai successo che una gigantesca lobby formata da tutti i politici avesse creato le condizioni per spararsi un colpo alla nuca. In Italia è accaduto e continua ad accadere. Tanto che ogni giorno i cittadini senza potere si domandano se l’attuale regime parlamentare sia ancora in grado di governare il paese.
Il primo passo del golpe è stato di negare agli elettori il diritto di scegliersi il proprio rappresentante in Parlamento. La legge elettorale in vigore non è affatto «una porcata», come l’ha definita uno dei suoi inventori, il leghista Roberto Calderoli. È assai peggio: una truffa che consente alla casta interpartitica di perpetuare se stessa. Mandando in Parlamento non i migliori, bensì i più fedeli, per incapaci o disonesti che siano.
Quella legge è la più scandalosa norma “ad personam” voluta dal ceto politico per tutelare i propri interessi. In confronto, le leggi personali tanto amate da Berlusconi sono regolette da oratorio. Tanto è vero che neppure le opposizioni di sinistra hanno mai fatto un passo vero per abolire la Porcata.
Di conseguenza, i cittadini che hanno ancora interesse alla politica disprezzano l’intero Parlamento. Il diluvio di retorica sull’unità d’Italia, sull’orgoglio nazionale e sull’uso della bandiera tricolore non ha fatto che accentuare la loro rabbia. Se leggono qualche giornale o vedono almeno un tigì, si rendono conto che il golpe attuato dai politici sta facendo piazza pulita di ogni decenza.
Alla Camera e al Senato dilagano le urla, le risse, gli insulti, persino le sparate di cartelli diffamatori. I talk show televisivi sono partite di pugilato tra membri della casta, quasi sempre aizzate da conduttori che non sono arbitri, bensì boxeur faziosi. Ciascuno pensa alla propria bottega, che bisogna arricchire senza riguardi per l’etica. La corruzione è di nuovo tornata ai livelli di Tangentopoli. Ma stavolta un buon numero di magistrati non è più considerato un tutore imparziale della legge, bensì un militante che ingaggia uno scontro mortale con l’avversario.
La casta golpista fa orecchie da mercante nei confronti del clima di odio politico che ci tormenta da almeno un paio d’anni. Le aggressioni verbali e fisiche, ormai quasi giornaliere in tante città, non vengono più condannate sulla base del rischio che rappresentano per l’ordine civile. Se giovano alla tua fazione, tutto bene. Se colpiscono i tuoi sodali, tutto male. Accadeva così trent’anni fa, al tempo del terrorismo trionfante. E oggi scorgiamo tutte le premesse perche avvenga di nuovo.
Il golpismo politico si rivela anche suicida. I blocchi partitici che si scannano ricordano le antiche navi dei folli: un vascello senza nocchiero nel mare in burrasca. Nel veliero del centro-sinistra non esiste un comandante. Tutti pretendono di essere il leader e di guidare un equipaggio in rivolta perenne.
Il centro-destra un leader ce l’ha ancora, il Cavaliere. Ma pure lui è alle prese con troppi serpenti sotto le foglie. Vive nel sospetto di una rivolta interna. C’è da augurarsi che il bravo dottor Zangrillo, il suo medico personale, riesca ancora per un po’ a mantenerlo in forma dal punto fisico e mentale. In caso contrario, per la maggioranza sarebbe la fine.
Del resto, anche il partito di Berlusconi è al collasso. La Democrazia cristiana di un tempo era un blocco granitico rispetto al Pdl di oggi. Qui il collante del potere non regge più. Assistiamo a un via vai di piccoli ras che entrano ed escono dalla maggioranza, alla ricerca di posti e prebende. C’è un vortice di cene, di patti siglati e subito traditi, di intenzioni non rivelate, che esplodono come tante bombe a grappolo. Può il governo affrontare gli enormi problemi che assillano la società italiana? Sto pensando alle incertezze dell’economia mondiale, al ribellismo dei giovani, alla polveriera africana, al crescere impetuoso dell’immigrazione clandestina.
Scrivo queste righe con malinconia. E con lo struggimento che afferra un cittadino onesto nel constatare che forse non c’è rimedio al caos golpista. Venerdì 15 aprile due parlamentari dei blocchi opposti, Giuseppe Pisanu e Walter Veltroni, hanno occupato uno spazio importante del “Corrierone” per suggerire un governo in grado di cambiare la legge elettorale. Mi è sembrato il rimedio dell’aspirina per guarire un malato di cancro.
Una soluzione ci sarebbe: mettere da parte i golpisti e affidare la guida del governo a uomini eccellenti estranei alla casta. Ma anche questa, forse, è un’utopia. Gli uomini giusti esistono, però non osano pronunciarsi. Temono di essere massacrati dai golpisti. Invece dovrebbero osare, mostrando coraggio e sincerità. Se nel passato di qualcuno di loro c’è una macchia, venga dichiarata senza timore. In caso contrario, non ci illudano. E assistano, impotenti come noi, al disastro prossimo venturo.


vendredi, avril 15, 2011

Il disertore

Il disertore | The Frontpage
Il disertore

di FR  thefrontpage.it   20110415

Comincio oggi a scrivere sul Giornale. È una scelta importante per la mia vita professionale, e anche per la mia biografia politica. Il Giornale, come tutti sanno, è un quotidiano di centrodestra: di più, è il giornale della famiglia Berlusconi; io invece ho passato praticamente tutta la vita nella sinistra, dalla Federazione giovanile comunista fino al Partito democratico, e la sinistra è anche oggi la mia casa.

Vorrei qui brevemente spiegare le ragioni della mia scelta.

Ho chiesto io ad Alessandro Sallusti una collaborazione, dopo essere stato allontanato dalla Stampa da Mario Calabresi. Gli ho chiesto ospitalità perché voglio continuare a scrivere su un quotidiano, perché è questo che ho imparato a fare quasi venticinque anni fa all’Unità di Renzo Foa e di Piero Sansonetti, perché è un lavoro che mi piace, e perché credo di avere delle cose da dire.

I giornali della sinistra grandi e piccoli non sgomitano per pubblicare i miei articoli: le ragioni sono diverse, ma in fondo si riducono ad una: una mia certa estraneità culturale e politica al mainstream buonista-giustizialista che ha egemonizzato il centrosinistra italiano. Ciò nondimeno, nonostante questa lontananza e senza alcun rancore o presunzione di verità, non mi considero meno di sinistra di quanto lo fossi a sedici anni, quando mi iscrissi al Pci di Berlinguer. Sono cambiato io, ma è cambiata anche la sinistra italiana.

In altre parole, mi considero un esule. E come tutti i senzapatria vado in cerca d’asilo. Si tratta fondamentalmente di un problema di libertà: la Seconda repubblica ha via via trasformato il dibattito pubblico in uno scontro di ultrà, sempre più arrabbiati e sempre più tristi, che si sparano addosso e si coprono di insulti mentre un certo numero di brocchi nell’indifferenza generale gioca sempre la stessa partita.

Esiste oggi una diaspora della sinistra (come ne esiste una della destra) che non porta il cervello all’ammasso del capotribù e che si è stufata della propaganda feroce in cui da troppo tempo siamo costretti. È una diaspora liberale e libertaria, muta e dispersa e spesso avvilita, ma fermamente indisponibile a continuare la ridicola guerra civile fredda che paralizza l’Italia da quasi vent’anni, costringendo ciascuno di noi ad arruolarsi nell’una o nell’altra armata fondamentalista, pena l’accusa di alto tradimento. La diaspora è individuale e spesso interiore, ma di questa nostra sgangherata Seconda repubblica potrebbe persino costituire la vera maggioranza silenziosa. Non pretendo di rappresentarla, ma sento di appartenervi.

Noi siamo i disertori. Ce ne siamo andati dalle nostre caserme perché questa, se mai lo è stata, non è più la nostra guerra, e perché vorremmo discutere in un altro modo, occuparci di altre cose, votare altri leader. Ho avuto asilo da Alessandro Sallusti, e di questo ringrazio lui e il Giornale. Ora la mia libertà dipende soltanto da ciò che scriverò.


