jeudi, février 28, 2013

Chi è Peer Steinbruck: ex posteggiatore, insulta Berlusconi e Grillo e può mandare a casa la Merkel - peer steinbruck, merkel, spd, berlusconi, grillo, clown, germania, berlino, napolitano - Libero Quotidiano

Chi è Peer Steinbruck: ex posteggiatore, insulta Berlusconi e Grillo e può mandare a casa la Merkel - peer steinbruck, merkel, spd, berlusconi, grillo, clown, germania, berlino, napolitano - Libero Quotidiano


LA POLEMICA ITALIA-GERMANIA

Chi è Peer Steinbruck: ex posteggiatore, insulta Berlusconi e Grillo e può mandare a casa la Merkel

Il candidato del partito socialdemocratico (Spd) alla Cancelleria tedesca da ragazzino era soprannominato dai compagni di classe "Kasper". Cioè pagliaccio...

27/02/2013  liberoquoditiano.it
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Ecco chi insulta Cav e Grillo e può mandare a casa la Merkel: posteggiava auto


di Enzo Piergianni
La voglia di dare del pagliaccio agli altri,Peer Steinbrück se la porta appresso da quando andava a scuola al Johanneum di Amburgo (con pessimo profitto). Per le sue baggianate era stato bollato  “der Kasper” (pagliaccio)  dai compagni di classe. Lo ha raccontato il biografo Daniel Friedrich Sturm, molto prima del suo comizio di martedì sera a Potsdam col pesante attacco a Beppe Grillo e Silvio Berlusconi («un clown di professione e un clown ad alto tasso di testosterone») che ha indotto il presidente Napolitano ad annullare l’invito a cena nel sontuoso Hotel Adlon (un «cinque stelle», neanche a farlo apposta) nel centro storico di Berlino.
Nelle elezioni politiche di settembre, il «Kasper» contenderà ad Angela Merkel la cancelleria federale. È il candidato del partito socialdemocratico (Spd), ma prima e dopo la sua designazione  ne sono venute fuori talmente tante su di lui che molti suoi sostenitori farebbero volentieri marcia indietro. Il suo pesante sarcasmo amburghese risente probabilmente di quando faceva il posteggiatore nel quartiere a luci rosse di Reeperbahn dove, a suo dire, «le ragazze erano le più generose con le mance». In politica a fatto carriera fino a diventare ministro delle Finanze nel governo di «Grosse Koalition» sotto la Merkel. Nel marzo 2009 ha guerreggiato a parole contro il segreto bancario in Svizzera agitando la  minaccia di «usare la frusta» e poi paragonando gli svizzeri ai pellerossa che si spaventavano solo “davanti al Settimo Cavalleria”. Un gran fracasso mediatico, ma senza effetti concreti. Due mesi dopo, sempre nel suo impetuoso quanto sterile assalto ai paradisi fiscali, Steinbrück se la prendeva col Lussemburgo. E accostava malignamente la capitale del Granducato a Ouagadougou, capitale di Burkina Faso. Il ministro degli Esteri lussemburghese, Jean Asselborn, gli rispose velenosamente che anche l’invasione nazista del suo paese era cominciata con i discorsi. La campagna elettorale del «Kasper» è stata compromessa in partenza da recenti  rivelazioni sulle sue finanze private. Tornato semplice deputato,  l’ex ministro, anziché tuffarsi nei lavori del Bundestag, è entrato nel giro del club Bilderberg e si è specializzato a fare conferenze in ambienti industriali e finanziari, incassando nella legislatura corrente circa 2 milioni di euro in aggiunta alla cospicua indennità parlamentare.

mardi, février 26, 2013

La hit ironica «Il giaguaro mi ha smacchiato» - Video - Corriere TV

La hit ironica «Il giaguaro mi ha smacchiato» - Video - Corriere TV

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Elezioni, Cacciari commenta i risultati: “Sono teste di cazzo, era meglio Renzi”

Elezioni, Cacciari commenta i risultati: “Sono teste di cazzo, era meglio Renzi”

L'ex sindaco di Venezia, da sempre critico all'interno del Partito democratico, è arrabbiato per l'esito delle urne: "Un disastro, dovevamo puntare su un rinnovamento radicale, invece siamo rimasti a metà". E la colpa è del "gruppo dirigente che circonda Bersani"

Massimo CacciariMassimo Cacciari

Se fossimo stati in televisione sarebbe stato un continuo “bip” “bip” per eliminare parolacce e improperi dalle parole di Massimo Cacciari. Ex sindaco di Venezia, filosofo, da sempre una voce critica all’interno del Partito democratico. È avvelenato. Ci parla con un tono tra l’avvilito di chi lo aveva detto da tempo, e l’arrabbiato di chi non vuole smettere di dirlo. “Senta, è un disastro. Un vero disastro”. Ancora non è definitivo (sono le sei del pomeriggio). “Eccome se lo è. Peggio di così…”
Partiamo dai motivi.
Sono gli stessi da vent’anni, da sempre, da quando perdiamo.
Va bene, mi indichi i principali.
Questa volta dovevamo puntare su un rinnovamento radicale. Dovevamo scegliere dove stare e cosa fare! Non restare a metà.
Nel contesto.
Le cito Kant, quando parlava della somma dell’inerzia…
Nel pratico.
Il Pd è rimasto a metà tra il voler interpretare le spinte arrivate dalla parte di Grillo e quella di strizzare l’occhio al gruppo di Monti e alla sua visione dello Stato e dell’Europa.
Figure politiche antropomorfe.
Come al solito siamo gente affetta da snobismo e da puzza sotto il naso. Come sempre!
Sarebbe stato meglio avere Renzi?
Aspetti. Prima di dire certe cose, legga i risultati locali.
A quali si riferisce, in particolare?
(Qui il tono della voce si alza) Al nord è una catastrofe sia per Pdl che per la Lega! Eppure il centrosinistra non ha fatto un cazzo. Non è cresciuto.
Hanno sottovalutato l’avversario?
Di più, peggio! (il tono cresce ancora, notevolmente) Sono delle teste di cazzo! Loro sanno tutto, loro capiscono tutto. Loro possono insegnare tutto a tutti. Mentre gli altri sono dei cretini.
Quindi?
Le faccio un esempio: è impossibile spiegargli che c’è una questione settentrionale. Eppure continuano a sbatterci la faccia. La loro vita si sviluppa solo tra Botteghe Oscure, il Nazareno e Montecitorio. Del resto non sanno nulla. Gli basta quel triangolo.
Colpa di Bersani?
No. Ma di quel gruppo dirigente che continua a circondarlo. Gente completamente fallita.
A chi si riferisce, in particolare?
Tutti quelli che stanno da sempre lì e che non abbiamo ancora cacciato. Sì, abbiamo sbagliato a non appoggiare Matteo Renzi. È stato un grande errore.
Ora i democratici cosa devono fare?
(Qui cala i toni, diventa quasi più riflessivo) L’unica strategia è mantenere i nervi saldi. E cerchiamo di dialogare in Parlamento con gli eletti nelle liste di Grillo. Se ci riusciamo.

di Alessandro Ferrucci 

Da Il Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2013

lundi, février 25, 2013

Quello schiavista di Cameron

http://www.lettera43.it/economia/personal/quello-schiavista-di-cameron_4367585231.htm


Quello schiavista dell'antenato di Cameron

Dietro i patrimoni vittoriani inglesi, la vendita di uomini. Che ha fatto la fortuna pure di un avo del premier.

di Sara Pinotti
da Londra
Diventare ricchi, anzi, ricchissimi come ricompensa per avere venduto i propri schiavi. Non si tratta di un atto di generosità ben ricompensato, ma di un vero e proprio meccanismo di rimborso per chi, privandosi della proprietà della propria servitù, si è ritrovato con un capitale personale inferiore.
È ciò che è avvenuto in Inghilterra nel XIX secolo, al tempo dell’abolizione della schiavitù: tra le famiglie che hanno ricevuto una fortuna per avere liberato i propri servi ci sarebbe anche quella del premier britannico David Cameron e del famoso scrittore George Orwell.
SPESI 20 MLN DI STERLINE NELL'800.La notizia è stata raccontata dall’Independent e arriva da Nick Draper dell’University College of London, il quale ha studiato a lungo le carte di epoca vittoriana, in particolare quelle dedicate ad accordi e ricompense per chi ha deciso di privarsi degli schiavi.
Dai documenti traspare che il governo inglese ha sborsato circa 20 milioni di sterline a partire dal 1833, anno di abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche. I soldi sono stati destinati al risarcimento economico di 3 mila famiglie che hanno dovuto rinunciare alla ‘proprietà’ di persone di colore. Metà della cifra, 10 milioni, è finita nelle tasche dei coloni nei Caraibi e in Africa, l’altra metà a chi viveva in Inghilterra.
Come ha sottolineato il quotidiano, il totale è pari al 40% della spesa annuale del Tesoro inglese e anche a circa 16,5 miliardi di sterline di oggi.
SVELATI I NOMI DEGLI SCHIAVISTI. I documenti scoperti da Draper rappresentano una novità assoluta per il Regno Unito perché rivelano per la prima volta nomi e cognomi di chi è stato pagato dallo Stato in epoca vittoriana.
Il risultato è un elenco di tutte le famiglie che stanno ancora beneficiando dell’abolizione della schiavitù nelle colonie del Regno Unito: in tanti, infatti, hanno fatto fortuna con i soldi ricevuti.
«C’era una vera e propria frenesia al tempo riguardo ai rimborsi», ha spiegato Draper. La ricompensa maggiore è andata a James Blair, al tempo parlamentare e con numerose proprietà nel Marylebone, nel centro di Londra e in Scozia: gli sono arrivate 83.530 sterline, equivalenti a 65 milioni di oggi, per essersi privato dei 1.598 schiavi che possedeva, tutti provenienti dalla Guyana inglese.

All'antenato schiavista di Cameron, 3 mln di sterline

L’antenato schiavista di Cameron è invece Sir James Duff, beneficiario di 4.101 sterline, circa 3 milioni attuali, per la privazione forzata di 202 membri della servitù che si occupava delle sue proprietà in Jamaica.
Molto più fortunato un altro primo ministro, William Gladstone, il quale ha potuto usufruire delle 106.769 sterline ricevute dalla sua famiglia, una cifra pari a 83 milioni di oggi: l’abolizione della schiavitù avrebbe altrimenti rappresentato la rovina per i Gladstone che possedevano 2.508 schiavi, tutti impiegati nelle loro nove piantagioni.
Tra gli altri nomi illustri anche Orwell, il cui bis-nonno ha ottenuto 4.442 sterline per liberare 218 membri della servitù.
INVESTITI IN NUMEROSE OPERE. I soldi ricevuti dagli inglesi sono stati reinvestiti nei più svariati modi. Alcune famiglie li hanno impegnati nelle ferrovie e in progetti generalmente legati alla rivoluzione industriale; altri hanno esteso le proprie proprietà immobiliari in città e in campagna e altri ancora si sono dedicati a cause filantropiche.
«Vedere che i nomi dei proprietari di schiavi combaciano con quelli del XX secolo e di oggi è un segnale e un ricordo forte e intenso per non dimenticare l’origine della fortuna di molte famiglie».
LE RICHIESTE DI RISARCIMENTI. L’elenco dei coloni beneficiari è lungo ed è stato raccolto dal team di Draper all’interno di un database che si prevede sia aperto mercoledì 27 febbraio a uso pubblico.
Non si tratta soltanto di famiglie benestanti, ma anche di medi e piccoli borghesi che con il cambiamento della legge in epoca vittoriana hanno dovuto privarsi dei servi.
Le conseguenze della diffusione di questi dati rappresentano una minaccia non solo per la reputazione di numerose famiglie britanniche, ma soprattutto per le richieste di risarcimento in atto da parte di molte colonie.
In prima linea ci sono le Barbados, che da tempo chiedono degli atti riparativi per le ingiustizie inflitte ai propri cittadini al tempo della schiavitù. 
Lunedì, 25 Febbraio 2013

mardi, février 12, 2013

Tremonti: «Legge Fornero una boiata da abrogare» - Video - Corriere TV

Tremonti: «Legge Fornero una boiata da abrogare» - Video - Corriere TV

DIETRO IL SACRIFICIO ESTREMO DI UN INTELLETTUALE LE OMBRE DI UN «RAPPORTO SEGRETO» CHOC

 