L’alternativa in mano ai brigadieri

Il Riformista
L’alternativa in mano ai brigadieri

di Stefano Cappellini      ilriformista.it   20110415


Facciamoci del male. Asor Rosa propone un golpe, un governo militare d’emergenza per liberare il paese da Berlusconi. Non è uno scherzo. E nemmeno una pazzia isolata. È solo l’ultimo atto di mutazione antropologica di una sinistra, o pseudo-tale, che ha seppellito la questione sociale e trasformato l’alternativa al Cavaliere in una faccenda di manette e tribunali. Che alza lo share e la tiratura. Ma non riempie le urne.
©Mauro Scrobogna / Lapresse Nella foto: L'intelettuale Alberto Asor Rosa
Vedi come cambiano i tempi. Una volta aprivi il manifesto e ci trovavi i consigli su dove e come dormire fuori casa la notte per non farti trovare dai militari in caso di golpe. Oggi sul quotidiano comunista ci trovi Alberto Asor Rosa che propone di dichiarare lo stato di emergenza e di mandare al governo polizia, carabinieri e magistratura. Il golpe lo vuol fare Asor, insomma. Ma un golpe “buono”, per liberare il paese da Silvio Berlsuconi. Siccome «c’è una obiettiva frantumazione delle regole ed è opera del capo del governo», ha ribadito ieri a Repubblica lo storico della lettaratura ed ex deputato del Pci , allora «dobbiamo fare tutto il possibile per evitare il peggio».
Il piano Asor lo si potrebbe rubricare alla voce follie di primavera. Ma sarebbe un errore. Anzi, peggio, sarebbe solo un modo per mettere la testa sotto la sabbia.
È più onesto raccontarsi a viso aperto che cosa è diventato un pezzo enorme della sinistra di questo paese, la sua spaventosa mutazione antropologica, soprattutto il suo essere la migliore garanzia di lunga vita politica per Berlusconi.
Innanzitutto, perché questa è l’opposizione che Berlusconi sogna. Ci va a nozze. Ci sguazza. Perché è un’opposizione che fa di tutto per adeguarsi al vestito che la propaganda berlusconiana le ha cucito addosso. Avete presente la vulgata sulla sinistra tecnocrate, elitista, collaterale ai poteri forti, mandante dei pm, allergica al suffragio universale? In due giorni di esternazioni, Asor l’ha incarnata a perfezione, fornendo alla macchina mediatica del Cavaliere la possibilità di sferrare una controffensiva per oscurare almeno in parte l’approvazione dell’ennesima scandalosa legge ad personam.
Ma l’idea che ci si possa liberare di Berlusconi mandando l’Arma a Palazzo Grazioli, come le comari di De Andrè con Bocca di Rosa, è conseguenza di una degenerazione ideologica che parte da lontano e che oggi ha dilagato, soprattutto tra i più giovani. Il giustizialismo che s’è divorato centinaia di migliaia di intelligenze non è solo la puerile e fanatica convinzione che la magistratura sia “i buoni” e la politica i “cattivi”. È una delega - per molti inconscia, per altri apertamente teorizzata - concessa a chi dovrebbe disarcionare il Cavaliere con mezzi esterni alla politica: magistratura, polizia, carabinieri. Il giustizialismo è il figlio degenere della incapacità, divenuta cronica col passare degli anni, di comunicare e spiegare al paese, di coltivare il proprio insediamento sociale e di corteggiare quello altrui.
Berlusconi è un premier indegno di guidare il paese. E lo è anche a causa dei suoi problemi giudiziari. Resta il fatto che è stato democraticamente eletto, che continua a governare in virtù di una maggioranza in Parlamento, sebbene razzolata a suon di compere, e che per mandarlo a casa serve una coalizione capace di sconfiggerlo con le armi della politica.
Si rimprovera al Partito democratico di non essere stato in grado di attrezzare un’alternativa convincente. Vero. Peccato che a rimproverare questo torto al Pd, e a imputargli di non essere più un partito di sinistra, è una massa di impresentabili che pare uscita fuori da un film sui colonelli greci. Professori che invocano lo stato di emergenza, opinionisti che lavorano solo sulle veline delle Procure, comici guru che si esprimono invasati e inqueitanti sul loro blog sostenendo il superamento di destra e sinistra e diffondendo la rozzezza come metodo di lettura dei fatti d’attualità. Sono loro, la sinistra? L’alternativa? O magari lo è Di Pietro, l’ex pm caudillo de noantri, che non ha alcuna idea politica propria, ma che è considerato da milioni di elettori l’unico vero oppositore di Berlusconi?
Questa cricca non sa più cos’è lo Stato di diritto, se mai l’ha saputo, non porta una sola idea per sconfiggere Berlusconi che non siano gli auspici di carcerazione e le urla di impeachment giudiziario. Questa congrega di brigadieri dell’opposizione ha rimosso la questione sociale, o magari l’ha capovolta, perché non è raro imbattersi in editorialisti che a pagina uno fanno tintinnare le manette e a pagina due sposano acriticamente la causa di Marchionne, con tanti saluti alle ragioni e al voto operaio. Questa schiatta di furbacchioni vende giornali, dvd, magliette e spaccia il successo del merchandising per successo politico, come se le elezioni si vincessero a colpi di share o di tirature, e non coi voti dei cittadini.
Questi professionisti della purezza invocano l’arresto preventivo di un senatore (parliamo di Alberto Tedesco) a due anni dai fatti contestati, quando palesemente non sussiste oggi altra ragione di ammanettarlo se non quella di sancire la supremazia di un ordinamento di potere sull’altro, e magari ne fanno pure una questione dirimente di coscienza e trasparenza, come la professoressa De Monticelli, che si è prodotta sul Fatto in una struggente articolessa invocando pure lei i carabinieri sull’uscio di casa Tedesco. Perlomeno, a differenza di Asor, De Monticelli si accontenta delle manette, senza pretendere che la sera i militi si spostino a Palazzo Chigi a presiedere il governo d’ermergenza.


jeudi, avril 14, 2011

Rivalutare lo yuan cinese? Serve a poco. Per capire perché seguite l'itinerario globale dell'iPhone...

Rivalutare lo yuan cinese? Serve a poco. Per capire perché seguite l'itinerario globale dell'iPhone... - Il Sole 24 ORE
Rivalutare lo yuan cinese? Serve a poco. Per capire perché seguite l'itinerario globale dell'iPhone...

di Vittorio Carlini  ilsole24ore.com     20010414



Lo yuan ai massimi sul dollaro ma la sua rivalutazione non serve. Lo dice l'iPhone (AP Photo)Lo yuan ai massimi sul dollaro ma la sua rivalutazione non serve. Lo dice l'iPhone (AP Photo)
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Lo yuan, o il renminbi, ha raggiunto il suo livello più alto verso il dollaro: 6,5339. Una salita di 30 punti base che dovrebbe fare un po' contenti gli americani. Una moneta cinese forte agevola l'export dell'America e può dare il «la» a un riequilibrio della bilancia commerciale tra Washington e Pechino.

La geopolitica dell'iPhone (di Riccardo Barlaam)

Le cose, però, non stanno proprio così. E a dircelo è l'iPhone. Un importante economista, Yuquing Xing direttore del programma economico asiatico all'istituto di politica economica di Tokyo, ha analizzato il costo industriale del famoso telefonino della Apple.

Ecco il ragionamento di Xing. «Lo smartphone è progettato e commercializzato dalla Apple. Ma, a parte il software e il design, la sua realizzazione prende piede fuori dagli Usa». In generale la filiera industriale coinvolge nove aziende situate in Cina, Corea del Sud, Giappone, Germania e Stati Uniti.

La filiera globale dell'iPhone
Il suo costo industriale è di 178,96 dollari (nel 2009). Questi, riguardo i maggiori componenti, sono così suddivisi:

60,6 dollari sono "spesi" in Giappone con le aziende Toshiba e Murata che producono dalla Flash memory al Touch screen fino alla Fem;
23,1 dollari appartegono alla Corea del Sud con la Samsung che realizza il microprocessore e il moduolo di memoria Ram;
altri 38,65 dollari sono "sostenuti" in Germania dove Infineon e Dialog Semiconductor producono dal modulo radio 3G al sensore della videocamera fino al ricevitore Gps;
10,75 dollari sono attribili all'americanaCirrus Logic, Broadcome e Numonyx per l'elaborazione delle tecnologie usate nei segnali audio nel Bluetooth e nella memoria Mcp;
I restanti 54,5 dollari sono suddivisi tra ulteriori costi per i materiali (48 dollari) e la manodopera (6,5 dollari).