L'ADDIO LEGATO A UNA CRISI DI SISTEMA FATTA DI CONFLITTI, MANOVRE E TRADIMENTI

 

Benedetto XVI avrebbe maturato la decisione definitiva dell'annuncio domenica: stava preparando un'enciclica

Non essendo riuscito a cambiare la Curia, Benedetto XVI è arrivato ad una conclusione amara: va via, è lui che cambia. Si tratta del sacrificio estremo, traumatico, di un pontefice intellettuale sconfitto da un apparato ritenuto troppo incrostato di potere e autoreferenziale per essere riformato. È come se Benedetto XVI avesse cercato di emancipare il papato e la Chiesa cattolica dall'ipoteca di una specie di Seconda Repubblica vaticana; e ne fosse rimasto, invece, vittima. È difficile non percepire la sua scelta come l'esito di una lunga riflessione e di una lunga stanchezza. Accreditarlo come un gesto istintivo significherebbe fare torto a questa figura destinata e entrare nella storia più per le sue dimissioni che per come ha tentato di riformare il cattolicesimo, senza riuscirci come avrebbe voluto: anche se la decisione vera e propria è maturata domenica.

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Quello a cui si assiste è il sintomo estremo, finale, irrevocabile della crisi di un sistema di governo e di una forma di papato; e della ribellione di un «Santo Padre» di fronte alla deriva di una Chiesa-istituzione passata in pochi anni da «maestra di vita» a «peccatrice»; da punto di riferimento morale dell'opinione pubblica occidentale, a una specie di «imputata globale», aggredita e spinta quasi a forza dalla parte opposta del confessionale. Senza questo trauma prolungato e tuttora in atto, riesce meno comprensibile la rinuncia di Benedetto XVI. È la lunga catena di conflitti, manovre, tradimenti all'ombra della cupola di San Pietro, a dare senso ad un atto altrimenti inesplicabile; e per il quale l'aggettivo «rivoluzionario» suona inadeguato: troppo piccolo, troppo secolare. Quanto è successo ieri lascia un senso di vuoto che stordisce.

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E nonostante la sua volontà di fare smettere il clamore e lo sconcerto intorno alla Città del Vaticano, le parole accorate pronunciate dal Papa li moltiplicano. Aggiungono mistero a mistero. Ne marcano la silhouette in modo drammatico, proiettando ombre sul recente passato. Consegnano al successore che verrà eletto dal prossimo Conclave un'istituzione millenaria, di colpo appesantita e logorata dal tempo. E adesso è cominciata la caccia ai segni: i segni premonitori. Come se si sentisse il bisogno di trovare una ragione recondita ma visibile da tempo, per dare una spiegazione alla decisione del Papa di dimettersi: a partire dall'accenno fatto l'anno scorso da monsignor Luigi Bettazzi; e poco prima dall'arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, che si era lasciato scappare questa possibilità durante un viaggio in Cina, ipotizzando perfino un complotto contro Benedetto XVI.

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Ma la ricerca rischia di essere una «via crucis» nella crisi d'identità del Vaticano. Riaffiora l'immagine di Joseph Ratzinger che lascia il suo pallio, il mantello pontificio sulla tomba di Celestino V, il Papa che «abdicò» nel 1294, durante la sua visita all'Aquila dopo il terremoto, il 28 aprile del 2009. Oppure rimbalza l'anomalia dei due Concistori indetti nel 2012 «per sistemare le cose e perché sia tutto in ordine», nelle parole anodine di un cardinale. O ancora tornano in mente le ripetute discussioni col fratello sacerdote Georg, sulla possibilità di lasciare. Qualcuno ritiene di vedere un indizio della volontà di dimettersi perfino nei lavori di ristrutturazione dell'ex convento delle suore di clausura in corso nei giardini vaticani: perché è lì che Benedetto XVI andrà a vivere da «ex Papa», dividendosi col palazzo sul lago di Castel Gandolfo, sui colli a sud di Roma.

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L' Osservatore romano scrive che aveva deciso da mesi, dall'ultimo viaggio in Messico. Ma è difficile capire quando l'intenzione, quasi la tentazione di farsi da parte sia diventata volontà e determinazione di compiere un gesto che «per il bene della Chiesa», nel breve periodo non può non sollevare soprattutto domande; e mostrare un Vaticano acefalo e delegittimato nella sua catena di comando ma soprattutto nel suo primato morale: proprio perché di tutto questo Benedetto XVI è stato l'emblema e il garante. «Il Papa continua a scrivere, a studiare. È in salute, sta bene», ripetono quanti hanno contatti con lui e la sua cerchia. «Non è vero che sia malato: stava preparando una nuova enciclica». Dunque, la traccia della malattia sarebbe fuorviante.

Smonta anche il precedente delle lettere riservate preparate segretamente da Giovanni Paolo II nel 1989 e nel 1994, nelle quali offriva le proprie dimissioni in caso di malattia gravissima o di condizioni che gli rendessero impossibile «fare il Papa» in modo adeguato. Ma l'assenza di motivi di salute rende le domande più incalzanti. E ripropone l'unicità del passo indietro. Il gesuita statunitense Thomas Reese calcola che nella storia siano state ipotizzate le dimissioni di una decina di pontefici. Ma fa notare che in generale i papi moderni hanno sempre scartato questa possibilità. Eppure, gli scritti di Ratzinger non hanno mai eluso il problema, anzi: lentamente affiora la realtà di un progetto accarezzato da tempo. «I due Georg sapevano», si dice adesso, alludendo al fratello Georg Ratzinger e a Georg Gänswein, segretario particolare del pontefice.