La bilancia commerciale
Ebbene, i 178,9 dollari di costo industriale, visto che l'iPhone è assemblato nella fase ultima in Cina, «valgono 2 miliardi di dollari in esportazioni da Pechino verso gli Stati Uniti. Assumendo -dice Xing -che le parti prodotte in America valgano 121,5 milioni, l'importazione dello smartphone contribuisce per 1,9 miliardi al deficit commerciale sino-americano . Cioè lo 0,8% di tutto il deficit».

E però, come si è visto, molti dei costi industriali nulla hanno a che fare con la Cina. «I lavoratori cinesi, 6,5 dollari, incidono per circa il 3,6% del totale. Alla fine - sottoliena Xing -, il tradizionale calcolo della bilancia commerciale è sbagliato: considerare tutti i 178,98 dollari quali export verso Washington, in quanto il cellulare viene trasportato via mare da Pechino agli Usa, non è un atteggiamento corretto».

Una bilancia multi-stato
Scomponendo, a livello aggregato, l'impatto attribuito all'iPhone sul deficit commerciale si vede che il 94,6% è da attribuire a trasferimenti dalla Germania, dal Giappone, dalla Corea del Sud, dagli Stati Uniti e da altri stati. Una filiera ex Cina che arriva circa a 1,8 miliardi. Alla fine, insomma, il reale impatto dell'iPhone sull'export cine se è molto, molto basso. Il messaggio di Xing è che l'iPhone, ma l'esempio è applicabile a moltissimi altri prodotti, "inflaziona" il deficit commerciale.

L'effetto rivalutazione
Di più: un eventuale rivalutazione dello yuan non avrebbe tutti gli effetti desiderati. «Se il renminbi si apprezzasse del 20%, le conseguenze si avrebbero solamente sui costi di assemblaggio dell'iPhone che salirebbero a 7,8 dollari per unità (da 6,5), aggiungendo semplicemente 1,3 dollari ai costi industriali totali. Cioè, lo 0,73 per cento».

Il costo della manodopera
Certo, la rivalutazione dello yuan ha diverse conseguenze sul piano delle materie prime e sull'export di prodotti pensati, realizzati, commercializzati in Cina. E, tuttavia, molti dei device che costituiscono l'export verso il mondo industrializzato occidentale si trovano nella stessa situazione dell'iPhone. Dove, al 2009, gli eventuali effetti di un caro-yuan si avrebbero solo sulla manodopera, producendo un effetto insignificante.

Anche perché l'aumento sarebbe «certamente scaricato sul consumatore finale americano e la domanda aggregata Usa sul prodotto tecnologico non sarebbe "sollecitata"». La produzione globalizzata richiede approcci più sofisticati per difendere la produzione nazionale: la semplice rivalutazione monetaria, o la creazione di fondi antiscalata, sono meccanismi scarsamente efficaci. Pannicelli caldi...


Tendenza golpe

Tendenza golpe | The Frontpage
Tendenza golpe

di Kuliscioff   thefrontpage.it   20110414

Alberto Asor Rosa lo vuole serio: con i carabinieri e la polizia. Lo vuole vero, il golpe: una guerra civile. Come in Libia, come in Egitto. È un trendy, Asor Rosa. Ha capito che il modo più fico per fare la rivoluzione, per farsi amare e per stupire le monde entier è fare il regime change. Ma non uno banale: il regime change che proprio non t’aspetti. Far sparire Mubarak, sollevare Gheddafi. Rimuovere Berlusconi. Rimuovere Berlusconi? Impossibile, attraverso i metodi costituzionalmente sanciti, almeno. È così che si dicono tra di loro, i sinistri. Lui ha la tele, i dané. È per questo che vince.

Bizzarro: anche il Labour pre Blair sosteneva che la Gran Bretagna fosse geneticamente di destra: se no – dicevano – com’è possibile che continuino a votare Thatcher. Votavano Thatcher – si scoprì con Blair – semplicemente perché il Labour prospettava loro l’annichilimento delle loro ambizioni. Non è servito fare la rivoluzione, per sconfiggere i thatcheriani: è bastato offrire al paese un progetto, dimostrare di crederci, non temere di mostrarsi, persino loro, un po’ thatcheriani, come la maggioranza di quel paese che la Thatcher l’aveva voluta al governo, riconfermandola poi una volta e un’altra… finché la Thacher ha esaurito le sue risorse e non è spuntato un altro – non importa di che partito – un altro che, come la Thatcher di un tempo, sapesse coglierne le ambizioni, sapesse prospettare una strada per realizzarle.

Ma, dicevamo, Asor Rosa. Il quale, a differenza di Blair, non è più giovanissimo. E certo, è comprensibile: avrà fatto due conti; avrà realizzto che le vie costituzionali non sono più percorribili per restaurare la democrazia, quella vera, in tempi anagraficamente compatibili con i già anziani mentori della rivoluzione sessantottina. La democrazia di cui lui, comunista resistenziale, ha certo ben presenti i principi. Avrà capito, Asor Rosa, che occorre agire, subito, per non rischiare di morire marginali, storicamente sconfitti, politicamente umiliati, culturalmente sepolti. Se non ora, insomma, quando? Se non ora che i sinistri sono diventati guerrafondai e i destri pacifisti, quando più si ripresenterà l’opportunità di scrivere un bel corsivetto su il Manifesto; un pezzo audace, maschio nel quale argomentare la necessità, la possibilità, la moralità di un golpe militare che faccia fuori l’anti-democratico puttaniere?

Figurarsi, e chi non lo vorrebbe! Ma dico, l’avete visto à coté della Meloni, a dispensare battutacce da trivio-night ai ‘cervelli’ della nostra accademia? Avrà bevuto, avrà pippato? Mah! Certo, dura da sostenere, la performance, fuori dal contesto – chessò – di una Ong dedicata al recupero dei malati di mente!

Il golpe, allora. Il compagno Asor Rosa, va riconosciuto, è assai più avanti dei suoi meno attempati emuli. Chi, a cospetto di quel viralizzatissimo video con la lectio magistralis del presidente del Consiglio sulle annichilenti regole del venditore di polizze fake, non ha pensato che un golpe, a questo punto, fosse un’opzione dovuta, moderata addirittura?

Gli avranno parlato di Facebook, ad Asor Rosa. Gli avranno detto che ora, le rivoluzioni, si fanno così. Che le rivoluzioni, quindi, possono addirittura tornare ad essere uan cosa trendy, proletaria, perché si fanno con le facce virtuali che improvvisamente si materializzano in corpi reali: una figata meta-sovrastrutturale. Gli avranno detto anche che i paesi in cui il regime change è stato fatto davvero, pur nella loro sostanziale diversità, hanno una caratteristica comune: non erano democrazie. Beh, se è per questo, manco l’Italia lo è. Infatti, carabinieri e poliziotti permettendo, questa storia del golpe – va riconosciuto – non è mica così peregrina: intercetta un trend, e chissà che quel trend non intercetti anche i bisogni profondi della nostra economia nonché del nostro catacombale establishment imprenditoriale.


Lombardo e i garantisti all’italiana

Lombardo e i garantisti all’italiana | The Frontpage


          Lombardo e i garantisti all’italiana

di Giuseppe Alberto Falci in Pd e dintorni  thefrontpage.it     20110413


“Il segretario Bersani dovrebbe dire che questa situazione non è più eticamente sostenibile e il Pd dovrebbe ritirare il suo appoggio alla Giunta. Perché i democratici che hanno chiesto e ottenuto le dimissioni del sottosegretario Cosentino non fanno lo stesso con Lombardo?”.

Chiamiamolo “garantismo all’italiana”, o se preferite de ‘noantri, ma il ragionamento di Ignazio Marino, intervistato ieri da Wanda Marra del Fatto, rientra in quella consuetudine tutta italiana di essere garantisti con gli amici e giustizialisti con gli avversari. E i democrat, per non essere da meno, vogliono rispettare quest’abitudine tutta italiana. Infatti che fanno? Al Nazareno non si esprimono sul “caso Sicilia”: preferiscono tacere. D’altronde come segnalava ieri la rubrica del Foglio “Passeggiate romane”, “la maggioranza del partito, nell’isola, non vuole sentir parlare di mollare la giunta ed è sulla stessa linea del Fli locale, che con Granata sostiene che Lombardo farà le riforme necessarie per la Sicilia”.