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Forse, però, colpisce di più che fosse all'oscuro di tutto il cardinale Angelo Sodano, ex segretario di Stato e numero uno del Collegio Cardinalizio; e con lui altre «eminenze», che parlano di «fulmine a ciel sereno». È come se perfino in queste ore si intravedesse una singolare struttura tribale, che ha dominato la vita di Curia con amicizie e ostilità talmente radicate da essere immuni a qualunque richiamo all'unità del pontefice. Sotto voce, si parla del contenuto «sconvolgente» del rapporto segreto che tre cardinali anziani hanno consegnato nei mesi scorsi a proposito di Vatileaks, la fuga di notizie riservate per la quale è stato incriminato e condannato solo il maggiordomo papale, Paolo Gabriele. Si fa notare che da oltre otto mesi lo Ior, l'Istituto per le opere di religione considerato «la banca del Papa», è senza presidente dopo la sfiducia a Ettore Gotti Tedeschi. Rimane l'eco intermittente dello scandalo dei preti pedofili, che pure il pontefice ha affrontato a costo di scontrarsi con una cultura del segreto ancora diffusa negli ambienti vaticani.

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E continuano a spuntare «buchi» di bilancio a carico di istituti cattolici, dopo la presunta truffa milionaria a danno dei Salesiani: un episodio imbarazzante per il quale il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha inutilmente cercato la solidarietà e la comprensione della magistratura italiana. È questa eredità di inimicizie, protagonismi, lotta fra correnti, faide economiche con risvolti giudiziari che sembra aver pesato più di quanto si immaginasse sulle spalle infragilite di Benedetto XVI. È come se avesse interiorizzato la «malattia» della crisi vaticana di credibilità, irrisolta e apparentemente irrisolvibile. Conferma il ministro Andrea Riccardi, che lo conosce bene: «Ha trovato difficoltà e resistenze più grandi di quelle che crediamo. E non ha trovato più la forza per contrastarle e portare il peso del suo ministero. Bisogna chiedersi perché».

Ma nel momento in cui decide di dimettersi da Papa, Benedetto XVI infrange un tabù plurisecolare, quasi teologico. Fa capire alla nomenklatura vaticana che nessuno è insostituibile: nemmeno l'uomo che siede sulla «Cattedra di Pietro». E apre la porta a una potenziale ondata di dimissioni. Soprattutto, addita al Conclave la drammaticità della situazione della Chiesa. Dà indirettamente ragione a quegli episcopati mondiali, in particolare occidentali, che da mesi osservano la Roma papale come un nido di conflitti e manovre fra cordate che da tempo pensano solo alla successione. L'annuncio delle dimissioni avviene in coincidenza con l'anniversario dei Patti lateranensi; e nel bel mezzo di una campagna elettorale: al punto che ieri alcuni leader si chiedevano se interrompere per un giorno i comizi. Ma già si guarda avanti. Bertone ha chiesto di incontrare per una decina di minuti il capo dello Stato Giorgio Napolitano prima della festa in ambasciata di oggi pomeriggio. E il «toto-Papa» impazza, con le scommesse fuorvianti sull'«italiano» o il «non italiano». Stavolta, in realtà, sarà un Conclave diverso. Il sacrificio di Benedetto XVI, per quanto controverso, mette tutti davanti a responsabilità ineludibili. 

Massimo Franco12 febbraio 2013 | 13:48

 

 

Voi siete qui: Elezioni politiche 2013

Voi siete qui: Elezioni politiche 2013

Le pèze perdu de l'Union

Le pèze perdu de l'Union

http://bruxelles.blogs.liberation.fr/coulisses/2013/02/le-p%C3%A8ze-perdu-de-lunion.html#more

jean Quatremer  les coulisses de bruxelles  20130213

 

20130208 Sommet 23Les ambitions européennes ont été passées à la paille de fer par le couple David Cameron-Angela Merkel, sous l’œil impuissant de François Hollande, durant le sommet consacré au budget européen, qui a eu lieu jeudi et vendredi (nuit comprise) à Bruxelles. Le président français avait pourtant promis, mardi, devant le Parlement européen, qu’il s’opposerait à ce que le«cadre financier» de l’UE pour la période 2014-2020 soit trop réduit : pas question, après «le Pacte de croissance» obtenu en juin, de «faire ensuite un pacte de déflation». Une ambition douchée à l’issue du sommet : alors que la Commission proposait un budget sur sept ans de 1 033 milliards d’euros, soit 1,08 % du PIB communautaire (soit déjà en dessous des dépenses de la période 2007-2013), les Vingt-Sept l’ont ramené à 960 milliards. Soit une seconde baisse consécutive du budget depuis 2000, alors que l’Union va compter 28 États membres avec l’adhésion de la Croatie en juillet. Cette fois, on passe de 1,12 % à 1 % tout juste... Conséquence : le budget 2014 sera inférieur de 13 milliards d’euros à celui de 2013.

Principales victimes : les dépenses d’investissement et de croissance et les nouvelles politiques de l’UE (immigration, politique étrangère), la France ayant bataillé pour préserver la politique agricole commune (PAC) et les aides aux régions les plus pauvres. Alors que la crise de la zone euro a montré que l’UE souffrait de l’insuffisance des transferts entre riches et pauvres, les Vingt-Sept ont signifié que les égoïsmes nationaux restaient les plus forts. «Ce budget boite, car il n’est pas en concordance avec le traité disant que l’UE doit disposer des moyens de financer ses politiques » a taclé Jean-Claude Juncker, le Premier ministre luxembourgeois. Et le Parlement européen a immédiatement fait savoir qu’il s’y opposerait. Passage en revue des principaux acteurs de ce bras de fer politico-financier.

 


David Cameron, le triomphant

C’est le vainqueur par KO. Le Premier ministre britannique avait fixé sa ligne rouge : 885 milliards d’euros de crédits de paiement (l’argent effectivement décaissé) pour la période. Un chiffre obtenu en multipliant par sept le budget de l’année 2011, les paiements ayant été moins importants que les années précédentes. C’est la première fois qu’un État raisonne en termes de crédits de paiement, seuls les engagements étant réellement importants puisque, comme le prévoit l’article 323 du Traité sur le fonctionnement de l’Union européenne, les États ont l’obligation d’assumer leurs engagements. Mais cela permettait à Cameron d’afficher sa fermeté (et est sans doute annonciateur de futures batailles judiciaires).