Ma stamane il regista dell’operazione Lombardo-quater, stiamo parlando di Antonello Cracolici, dalle colonne dell’edizione palermitana di Repubblica, forse sotto suggerimento dei veritici nazionali, rompe il silenzio, confermando che “per Lombardo applicheremo le regole previste dal nostro statuto per i nostri iscritti: un rinvio a giudizio non permette una candidatura”. Però poi raddrizza la mira: “Ma non siamo bacchettoni”. Secondo il capogruppo all’Ars dei democrat, “qualcuno potrebbe approfittare della nostra cultura politica. E trarre giovamento da una posizione di intransigenza per cancellare quanto di buono fatto dal governo Lombardo fino ad ora”. Perché, continua Cracolici, “il primo a brindare a champagne, se Lombardo cadrà, sarà Silvio Berlusconi”.

Ergo il Pd, onde evitare di cascare nel trappolone del circuito mediatico-giudiziario e del più becero giustizialismo, e perdere la guida di una fra le regioni più berlusconiane d’Italia, ritiene opportuno “non perdere la calma”. Anzi. “Bisogna studiare una terza via”. L’assemblea regionale convocata per l’8 maggio probabilmente verrà rimandata per non danneggiare il partito in vista dell’appuntamento delle amministrative del 15 maggio. E sarà “opportuno” svolgere una riunione di segreteria e confrontarsi lì. Salvo contrordini dal Nazareno, o dalle compagnia dei garantisti all’italiana.


E Feltri sta con Bobo: "Bruxelles vada all'inferno"


E Feltri sta con Bobo: "Bruxelles vada all'inferno"




L'Unione ci riserva solo fregature: dimezziamo il debito e poi usciamone / VOI CHE NE PENSATE?


di Vittorio Feltri  libero-news.it   20110413

Il ministro dell’Interno Roberto Maroni, scornato perché l’Europa rifiuta di darci una mano nella gestione disperata dell’emergenza immigrati (sottovalutata anche dai cittadini italiani), si è pubblicamente chiesto: «Perché stare nell’Ue?». Comprendo il suo stato d’animo, che è anche il nostro e non da ieri. Ma la risposta al quesito è una sola: abbiamo un debito pubblico mostruoso e siamo costretti a emettere Bot a tonnellate, molti dei quali sottoscritti da Paesi della comunità. Se l’Italia uscisse dal club, le aste dei nostri titoli di Stato rischierebbero di essere mortificate. Il che ci costringerebbe a portare i libri in Tribunale, come si dice per le aziende in fallimento.

Tutto qui. Non c’è altra ragione per rimanere agganciati a Bruxelles e Strasburgo, pachidermi burocratici cui abbiamo dato molto senza ricevere nulla in cambio, se non umiliazioni come quella inflittaci da Francia, Germania e Inghilterra sui profughi. Parliamoci senza ipocrisie. Abbiamo sempre avuto un complesso di inferiorità nei confronti delle Nazioni a Nord e a Ovest della nostra, e abbiamo cercato di superarlo sognando di entrare in società con esse. Ecco perché partecipammo con entusiasmo alla fondazione della Unione europea, che inizialmente aveva un’altra denominazione: Mec ossia Mercato comune europeo.

Ci eravamo illusi, sedendo a tavola coi grandi, di sentirci un po’ meno piccoli. E invece abbiamo continuato a comportarci da nani col risultato di farci considerare tali. Basti pensare a quando eravamo in procinto di entrare nella moneta unica. Romano Prodi, allora premier, ci obbligò a sopportare un supplemento di torchiatura fiscale: la cosiddetta tassa per l’Europa (che seguiva manovre finanziarie sanguinose) finalizzata a farci raggiungere i parametri minimi imposti dai trattati. Conquistato l’euro, organizzammo una gran festa nella capitale belga cui fui invitato anch’io. Dovevate vederli gli italianucci come brindavano all’evento; sembrava avessero vinto al Superenalotto. Viceversa inneggiavano a una fregatura. Perché il Professore, ebbro per l’obiettivo centrato («non siamo stati esclusi dall’Olimpo»), concordò un cambio da strozzo: 1936 lire per un euro. Un suicidio. Esaurita l’euforia di chi, nonostante le pezze al culo, è stato invitato a corte, ci accorgemmo ben presto di essere ancora più poveri.

Nei primi anni del terzo millennio, Libero svolse un’inchiesta che dimostrò come il potere d’acquisto degli stipendi fosse stato quasi dimezzato. Un dato di fatto incontrovertibile. Ciò che fino a un paio di anni prima era costato mille lire, ora costava un euro. Bell’affare. Fummo accusati di irresponsabile antieuropeismo, di cecità, leghismo, egoismo. Parlare male dell’euro era come sputare su Garibaldi. La mentalità corrente non è mutata: i sudditi di Bruxelles sono ancora convinti sia una immensa fortuna essere soci dell’Ue, anche senza avere diritto ai dividendi, ma col dovere di versare cospicui contributi per pagare le “spese condominiali”.

La domanda del giorno, visto che siamo stati snobbati quando abbiamo reclamato un aiutino ad assorbire i clandestini, è questa: perché contiamo tanto poco in Europa? La sinistra dà la colpa indovinate a chi? A Berlusconi perché negli incontri internazionali fa cucù alla Merkel, e perché la sua sarebbe una politica stracciona. Figuriamoci. Non abbiamo peso adesso (e non lo abbiamo mai avuto) per un motivo drammaticamente semplice: i parlamentari italiani eletti a Strasburgo sono per lo più mediocri, una minoranza sa l’inglese e/o il francese, quasi tutti scaldano lo scranno, non fanno squadra, sono incalliti assenteisti, e nel momento in cui bisogna assumere decisioni importanti non sanno neppure di cosa si discuta. Peggio, si dividono sul voto. Quelli di sinistra poi si divertono un casino a dare addosso all’Italia nella speranza di trarne vantaggi elettorali.
I nostri rappresentanti sono svelti e puntuali ed esperti solamente nella compilazione dei rimborsi spesa e nella riscossione dell’indennità di carica. I colleghi stranieri, consapevoli di tutto ciò, ridono. Ridono degli italiani in genere, giudicandoli pasticcioni, bontemponi senz’arte né parte. Aggiungete che le amministrazioni locali del Mezzogiorno non sono in grado di attingere ai fondi a loro disposizione per realizzare opere infrastrutturali, e il quadro è completo. Da imbecilli ci comportiamo e imbecilli siamo ritenuti.

Così si spiega la nostra irrilevanza. Abbiamo un bel dire che con tutti gli immigrati che ci stanno fra i piedi meriteremmo un ausilio comunitario, in considerazione del fatto che essi, venendo nella nostra Patria, vengono in Europa e creano un problema continentale oltre che nazionale. Francesi e tedeschi ci sfottono apertamente: arrangiatevi.

Dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco o ribellarci? Nel primo caso, smettiamola di piagnucolare e atteniamoci alla volontà della Ue e cerchiamo di migliorare i rapporti con essa. Nel secondo, adottiamo norme speciali (tipo respingimenti), ma non stupiamoci se poi ci buttano fuori dal “consorzio”, e affrettiamoci a dimezzare il debito pubblico rinunciando a che altri ce lo finanzino. È il solito discorso. Si può essere autonomi solo se si è indipendenti economicamente. O si scioglie questo nodo o saremo sempre gregari e immersi nei guai. Guai destinati ad aumentare nei prossimi mesi, perché la guerra idiota che pure noi combattiamo non ha ancora prodotto tutti i suoi effetti nefasti: mezza Africa è in ebollizione e si attrezza per invaderci e islamizzarci. Quando anziché ventimila extracomunitari, ne sbarcheranno qui - e giuro che succederà - duecentomila o due milioni, che faremo? Il cuscus.

di Vittorio Feltri
E Feltri sta con Bobo: "Bruxelles vada all'inferno" - Vittorio Feltri, Roberto Maroni, Unione Europea, Europa, Libero, euro, lira, clandestini, immigrazione, Roberto Maroni - Libero-News.it


mardi, avril 12, 2011

L'ambiente ci rende razzisti? Il caos favorisce gli stereotipi

L'ambiente ci rende razzisti? Il caos favorisce gli stereotipi - Repubblica.it

L'ambiente ci rende razzisti?  Il caos favorisce gli stereotipi

Ricerca olandese su Science: un contesto fisico degradato porta a favorire atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi abbiamo di fronte. Perché "incasellare" corrisponde ad un'esigenza di ordine, anche mentale, universale

di ALESSIA MANFREDI     repubblica.it   2011041


L'ambiente ci rende razzisti? Il caos favorisce gli stereotipi Un esempio della situazione ordinata e disordinata usata nell'esperimento. (Foto del dr. Diederik Stapel)
E' POSSIBILE che il disordine, la spazzatura non raccolta da giorni, il parcheggio selvaggio e le mattonelle rotte per strada possano influire sul modo in cui pensiamo, fino a renderci razzisti? Che l'ambiente in cui ci troviamo abbia un impatto diretto non solo sul nostro umore, ma anche sul nostro modo di pensare, portandoci a ragionare per stereotipi e a discriminare chi ci sta di fronte?

La risposta è sì, stando ad una nuova ricerca olandese pubblicata sulla rivista scientifica Science. Se siamo in un posto ordinato, dove non percepiamo elementi di caos, tutto va bene. Ma se capitiamo invece in contesto trasandato, cambia tutto: siamo portati a semplificare, a usare categorie preconcette anche nella nostra mente. E diventiamo più guardinghi, meno bendisposti verso gli altri, fino alla discriminazione. E' la conclusione cui sono arrivati il dottor Diederik A. Stapel, dell'università di Tilburg, e Siegwart Lindenberg, dell'ateneo di Groningen, in Olanda, dopo due esperimenti sul campo e tre studi di laboratorio. Il messaggio per le amministrazioni ed i governi locali è chiaro, secondo gli scienziati: meglio non chiudere gli occhi di fronte a palazzi fatiscenti, stazioni sporche o ospedali che cadono a pezzi. Intervenire per tempo può evitare l'innesco di una spirale pericolosa e combattere la tendenza agli stereotipi, in situazioni che possono degenerare rapidamente.

Nello studio, durante uno sciopero del personale addetto alle pulizie in una stazione ferroviaria è stato chiesto a 40 viaggiatori
- che si sono trovati così in mezzo alla spazzatura, sparsa ovunque - di scegliere a piacere una sedia dove accomodarsi per completare un questionario sugli stereotipi. Il primo posto a sedere della fila era occupato da una persona di razza diversa rispetto a quella degli intervistati. Lo stesso esercizio è stato poi ripetuto a distanza di un giorno, con la stazione tornata ordinata e pulita. Durante lo sciopero, la gente ha scelto decisamente di sedersi lontano dalla persona di razza diversa, cosa che non è avvenuta quando la stazione era pulita.

Un altro test è stato fatto per strada: ai passanti veniva chiesto sempre di rispondere a un questionario sugli stereotipi in due diverse condizioni ambientali. La prima, in un contesto disordonato e "degradato", con auto parcheggiate male e lasciate coi finestrini aperti, biciclette abbandonate e pavimentazione stradale sconnessa. La stessa strada veniva poi riordinata e l'esperimento ripetuto. Risultato? Nel secondo caso i passanti discriminavano molto meno ed erano maggiormente disposti a fare donazioni a favore delle minoranze etniche. Risultati analoghi si sono avuti in ulteriori studi in laboratorio.

"Come psicologo sociale mi interessa molto come le situazioni concrete, piuttosto che la biologia o i tratti della personalità, possano influenzare il comportamento della gente", racconta il dottor Stapel. I risultati dello studio sono stati un po' una sorpresa. Ce li aspettavamo, ma in modo così netto, dice il ricercatore. "L'idea era provocatoria e rischiosa, perché la gente non avverte in modo consapevole le diverse condizioni di ordine o disordine, durante l'esperimento".

Ragionando a livello di base, l'ambiente ha o non ha una struttura particolare. "Può essere disordinato, asimmetrico, o ordinato e simmetrico", spiega ancora il ricercatore. E uno dei motivi per cui la gente cade negli stereotipi e discrimina nei confronti dell'altro - come è stato rilevato nell'esperimento - è che "incasellando, si dà più facilmente una struttura alla vita, la si controlla meglio". E' quindi logico presumere "che anche le differenze a livello ambientale - ordine o disordine di tipo fisico - influenzino ugualmente il livello di ricorso agli stereotipi". E portino a reazioni altrettanto stereotipate, come mantenere le distanze dall'altro, rifiutarsi di dare una mano a chi ne ha bisogno.

Per gli autori dello studio, il ricorso alla generalizzazione eccessiva e ai luoghi comuni è un "meccanismo mentale di pulizia, che aiuta la gente ad affrontare il caos fisico". Una reazione universale, perché avviene ad un livello cognitivo di base, comune, quindi, a culture diverse e non dipendente da specifici contesti. E che porta a riflettere sui rischi sociali di un improvviso disordine su larga scala, come nel caso di un attentato terroristico, un disastro naturale, una crisi economica o politica: situazioni in cui, a tutte le latitudini, la gente sembra portata a reagire cercando ordine e struttura. "E' uno dei fattori principali che guidano il comportamento", conclude Stapel. "Di fronte alla casualità degli eventi, ai disastri, all'assurdità di tante situazioni, si cerca significato e prevedibilità. E' un'esigenza comune a tutti, in gradi diversi. Che permette di rendere la vita affrontabile".

(12 aprile 2011)


Ecco l'ipocrisia del Pd: boccia il processo breve, ma fino a ieri lo voleva...

Ecco l'ipocrisia del Pd: boccia il processo breve, ma fino a ieri lo voleva... - Interni - Articolo stampabile - Il Giornale.it

Ecco l'ipocrisia del Pd: boccia il processo breve,  ma fino a ieri lo voleva...

di Domenico Ferrara  ilgiornale.it  martedì 2011-04-11

Il Pd tuona contro il processo breve, che oggi si vota alla Camera, ma dimentica che furono i Ds a proporre un ddl nel 2004 che prevedeva le stesse cose del ddl Alfano. Con un'eccezione: la prescrizione valeva per tutti i processi

C’è uno scheletro in un armadio politico che è bene portare alla luce per ridare equilibrio al dibattito sulla giustizia. Uno scheletro chiamato processo breve. E l’armadio che dal 2004 lo nasconde è quello del centro sinistra. Precisamente dei Ds. Perché il 22 gennaio 2004, i primi a scrivere un ddl sul tema furono cinque senatori del partito allora guidato da Piero Fassino. Parliamo di Guido Calvi, esperto penalista, di Elvio Fassone, magistrato di Cassazione, di Alberto Maritati, ex procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, di Giuseppe Ayala, magistrato della procura di Palermo e collaboratore del giudice Falcone e di Massimo Brutti, responsabile giustizia dei Ds. Insomma gente che di giustizia ha molto da insegnare.

Ebbene, cosa prevedeva il ddl? Praticamente provvedimenti simili a quelli presentati dalla maggioranza attuale, come i limiti di tempo per ogni grado di giudizio: due anni per il primo grado, due per l’appello, due per il terzo, per un totale di sei anni di processo. E se i termini vengono sforati? Prescrizione, così come prevede la proposta del Pdl. Ma con un’eccezione abbastanza rilevante però. Nel ddl diessino la prescrizione riguardava tutti i processi, indistintamente, salvo che non fosse stato più conveniente all’imputato applicare la vecchia normativa. Al contrario del ddl attuale che prevede almeno l’esclusione dalla prescrizione per i reati più gravi come terrorismo, mafia, pedofilia, sequestro di persona, sfruttamento della prostituzione minorile, stragi.