Dès son arrivée, il avait averti : «Les chiffres doivent redescendre, et si ce n’est pas le cas, il n’y aura pas d’accord.» Pour le leader tory, le dernier compromis ébauché par Herman Van Rompuy, le président du Conseil européen, était encore trop haut. De 943 milliards en crédits de paiements proposés par la Commission, le curseur fut donc ramené à 913 milliards d’euros (soit 960 milliards en crédit d’engagement). Toujours trop pour Cameron. «Il ne voulait pas d’un chiffre commençant par 9», raconte un diplomate. Finalement, au bout de trente heures d’âpres marchandages, les Vingt-Sept ont topé à 908,4 milliards en crédit de paiement, le niveau des engagements n’ayant pas bougé. Cameron est apparu triomphant face à la presse : le fameux chèque obtenu par Thatcher en 1984 n’a pas été touché alors qu’il «était attaqué de tous les côtés». Et la France n’est pas parvenue à l’isoler. «Les Pays-Bas, la Suède, la Finlande et Angela étaient à mes côtés», s’est-il rengorgé.

20130207 Sommet 35François Hollande, le vaincu

La France espérait isoler la Grande-Bretagne dans son refus d’un budget ambitieux. Elle n’y est pas parvenue, Berlin ayant refusé de se prêter au jeu : alors que Paris espérait que son partenaire tiendrait la ligne des 913 milliards de crédits de paiement, la Chancelière a accepté de descendre jusqu’à 905 milliards sous l’œil consterné du chef de l’État. Car Merkel a toujours été sur les positions britanniques, en dépit de ses appels à davantage d’intégration. Ce n’est pas une réelle surprise : tout comme la France de Nicolas Sarkozy (et de Jacques Chirac avant lui), l’Allemagne milite pour une diminution de sa contribution au budget. Il faut reconnaître que la position de François Hollande n’était pas simple, car il est arrivé très tard dans une négociation qui a, en réalité, débutée en 2010. Il a dû manœuvrer en douceur pour modifier la ligne de la France, et se rapprocher des pays qui voulaient un budget ambitieux, sans pour autant se couper de l’Allemagne. Mais, Merkel a finalement dévalé sa pente naturelle… Hollande s’est donc retrouvé bien seul.

Il a raconté dans le détail les négociations de marchand de tapis pour montrer que ce n’est pas lui qui a dû en rabattre le plus : « je voulais une enveloppe de crédit de paiement de 930 milliards alors que la Grande-Bretagne ne voulait pas dépasser 885 milliards. Au final on a conclu sur 908,4 milliards. C’est donc moins 21,6 milliards de moins par rapport à la fourchette haute de ma demande. En revanche, c’est 23 milliards de plus que ce que demandait David Cameron. Chacun a fait sa part de chemin. À un moment, on en était à 913 milliards, la Grande-Bretagne ne voulait pas dépasser 900 milliards. J’ai diminué de 8 milliards, elle a accepté d’augmenter de 8 milliards »… Bref, à l’entendre, c’est Cameron qui est le grand perdant. Mais si on compare le budget final à la proposition de la Commission et non pas aux demandes excessives des Britanniques, on voit qui est le grand gagnant.

«Le problème de l’Europe, c’est qu’on n’est pas seul, a-t-il ironisé. Donc ce n’est pas l’accord que je voulais.» Mais, a-t-il relativisé, cela aurait pu être pire : certes, les propositions de la Commission ont été revues à la baisse, mais certaines dépenses nouvelles voient le jour, comme un fonds de 6 milliards pour les jeunes chômeurs. Et le financement des infrastructures progresse de 50 % par rapport à la période précédente. Le président français a regretté le maintien des rabais accordés aux pays les plus riches (le Danemark a même gagné son propre chèque !), et qu’aucune «ressource propre» nouvelle n’ait vu le jour. Autrement dit, le budget continuera à dépendre du financement des États, et non d’impôts européens (comme la taxe sur les transactions financières). Bref, le budget européen garde tous ses défauts.

Certes, Hollande aurait pu poser son veto à ce budget. « Les pays de la cohésion (les plus pauvres, NDA) m’ont demandé de ne pas le faire, car ils voulaient un budget sur plusieurs années pour programmer leurs dépenses », s’est-il justifié. Un bras de fer politique n’aurait pourtant pas nui aux pays pauvres, au contraire : au pire, le budget 2013 aurait été reconduit à l’identique année après année, ce qui aurait coûté plus cher à Londres. Surtout, la France aurait été gagnante, puisque la plupart des rabais seraient tombés (notamment celui de l’Allemagne), ce qui aurait diminué la contribution hexagonale.

Angela Merkel, la comptable

La chancelière allemande repart, tout comme David Cameron, la tête haute. À quelques mois des élections législatives outre-Rhin, elle pourra se vanter d’avoir obtenu une limitation des dépenses européennes. Cela étant, Angela Merkel a une nouvelle fois montré qu’il y avait loin de la coupe de ses engagements fédéralistes aux lèvres de son portefeuille. Pour elle, l’Europe doit coûter le moins possible, celle-ci devant se limiter à jouer le rôle d’un père Fouettard contraignant les États à respecter leurs engagements. Cette négociation budgétaire fait donc sérieusement douter de la volonté allemande d’aller vers plus d’intégration comme elle le clame sur tous les tons.