Il testo di legge diessino era chiamato "Disposizioni in materia di prescrizione del reato alla luce del principio di ragionevole durata del processo" e prevedeva che "nei procedimenti in corso il termine di prescrizione sarà quello risultante in concreto più vantaggioso per l'imputato, a seconda che si applichi la disciplina vigente o quella di nuova introduzione”. Il ddl alla fine non andò in porto, ma siccome repetita iuvant, appena due anni dopo, precisamente il 26 luglio 2006, la senatrice Anna Finocchiaro, presidente del Pd, firmò il ddl numero 878 insieme a Brutti, Calvi, Casson e Pegorer. E cosa prevedeva questo nuovo testo? Le stesse cose del ddl diessino precedente. Prescrizione "in due anni, sia per la fase delle indagini preliminari, sia per ogni grado di giudizio". Due anni per il primo grado, due per l'appello, due per la Cassazione. A proposito dei procedimenti in corso, la senatrice Finocchiaro e i suoi colleghi scrivevano quanto segue: "Nei procedimenti in corso il termine di prescrizione sarà quello risultante in concreto più vantaggioso per l`imputato, a seconda che si applichi la disciplina vigente (quella in vigore nel 2006 e ancora oggi, cioè la legge Cirielli del 2005) o quella di nuova introduzione" (proposta appunto dai senatori Ds). In pratica una riproposizione identica del ddl dei Ds del 2004.

Ma non è finita qui. Cosa prevedeva il programma elettorale di Veltroni del 2008 in tema di giustizia? Al punto 4, intitolato “Diritto alla giustizia giusta, in tempi ragionevoli”, sono elencati una serie di provvedimenti speculari a quelli proposti dalla maggioranza di governo attuale e cioè: “razionalizzazione e accelerazione” del processo civile e del processo penale, anche attraverso la prescrizione dei reati; snellimento della macchina della giustizia, gestione manageriale degli Uffici giudiziari e processo telematico per eliminare gli infiniti iter cartacei. E nel programma c’era anche il richiamo alla classifica relativa ai tempi della giustizia, in cui l’Italia figura tra gli ultimi posti in Europa.

Ma poco importa se è proprio per ottemperare alla richiesta dell’Ue di “ridurre i ritardi in ambito civile, penale e amministrativo” che il ddl della maggioranza di governo trovi parte del suo fondamento. “Il punto è che, se Berlusconi non ci fosse (però, come sarebbe bello!), questa norma sarebbe l’unica ragionevole tra quelle che compongono il disegno di legge Alfano”: sono parole dell’ex magistrato Bruno Tinti che le scrisse sulle colonne de Il Fatto il 31 agosto 2010. “È per questo che qualcuno dovrebbe spiegare al Pd che accanirsi sull’unica norma ragionevole contenuta nel progetto Alfano non è molto intelligente”, conclude Tinti. Insomma le parole del giornalista Tinti sono la prova provata che quello che conta è andare contro il presidente del Consiglio e strumentalizzare un provvedimento che, al netto del premier, che pure certo ne guadagnerebbe, migliorerebbe comunque la giustizia e i diritti dei cittadini. Anche quelli che votano Pd.
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jeudi, avril 07, 2011

In Francia il Pm è subordinato al ministro

In Francia il Pm è subordinato al ministro | The Frontpage
In Francia il Pm è subordinato al ministro





1. Obblighi deontologici e illeciti disciplinari. Secondo le disposizioni, contenute in un’Ordonnance del 1958 e in una Loi organique del 2007, in Francia, un magistrato è oggetto di provvedimenti disciplinari quando manca ai doveri deontologici stabiliti dallo Statut de la magistrature e dalla giurisprudenza disciplinare del Conseil supérieur de la magistrature (Csm).

Lo Statut definisce l’illecito disciplinare, con riferimento al mancato rispetto di alcuni doveri così individuati: onore, delicatezza e dignità. All’atto dell’insediamento, i magistrati giurano di «adempiere fedelmente alle proprie funzioni, mantenere religiosamente il segreto delle deliberazioni e di comportarsi costantemente come un magistrato degno e leale».

Al magistrato è inoltre impedito, fra l’altro: l’esercizio di ogni funzione pubblica e di ogni altra attività professionale o retribuita; l’esercizio di un mandato pubblico elettivo; la nomina in un tribunale nel quale abbia esercitato da meno di cinque anni la professione di avvocato, ecc. Gli è inoltre vietato formulare deliberazioni politiche, manifestare ostilità al principio o alla forma di governo della Repubblica, compiere alcuna dimostrazione di natura politica.

A partire dal 1980, il Csm ha poi costruito la propria giurisprudenza disciplinare in un’ottica pedagogica, richiamando il rispetto di alcuni principi: doveri di imparzialità, indipendenza, riservatezza, legalità, delicatezza, dignità e onore, lealtà e probità. Il Csm ha anche chiarito diverse regole cui il magistrato deve attenersi, in alcuni casi anche nella sua vita privata. Recentemente (2005) sono state avanzate proposte per rafforzare sette principi fondamentali: imparzialità, diligenza, lealtà, integrità, dignità, rispetto del segreto professionale, dovere di riservatezza.

2. Organi competenti per l’esercizio disciplinare. Gli organi coinvolti nell’esercizio del potere disciplinare sono il Csm e il Ministro della Giustizia. Vige un regime disciplinare differenziato per i magistrats du siège (magistratura giudicante), inamovibili, e per i magistrats du parquet (magistratura requirente), gerarchicamente subordinati al Ministro della Giustizia.

I magistrats du siège (magistratura giudicante). Il potere disciplinare è esercitato dal Csm che, riunito nella formazione competente per i magistrats du siège, può interdire al magistrato incriminato l’esercizio delle sue funzioni fino alla decisione definitiva. La decisione di interdizione temporanea non può essere resa pubblica e non comporta privazione del diritto al trattamento economico.

L’iniziativa dell’azione disciplinare appartiene però al Guardasigilli, ai primi Presidenti di Corte d’appello o ai Presidenti di Tribunale superiore d’appello. Il Guardasigilli può inoltre proporre al Csm di interdire al magistrato sotto inchiesta l’esercizio delle sue funzioni fino alla decisione definitiva sulle sanzioni disciplinari. In dottrina è stato però rilevato che, attribuendo tale facoltà al Guardasigilli, si consente al rappresentante del potere esecutivo di decidere in prima persona se procedere o meno nei confronti di un membro della magistratura giudicante.

I magistrats du parquet (magistratura requirente). Il potere disciplinare appartiene al Ministro della Giustizia che delibera su parere della formazione del Csm competente per il parquet, presieduta dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione. L’iniziativa disciplinare spetta, oltre che al Ministro della Giustizia, anche ai Procuratori Generali presso le Corti d’appello e ai Procuratori della Repubblica presso i Tribunali superiori d’appello. Il Guardasigilli può, previo parere della sezione del Csm competente per i magistrats du parquet, interdire al magistrato sotto inchiesta l’esercizio delle sue funzioni fino alla decisione definitiva sulle sanzioni disciplinari.

Diversamente dal Conseil de discipline del Csm competente per i magistrats du siège, che costituisce una giurisdizione, il Csm competente per i magistrats du parquet rappresenta un organo a carattere consultivo, incaricato di dare un parere al Ministro della Giustizia indicando la sanzione più appropriata. È poi competenza del Ministro pronunciare la sentenza. In questo, il Ministro non è vincolato al parere del Csm, potendo infatti applicare una sanzione anche più grave di quella propostagli da tale organo.

3. Sanzioni. Sono previste nove sanzioni di portata crescente ed è stato inoltre introdotto il divieto di esercizio della funzione di giudice unico per una durata massima di cinque anni, qualora il comportamento di un magistrato suggerisca la necessità di inserirlo in una formazione collegiale. Le sanzioni sono: rimprovero con iscrizione nel dossier; trasferimento d’ufficio; revoca di alcune funzioni; divieto di essere designato nelle funzioni di giudice unico per una durata massima di cinque anni; abbassamento di livello; esclusione temporanea dalle funzioni per una durata massima di un anno, con privazione totale o parziale dello stipendio; retrogradazione; collocamento in quiescenza d’ufficio o l’autorizzazione a cessare le proprie funzioni quando il magistrato non ha diritto a un trattamento di quiescenza; revoca con o senza sospensione dei diritti alla pensione.