20130208 Sommet 39Mario Monti et Mariano Rajoy, les affaiblis

Plombés par leurs problèmes domestiques, l’un pour cause d’élections, l’autre de scandale de corruption, les Premiers ministres italien et espagnol n’ont pas pu aider la France face à l’axe germano-britannique. Mario Monti s’est contenté d’un éclat au milieu de la nuit : «On ne peut pas accepter la logique d’un État dont nous ne savons pas s’il sera encore membre de l’UE en 2017.»Allusion à la promesse de David Cameron d’organiser un référendum sur l’appartenance du Royaume-Uni à l’Union. Un éclat resté sans suite, sinon un cadeau supplémentaire d’un milliard d’euros pour la péninsule…

José Manuel Durao Barroso, le néant

Après avoir présenté un projet de budget déjà particulièrement timoré, puisqu’en recul par rapport à la période précédente, le président de la Commission a disparu de la négociation. « C’était incroyable, il acceptait tout », raconte un négociateur. Ainsi, alors qu’à la fin du sommet, François Hollande négociait un « maximum de flexibilité » afin de faire glisser les crédits non utilisés d’une année sur l’autre et d’une rubrique à l’autre (de la PAC vers l’éducation, par exemple), ce qui est extrêmement difficile aujourd’hui, et ce, afin de dépenser effectivement tout l’argent européen, Londres et Berlin s’y sont opposés. « Je ferai avec ce que vous me donnerez », a alors capitulé Barroso. Hollande a dû alors menacer de poser son veto pour finalement obtenir cette flexibilité. À aucun moment Barroso n’a menacé de démissionner alors que son projet était taillé en pièces par le club des radins, un geste qui lui aurait permis d'entrer dans l'histoire… Le comble est qu’à l’issue du Conseil, il a remercié les Vingt-sept, ne prenant même pas ses distances avec ce budget bas de gamme.

Herman Van Rompuy, le collaborateur zélé

N’importe quel compromis pourvu qu’il y ait un compromis. Tel pourrait être la devise du président du Conseil européen. Loin d’être le leader des Vingt-sept, comme l’avait espéré le créateur de cette fonction, Valéry Giscard d’Estaing, il se comporte en simple secrétaire général cherchant à tout prix à obtenir un accord même au prix des ambitions européennes qu’il a renoncé à porter. Soucieux de ne pas perdre la Grande-Bretagne en chemin, il a été son allié objectif tout au long de la négociation.

20130207 Sommet 47Martin Schulz, le résistant

L’accord péniblement arraché vendredi est peut-être mort-né. Car le président du Parlement européen, le socialiste allemand Matin Schulz, a immédiatement annoncé que l’accord serait rejeté par les eurodéputés. C’est en juillet que, pour la première fois, le Parlement pourra exercer son droit de veto sur le budget pluriannuel de l’UE, en vertu du traité de Lisbonne (une résolution indicative sera votée en mars). Face aux égoïsmes nationaux, l’hémicycle européen se présente comme ultime rempart de l’intérêt général européen. Dans un communiqué commun, les leaders des quatre groupes politiques PPE (conservateurs), PSE (socialistes), ALDE (libéraux) et Verts ont donc annoncé leur rejet de ce budget d’austérité.

Oseront-ils aller jusque-là ? « Si on ne le fait pas, on n’a plus qu’à glisser la clef sous la porte », a jugé Verhofstadt. Mais voilà, les élections européennes sont dans un an et les gouvernements vont menacer leurs eurodéputés de ne pas les reconduire sur les listes s’ils ne votent pas le budget qu’ils ont négocié. C’est tout le drame de l’europarlement qui dépend des partis nationaux et non des partis européens. D’où le souhait du PPE d’obtenir un vote à bulletins secrets, ce que ne souhaitent ni les libéraux, ni les Verts.

Pour essayer de faire passer la pilule, les États vont faire miroiter au Parlement la flexibilité qui leur permettra de réaffecter une partie des crédits aux projets porteurs de croissance. Comme l’a expliqué François Hollande, en dépensant mieux, on peut dépenser davantage que pendant la période 2007-2013 où des dizaines de milliards d’euros sont retournés dans les budgets nationaux faute d’avoir pu être dépensés. Les Vingt-sept pourraient aussi lâcher quelques milliards supplémentaires comme ils l’ont fait en 2006. Ce qui pourrait suffire à emporter un vote positif.


Comparaison des dépenses entre le projet de la Commission et le cadre financier adopté par le Conseil européen effectué par Euractiv.

N.B.: version longue et révisée de mon article paru dans Libération de samedi et cosigné avec Nathalie Dubois

dimanche, février 10, 2013

Ue, Monti fregato ancora: più soldi alla Merkel - monti, merkel, unione europea, monti bechis, bechis libero, franco bechis, monti merkel, monti ue - Libero Quotidiano

Ue, Monti fregato ancora: più soldi alla Merkel - monti, merkel, unione europea, monti bechis, bechis libero, franco bechis, monti merkel, monti ue - Libero Quotidiano



SVENDUTI E MAZZIATI

Ue, Monti fregato ancora: più soldi alla Merkel

Il prof: "Col nuovo bilancio l'Italia risparmierà 650 milioni l'anno". E' un bluff, ecco perché