Esiste inoltre la possibilità di sanzioni nei confronti di magistrati che abbiano determinato un mal funzionamento del servizio pubblico di giustizia, qualora lo Stato ne sia ritenuto responsabile civilmente in base a una decisione definitiva di una giurisdizione nazionale o internazionale.


vendredi, avril 01, 2011

G. Pini: "L'Europa condanna l'Italia perché i magistrati che sbagliano non pagano"

Il Legno storto, quotidiano online - Politica, Attualità, Cultura - G. Pini: "L'Europa condanna l'Italia perché i magistrati che sbagliano non pagano"
G. Pini: "L'Europa condanna l'Italia perché i magistrati che sbagliano non pagano"


Scritto da Filippo Benedetti Valentini  legnostorto.com   venerdì 01 aprile 2011


l'Occidentale - Intervsta a Gianluca Pini


Se è vero che la sfida riformatrice del centrodestra si gioca tutta sul terreno scivoloso della giustizia, è altrettanto vero che la maggioranza deve fare i conti con gli obblighi che ha l’Italia nei confronti dell’Unione europea. Per questo motivo la responsabilità civile dei magistrati, tema al centro di un’accesa polemica che vede contrapposto l’esecutivo alle frange più oltranziste del centrosinistra e della magistratura, è un principio che il governo fisserà attraverso la legge Comunitaria del 2010. Il relatore di questa legge, il leghista Gianluca Pini, è stato accusato di voler limitare l'autonomia della magistratura per aver inserito in questa legge un emendamento (poi approvato e divenuto articolo) che, invece, adempie a un preciso obbligo comunitario.

Onorevole Pini, perché questo emendamento alla legge Comunitaria?

Nel 2009 la Commissione europea ha aperto una pesantissima procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia che riguarda la responsabilità civile dei nostri magistrati. Entro poche settimane ci arriverà una sentenza di condanna che potrebbe costare allo Stato una pesante sanzione stimabile in qualche centinaia di milioni di euro. L’Europa ci chiede di stabilire il diritto di ogni cittadino ad essere risarcito dei danni causati dai magistrati che compiono errori in maniera manifesta. Una questione della quale lo stesso Avvocato Generale dello Stato ha messo in risalto l’urgenza.

Dunque la responsabilità civile dei magistrati è un principio vigente negli altri paesi europei?

Certamente, anche se in formule diverse. L’Unione europea dà delle linee guida, dopodiché ogni stato membro deve conformarsi con il proprio ordinamento. Ma il principio che l’Unione ci impone è semplice: ogni cittadino che si sente accusato o condannato ingiustamente deve poter chiedere un risarcimento allo Stato, che poi si rivale sui magistrati.

Cosa prevede il suo emendamento alla legge Comunitaria?

Estende la responsabilità dei magistrati dagli errori ‘dolosi o per colpa grave’ a quelli fatti in ‘manifesta violazione del diritto’. In concreto significa che nel momento in cui un magistrato utilizza dei metodi d’indagine o delle misure cautelative sproporzionati il cittadino può fare ricorso e chiedere un risarcimento.

Cosa s’intende per “manifesta violazione del diritto”?

Facciamo un’iperbole per dare l’idea: se una norma prevede la reclusione fino a tre mesi e il giudice infligge una pena di tre anni, allora siamo in presenza di una ‘manifesta violazione del diritto’. Se questo accadesse saremmo in presenza di un’assoluta sproporzione tra ciò che indica il diritto e la decisione presa dal magistrato.

Perché l’Italia, rispetto agli altri paesi europei, è rimasta indietro? C’è una volontà di autotutela da parte della magistratura?

La volontà della magistratura di auto tutelarsi mi sembra piuttosto manifesta. Ma il provvedimento non ha niente a che vedere con l’indipendenza dei magistrati. Non capisco cosa ci sia di scandaloso nel voler fissare per i magistrati un principio che vale per tutte le altre categorie professionali.

Passiamo ai fatti. Può fare una stima dei ricorsi che negli ultimi anni sono stati presentati dagli italiani?

Nel nostro Paese dimostrare che un magistrato ha commesso un dolo o una grave colpa è difficilissimo. Basta qualche numero per capirlo: dal 1988 a oggi sono state presentate 400 cause per responsabilità civile dei magistrati. Sa quante di queste sono andate a buon fine? Solo quattro. Non solo, ma stiamo parlando di 400 cause a fronte di milioni di procedimenti chiusi. Questo sbilanciamento deriva dal fatto che il nostro ordinamento, evidentemente, scoraggia la presentazione dei ricorsi da parte del cittadino.

Una posizione decisa, la sua, eppure alcuni emendamenti alla stessa legge, presentati dei deputati del Pdl Sisto e Contento, sembravano un tentativo di rendere meno stringente una norma che stava infuocando il dibattito politico.

In questi giorni ho letto su alcuni giornali che gli emendamenti dei due colleghi rappresentano un passo in dietro della maggioranza: è una stupidaggine. Intanto consideriamo che il mio emendamento è già diventato articolo di legge. Il principio della responsabilità civile per i magistrati è stato fissato per il rispetto dell’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”, ndr) e non farò alcuna marcia indietro. Tuttavia, credo che gli emendamenti presentati dai due colleghi avessero il solo scopo di migliorare il testo, quindi sono disposto ad aprire un dialogo, purché mi dimostrino di essere in grado di migliorare l’articolo che io ho fatto approvare.


007 missione Tripoli

Libia, i servizi segreti al lavoro - Lettera43
007 missione Tripoli

Dal Mossad alla Cia, le spie si affrontano in Libia.

lettera43.it   20110331

Fa caldo, a Tripoli. La polvere delle macerie si attacca alla pelle, le divise sono pesanti, il tè scarseggia. E qualcuno si è fatto beccare, mettendo a rischio la sicurezza di tutti gli altri. I primi sono stati due britannici, agenti sotto copertura dell’Mi6, paracadutati sopra Bengasi e catturati dai ribelli. Avevano in tasca alcuni passaporti falsi e istruzioni diplomatiche del governo di sua Maestà.
Errori da dilettanti. Ai tempi della Guerra Fredda non sarebbe successo. Allora i messaggi venivano scritti con inchiostri cancellabili e passati di mano in mano all’interno di caffè fumosi in cui anche i muri avevano orecchie.
IL VUOTO INFORMATIVO. Sessant’anni dopo si è passati alle email. «Non ci siamo concentrati sulla Libia per anni e non ne sappiamo quasi niente», ha scritto alla Casa Bianca Carter F. Ham, prima guida della missione Odissey Dawn e capo di Africom, il dipartimento della Difesa americana di stanza in Africa.
Scripta manent. Per evitare che un eventuale successo di Gheddafi sia attribuito all’ignavia dell’Occidente, si è scatenata la corsa al Nord Africa dimenticato. Spie americane, inglesi, francesi, israeliane e italiane si muovono tra la Cirenaica e la Tripolitania. Trasportano piani, messaggi, dollari e armi. Qualcuno vende mercenari, altri armano i ribelli.
Mentre, per salvare le apparenze, sull’altra sponda del Mediterraneo i politici riflettono sul da farsi.
Il lungo corso delle spie italiane tra petrolio e migranti

Tra i più assidui frequentatori della Libia ci sono gli agenti italiani. Fin dai tempi in cui Benito Mussolini si riferiva al Paese chiamandolo Scatolone di sabbia, con l’orgoglio del possesso mescolato allo sprezzo per il diverso.
Gli 007 di Roma sono cresciuti tra Tripoli, le piattaforme sul mare e i pozzi del sud, nel Sahara dove il colosso energetico Eni ha creato parte della propria fortuna. Habitué tanto dei palazzi del potere quanto delle caserme, i servizi italiani hanno addestrato i militari, contribuito all’assegnazione di appalti e concessioni e sorvegliato gli accordi.
LA CERNIERA LIBICA. L’intelligence è stata a lungo il raccordo strategico tra Roma e il raìs, spianando la strada al rapporto privilegiato che stava tanto a cuore ai governi italiani.
Proprio i servizi, stando a quanto fatto filtrare alla stampa, avrebbero consigliato recentemente al Cavaliere un approccio cauto nei confronti della rivolta di Bengasi. Sembra che gli informatori italiani non si fidassero dei ribelli, né dessero per certo l’esito della guerra. E quindi avessero cercato di non intromettersi finché le cose non si fossero delineate più chiaramente.
IL TRAFFICO DI UOMINI. Tuttavia, una volta che la guerra civile è iniziata, i nostri agenti sembrano avere abbandonato il fronte bellico, per concentrarsi sulle rotte dei migranti. È questa oggi la grossa preoccupazione di Roma: capire chi e come gestisce i flussi. E trovare un accordo per interromperli.
Sembra che patti non scritti venissero d’altra parte siglati anche prima che il raìs firmasse un accordo formale con il premier Silvio Berlusconi sugli sbarchi. Secondo un’interrogazione parlamentare presentata dai Radicali nel 2009, proprio l’Eni avrebbe organizzato rimpatri non ufficiali di immigrati clandestini tramite accordi con i guardia coste libici. Ma la notizia non è mai stata confermata.
Il Mossad recluta mercenari

Ehud Barak e il premier Benjamin Netanyahu.