Mario fregato ancora: 
dall'Ue più soldi a Berlino



di Franco Bechis              20130210                                             http://www.liberoquotidiano.it
A novembre 2012 la Commissione europea aveva presentato un bilancio di previsione 2014-2020 che avrebbe potuto essere una stangata fiscale per l’Italia, con il rischio di un aumento del già ricco contributo che ogni anno svena le casse dello Stato italiano. Certo, insieme all’aumento fiscale ci sarebbe stata una torta di fondi europei più ricca e se l’Italia fosse stata brava (e non è mai accaduto), ne avrebbe preso una bella parte, risistemando un po’ i conti. Quella proposta però non è passata, perché al consiglio europeo del 7 e dell’8 febbraio Germania e Inghilterra hanno detto di no. Così la torta da dividersi si è ridotta, e la stangata pure.
Mario Monti che era lì se l’è venduta come un grande successo personale, anche se l’Italia non ha avuto particolarmente ruolo nelle decisioni finali. Lo ha avuto su un solo aspetto: nelle intenzioni degli altri Paesi c’era una netta spoliazione dei fondi europei per lo sviluppo e per l’agricoltura di cui l’Italia avrebbe avuto bisogno. La spoliazione alla fine c’è stata, ma minore del previsto. È  un po’ come se Monti si fosse presentato alla cena europea apprendendo a tavola che avrebbe dovuto consegnare agli altri il frac, le mutande e perfino i calzini. Quando è uscito di lì ha sventolato trionfante i calzini: «Vittoria, questi me li hanno lasciati tenere».
L’immagine è un po’ rude, ma rende abbastanza quello che è accaduto. Che l’Italia nella discussione del bilancio Ue finisca sempre in mutande, è tradizione di lunga data. Avere conservato quei calzini non è quindi successo particolare, anche se lo staff del premier in piena campagna elettorale ha provato a specularci sopra e gran parte della stampa nazionale se l’è bevuta. Eppure basta guardare le cifre.
Buchi variabili - Monti ha sostenuto di avere fatto guadagnare all’Italia 650 milioni all’anno. Secondo le sue cifre Roma ci rimetteva tradizionalmente fra dare e avere con Bruxelles 4,5 miliardi di euro l’anno. D’ora in avanti il buco sarà più lieve: 3,85 miliardi di euro l’anno. Un successo che secondo Monti si spiegherebbe con il fatto che l’Italia paga meno di prima e ottiene di più.
Le cifre sono state fornite in grande libertà.  È  vero che ogni anno l’Italia versa alla Ue più di quanto non riceva in cambio, e che quindi ci perde sempre (si dice che è «contribuente netto»). Ma non c’è una perdita annuale standard, perché ogni anno è diversa ed assai lontana dalle cifre fornite da Monti. Nel 2011 l’Italia ha perso nel rapporto con la Ue 7,5 miliardi di euro (quanto versato in più di quello ricevuto). Nel 2012 il buco noto è di quasi 5,4 miliardi di euro in nove mesi (dati della Ragioneria generale dello Stato): nel primo trimestre ha perso 2,067 miliardi di euro, nel secondo 1,64 miliardi di euro e nel terzo 1,67 miliardi di euro. Cifre assai lontane da quei 4,5 miliardi di euro citati da Monti. Perché? Semplice. I piani pluriennali di finanziamento al bilancio Ue si basano sui dati macroeconomici dei vari Paesi dell’anno precedente al piano: quello 2007-2012 si basava sui dati 2006, e il prossimo sui dati 2012. Poi però le cifre cambiano secondo l’andamento dell’economia reale.
Come viene finanziato il bilancio della Ue? In tre modi. Il primo è attraverso una percentuale fissa (lo 0,73%) di quello che viene chiamato Rnl  (reddito nazionale lordo) di ciascun paese, che è di fatto il Pil. È  la quota principale di finanziamento. A questa si aggiunge una quota che è variata negli anni (all’inizio era 1%) e che dal 2004 è dello 0,50% degli incassi Iva di ciascun Paese. Il terzo canale di finanziamento, quasi trascurabile, è rappresentato dai dazi Ue su alcuni prodotti i cui mercati sono protetti o assistiti.
Favori ai nordici - Nessuna di queste regole al momento è cambiata. Le percentuali di ciascun Paese sono restate identiche dopo il consiglio Ue del 7 e dell’8 febbraio. Quasi per tutti: l’Italia pagherà in percentuale come prima (in valore assoluto meno, perché il Pil è sceso e l’Iva pure più che in altri paesi Ue), il regalo vero non l’ha ottenuto Monti, ma Angela Merkel insieme a pochi Paesi nordici. Nel comunicato finale del consiglio europeo si spiega infatti che «limitatamente al periodo 2014-2020» invece dello 0,50% che paga l’Italia o la Francia «l’aliquota di prelievo della risorsa propria basata sull’Iva per la Germania, i Paesi Bassi e la Svezia è fissata allo 0,15%». Uno sconto che per la Germania vale circa 2 miliardi di euro. Per la Gran Bretagna sono stati confermati gli sconti precedenti (che valgono circa 3 miliardi di euro). Poi è stato concesso un altro sconto, sulla quota legata allo 0,73% del reddito nazionale lordo (Rnl). Ecco cosa dice il comunicato: «La Danimarca, i Paesi Bassi e la Svezia beneficeranno di riduzioni lorde del proprio contributo Rnl annuo pari rispettivamente a 130 milioni, 695 milioni e 185 milioni di euro. L’Austria beneficerà di una riduzione lorda del proprio contributo Rnl  annuo pari a 30 milioni di euro nel 2014, a 20 milioni di euro nel 2015 e a 10 milioni di euro nel 2016». L’Italia non viene nemmeno citata, perché resta tutto come prima.
Cambieranno le aliquote attuali per tutti gli altri? Probabilmente sì, ma come a Libero conferma un alto funzionario Ue, al momento è impossibile sapere di quanto, perché i calcoli debbono ancora tutti essere fatti. Perché una verità c’è: l’Europa per la prima volta ha tagliato il proprio budget di investimenti, e quindi la torta da finanziare è ridotta del 3%, una cifra superiore alla caduta del Pil nel 2012. Il consiglio Ue ha ridotto di molto la proposta della commissione, che ammontava a 1.023 miliardi di euro spendibili ora diventati 908,4 miliardi. C’è tempo tutto il 2013 per fare i calcoli su come ottenere quella cifra, e capire se c’è spazio per abbassare lo 0,73% del Rnl (difficile) o lo 0,50% dell’Iva (più probabile, anche perché in prospettiva dovrebbe essere assorbita dai proventi della Tobin tax). Oltre a questo bisognerà vedere come vanno i Pil dei vari paesi. Se quello dell’Italia crescerà, pagherà di più e otterrà in cambio sempre la stessa somma. Cambia qualcosa per l’Italia rispetto a quanto avveniva in precedenza? «No», risponde certo il funzionario, «percentualmente l’Italia resta contributore netto della Ue con la stessa quota di prima». Tutto il resto è propaganda elettorale. Anche i calzini sventolati da Monti…

mercredi, février 06, 2013

Lucio l'altra Casta della politica

http://www.lettera43.it/fatti/lucio-l-altra-casta-della-politica_4367582873.htm


IL PERSONAGGIO

Lucio, l'altra Casta della politica

Annunziata ha lasciato il Consiglio a Sarno. E ha restituito i soldi guadagnati. «Ho tradito la fiducia di chi mi ha votato».