Di casa in Libia sono anche gli uomini del Mossad, i servizi segreti israeliani. I più preparati, addestrati e precisi del Pianeta.
Mentre l’Occidente abbandonava la Libia alla tirannìa del Colonnello, Israele e il raìs stringevano accordi di collaborazione. Poco importa che il regime di Gheddafi non abbia mai riconosciuto formalmente lo Stato ebraico: quando si parla di soldi ed eserciti, la diplomazia può attendere.
Stando alle ricostruzioni sussurrate negli ambienti diplomatici, gli agenti di Gerusalemme si sono radicati nel sud-est della Libia da otto anni, allo scoppio della guerra del Darfur. Con il placet del Colonnello, il Mossad e i contractor affiliati hanno organizzato campi di addestramento nel deserto libico per i guerriglieri che combattono il presidente sudanese Al-Bashir. In cambio, il raìs ha ricevuto generosi regali e promesse di futuro aiuto.
IL VERTICE ISRAELIANO. L’occasione per sdebitarsi si è presentata in effetti allo scoppio della rivolta libica. Gheddafi ha capito subito che le sue forze non erano sufficienti e ha mandato un Sos a Gerusalemme.
Il 18 febbraio, all’indomani dei primi tumulti, il gotha politico israeliano si è riunito per decidere come comportarsi. Secondo fonti governative citate dal quotidiano conservatore di Tel Aviv Ma’ariv, il premier Benjamin Netanyhau, il ministro della Difesa Ehud Barak, quello degli Esteri Avigdor Lieberman e il capo dell'intelligence, il generale Aviv Cochavi, hanno deciso di affidare la pratica al Mossad. Che, a sua volta, l’ha passata a Global Cst, colosso della sicurezza attivo in tutta l’Africa e il Sud America. Trovare i mercenari per il raìs non è stato difficile: molti arrivano dagli stessi campi di addestramento della guerriglia del Darfur. Con ingaggi da migliaia di dollari al mese.
La Francia infiltra uomini nel Comitato di transizione

Il filosofo Bernard-Henri Lévy.

Sul fronte bellico opposto, quello dei ribelli di Bengasi, i contributi più significativi sono arrivati dalla Francia. Il legame tra Parigi e Gheddafi, appannato negli ultimi anni dal rapporto privilegiato del Colonnello con l’Italia, affonda nel passato coloniale. Secondo gli analisti, i servizi francesi avrebbero infatti salvato la vita a Gheddafi nel 1969, sventando un attentato all’indomani del golpe con cui depose il re Idris.
RIVOLTA CREATA A PARIGI. Oggi, però, le intenzioni degli agenti segreti sono ben diverse. Fiutata l’occasione per l’Eliseo di recuperare un ruolo di primo piano in Nord Africa, le spie francesi sono state le prime a muoversi per rovesciare il regime.
Stando alle informazioni che l’intelligence italiana ha fatto filtrare alla stampa, la rivolta della Cirenaica è stata preparata a Parigi già nell’autunno scorso.
Nouri Mesmari, fedelissimo di Gheddafi, nell’ottobre 2010 ha lasciato Tripoli ed è riparato in Francia, chiedendo asilo politico. Da qui, Mesmari ha messo in contatto le spie d’Oltralpe con potenziali rivoluzionari di Bengasi.
Gli incontri tra i francesi e i libici si sono ripetuti fino a Natale. A questo punto, trovati gli uomini, l’Eliseo li ha equipaggiati con le armi sufficienti a iniziare la rivolta.
ARMI E DIPLOMAZIA. Gli agenti di Sarkozy sono rimasti sul campo mentre i tumulti crescevano. E gli emissari diplomatici francesi, grazie al lavoro preparatorio dei servizi, sono potuti entrare in contatto con il Comitato di transizione nazionale prima di tutti i partner europei. La strada è stata aperta da Bernard Henri-Levì che ha formalmente portato gli insorti davanti al capo di Stato francese a fine febbraio. E questo ha riconosciuto in tempi da record il governo degli insorti.
Nell’ultimo mese, secondo quando riferito da fonti governative, gli agenti di Parigi avrebbero aumentato la dotazione bellica dei ribelli. Ai primi di marzo un carico di armi leggere e pesanti ha raggiunto Bengasi, mascherato come aiuti umanitari.
I britannici trasformano i ribelli in un esercito

Per ora le milizie anti-Gheddafi si sono rifornite rubando armi e munizioni all'esercito lealista (Ap Images).

Nello stesso periodo sono entrati in gioco anche i britannici dell’Mi6 e gli uomini della Cia. La presenza dei primi è stata rilevata in tempo reale, per colpa di quel famoso atterraggio poco fortunato: sei uomini delle forze armate e due agenti della militar intelligence inglese sono stati catturati dagli insorti il 6 marzo, ancora con i paracadute addosso.
Un piccolo giallo nel giallo: formalmente, le spie della regina erano in missione per prendere contatto con il neo-costituito governo di Bengasi. Ma i primi 007 sono stati scambiati per mercenari al soldo del raìs.
CACCIA ALL’ARSENALE. Risolto l’equivoco, tuttavia, le spie sono giunte da Londra in Cirenaica a dozzine. Gli specialisti inglesi sono stati assoldati per stanare i depositi di armi del Colonello, e nello specifico i missili terra-aria di fabbricazione sovietica.
Secondo fonti pachistane, inoltre, i britannici da tre settimane sono impegnati nell’improbo compito di rendere l’armata Brancaleone dei ribelli un vero esercito, insegnando loro non solo il mestiere delle armi ma anche la disciplina.
La Cia fa da raccordo alla Nato

Il presidente egiziano Hosni Mubarak con Barack Obama (Ap Images).

Gli ultimi arrivati in Libia sono gli uomini di Washington. Barack Obama ha dato il nulla osta all’invio di agenti tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo: quando ormai era troppo tardi per fare qualsiasi altra cosa.
Gli americani hanno da recuperare un vuoto informativo lungo quasi un decennio. L’ultimo contatto degli 007 statunitensi con la Libia risale al 2003, quando vennero inviati da George W. Bush a vigilare sullo smantellamento dell’arsenale nucleare di Gheddafi. Al termine della missione, come ha goffamente ricordato il generale Carter Ham, il Nord Africa è stato dimenticato.
DIVIDE ET IMPERA. Adesso gli statunitensi sono costretti a bruciare i tempi. Devono fornire supporto ai militari dell’Alleanza, organizzare la resistenza dei ribelli e creare ad arte crepe nella difesa del raìs.
La Cia ha sguinzagliato una parte di agenti lungo la via Balbia, il serpentone assolato disseminato di carri armati e terminal petroliferi che dalla capitale libica si snoda fino a Bengasi. Il loro primo compito è scoprire di quanti soldati dispone Gheddafi, dove nasconde le armi e quali saranno le prossime mosse dei suoi uomini.
Ma agli 007 tocca anche provare a convincere le truppe del raìs alla defezione, oltre che raccogliere informazioni sui ribelli, nelle cui file si annidano probabilmente infiltrati di al Qaeda.
STRATEGIE BELLICHE. Il restante manipolo di spie Usa guida gli aerei da ricognizione U2, che sorvolano il territorio per individuare i bersagli da colpire. Le informazioni vengono quindi passate agli aeromobili da ricognizione Global Hawk e da questi agli analisti su terra, che le girano a chi prepara le missioni dei bombardieri.
Le strategie di guerra si delineano così minuto per minuto, direttamente sul campo. Mentre in mondovisione si trasmettono le immagini di riunioni internazionali che dovrebbero stabilire quello che gli agenti fanno già da settimane.


Giovedì, 31 Marzo 2011