di Enzo Ciaccio
È convinto di aver fallito il mandato amministrativo, di aver contribuito a «portare il Paese alla rovina», di «aver tradito la fiducia» dei suoi elettori: perciò, ha deciso di dimettersi dall’incarico e di restituire alla collettività tutti i soldi finora percepiti da consigliere comunale.
Si tratta di una somma non irrilevante: 10 mila euro, fra gettoni di presenza e varie indennità, che Lucio Annunziata, 45 anni, avvocato civilista, sposato e padre di tre figlie, ha percepito da quando è stato eletto (quattro anni fa) consigliere al Comune di Sarno nel Movimento per le autonomie che appoggia l’attuale giunta di centrodestra.
A SARNO FAVORITI AMICI E FAMILIARI. «Il sindaco, gli assessori e i consiglieri», si sfoga Annunziata, «non hanno fatto altro che litigare per le poltrone e non è mancato chi in municipio ha tentato di favorire amici e familiari. Ora basta, chiunque a Sarno e altrove, abbia ancora un po’ di dignità, restituisca i soldi come ho fatto io».
I 10 mila euro - tramite un (rintracciabile) bonifico bancario - sono stati donati alla sede locale dell’Avis, l’associazione dei donatori di sangue, che sta per acquistare un’automobile da adibire alle emergenze sanitarie.
A Sarno, dove il 5 maggio 1998 morirono 137 abitanti travolti da una frana e il sindaco dell’epoca è stato condannato per i ritardi con cui lanciò l’allarme, tutti hanno applaudito al gesto di Annunziata. Però di imitarlo, finora, non si parla proprio.
DOMANDA. Come le è venuto in mente di restituire il denaro guadagnato da amministratore?
RISPOSTA. Sono figlio di braccianti: conosco il valore dei soldi, so che per molti è davvero frutto di sudore.
D. E allora?
R. Il sindaco, la giunta, il Consiglio comunale, in quattro anni hanno saputo solo litigare sugli assessorati più appetibili. Il bene comune e i valori? Li abbiamo dimenticati.
D. Ha partecipato a quelle che definisce spartizioni?
R. Ho votato contro le delibere che non mi piacevano, ma ciò non mi assolve dalle responsabilità. I problemi della gente di Sarno sono stati massacrati.
D. Non poteva limitarsi a passare all’opposizione?
R. Mi sentivo troppo male. E poi, a Sarno anche l’opposizione è finta.
D. E quindi?
R. Ho preferito andarmene con un gesto forte, che smuovesse le acque.
D. Perché si è sentito in obbligo di restituire i soldi?
R. Perché so di aver tradito la fiducia di chi mi ha votato.
D. Non bastava chiedere scusa?
R. No, è giusto risarcire anche il danno.
D. C’è chi sussurra che invece lei, suscitando clamore, punti a contrattare nuovi incarichi.
R. Falso. Manca ancora un anno alle prossime elezioni.
D. Potrebbe aver deciso di agire in forte anticipo.
R. Il futuro sancirà che il mio è stato un gesto pulito e senza secondi fini.
D. Davvero spera che a Sarno o altrove qualche amministratore la imiti restituendo i soldi guadagnati?
R. Vorrei crederci.
D. Ma?
R. Li vedo troppo aggrappati alla poltrona.
D. Che cosa ha voluto testimoniare?
R. Che i soldi elargiti dalla collettività ai politici non sono da interpretare come un regalo né un’elargizione a fondo perduto.
D. Insomma: il politico deve dar conto?
R. Esatto. E bisogna decidersi a ridurre i costi della politica e non limitarsi a parlarne come si fa in Italia.
D. Quali soldi ha restituito?
R. Nel mio piccolo, tutti i gettoni accumulati partecipando alle sedute del Consiglio comunale e alle riunioni delle commissioni.
D. Quanto percepiva?
R. A seduta 26 euro.
D. Ha partecipato a molte sedute?
R. Il sindaco mi ha dato atto che sono stato fra i consiglieri più assidui.
D. Complimenti.
R. Fatica sprecata, è stato inutile.
D. Come hanno reagito i compaesani?
R. Mi hanno detto bravo, hai dato a tutti uno schiaffo morale.
D. Le hanno promesso il voto?
R. C’è stato chi ha voluto farmi sapere che in futuro si ricorderà del mio gesto.
D. Ammette di aver fatto un investimento per le prossime elezioni?
R. Giuro che l’ho fatto senza pensare a calcoli elettorali.
D. Dopo 15 anni dall’alluvione, come vivono i sarnesi?
R. C’è chi aspetta ancora i finanziamenti per ricostruire l’abitazione.
D. Nelle case si trema ancora, ogni volta che piove?
R. Da tempo si sono esauriti i fondi per la manutenzione degli alberi e dei canali di raccolta delle acque.
D. Si temono nuove frane?
R. La montagna è in sicurezza, ma qui è la paura a salvarci la vita.
D. Su che cosa si litiga, in Consiglio comunale?
R. Sulle tasse, sui costosissimi servizi appaltati a ditte esterne, sui bandi sospetti, sul rischio-nepotismo.
D. Lei ha appoggiato anche la giunta di centrodestra che cacciò via l’architetto Stefano Boeri cui era stato affidato il nuovo piano regolatore: si è pentito?
R. Fu una figuraccia: dopo nove anni, non siamo stati in grado di varare alcun documento urbanistico e usiamo ancora quello del 1972.
D. Si è pentito dei 10 mila euro restituiti?
R. Per nulla. Sono un avvocato di paese, non coltivo ambizioni esasperate: spero però che il mio gesto induca a riflessione chi fa politica da professionista.
D. Che intende dire?
R. Deputati e senatori italiani si facciano l’esame di coscienza.
D. A quale scopo?
R. Se si accorgono di non averlo meritato, restituiscano allo Stato stipendi, prebende e vitalizi.
Mercoledì, 06 Febbraio 2013