mardi, novembre 23, 2004

Se Tremonti capisse che far politica non è come vincere una cattedra

Se Tremonti capisse che far politica non è come vincere una cattedra
Una notevole carriera accademica. Al lavoro con Formica. La rivolta antifiscale. Due volte ministro
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Milano. Giulio Tremonti è un accademico. Dopo avere studiato Giurisprudenza, allievo di uno dei selezionatissimi collegi pavesi, ha iniziato una carriera che lo ha portato giovanissimo alla cattedra di Scienze delle Finanze. Un imprenditore ricorda come il Tremonti studioso di Finanza sia uno dei cervelli più innovativi su scala europea. Un collega universitario osserva, invece, come proprio la formazione universitaria segni le caratteristiche del suo fare politica: l’orgoglio nella propria intelligenza e lo stile da rissa di facoltà che sostituisce le complicate mediazioni della politica.
Eppure alle cose di governo Tremonti è abituato. All’inizio degli anni 80 affiancò Rino Formica, ministro delle Finanze, sperimentando sin d’allora un’inesauribile capacità inventiva. Poi dalle frequentazioni con Franco Reviglio, nacque anche una consuetudine con l’Eni. E grazie alle connessioni petrolifere costituì un quartetto di amici che ha lasciato qualche segno nelle vicende economiche e politiche. I quattro moschettieri erano, con Tremonti, Carlo Scognamiglio, Alberto Meomartini, Domenico Siniscalco. Con la crisi degli anni 90 Tremonti si lancia nella “rivolta fiscale” e si avvicina agli ambienti del Patto Segni, con l’obiettivo di costruire un asse con la Lega lombarda. Arriva quasi all’obiettivo, quando Umberto Bossi sconfessa l’accordo firmato da Roberto Maroni. Tremonti è sconcertato, si presenta comunque alla Camera con il Patto Segni, che lui dà per vincente. Invece la maggioranza va a Silvio Berlusconi e Tremonti diventa ministro delle Finanze. In pochi mesi riesce a varare un piano di defiscalizzazione degli investimenti che rilancia l’economia e prepara un’eccezionale proposta di riforma delle tasse che rimarrà inattuata. All’opposizione svolge un ruolo prezioso nella ricucitura tra Lega e Forza Italia, contribuisce così alla vittoria elettorale del 2001. Diventato ministro dell’Economia, Tremonti è di fatto il ministro più potente del governo. Inizia il suo incarico denunciando il buco del centrosinistra, senza però indicare un piano di risanamento: confida nella ripresa dell’economia, che invece è ulteriormente scoraggiata dall’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. Nonostante l’emergenza mantiene la sua linea di rapporti prudenti sia con il Quirinale sia con la Commissione europea, preferendo affrontare le scadenze urgenti con previsioni rosee (avallate da Bankitalia) e con geniali invenzioni (dallo scudo fiscale alle cartolarizzazioni), presto imitate in tutta Europa.

Lo scontro con le fondazioni bancarie
Quando dall’impostazione della politica economica passa a questioni concrete dell’amministrazione, apre uno scontro con tutte le Fondazioni bancarie. Il suo obiettivo è la Fondazione Cariplo. Investe invece tutto il sistema finendo per scontrarsi con il governatore di Bankitalia, anche perché nel frattempo si apre la guerra su Mediobanca. Mentre continua con geniali espedienti finanziari a evitare che gli italiani siano tartassati nonostante la stagnazione, Tremonti accumula nemici, innanzi tutto tra gli alleati. E non è più in grado d’impostare una politica basata su tagli della spesa e tagli fiscali. S’inventa così il neocolbertismo e la lotta alle importazioni cinesi, logorando così la sua credibilità. Nel frattempo la gestione del ministero è impeccabile: ottimo lo staff, ottime le nomine nelle società controllate dal Tesoro. In campo europeo acquisisce un prestigio personale e aiuta a risolvere in modo forse un po’ troppo furbo le crisi legate ai deficit francese e tedesco.
Con le crisi Cirio e Parmalat, Tremonti è convinto che si aprirà un nuovo scenario e che si dimetteranno Cesare Geronzi e Antonio Fazio. Così conquista interlocutori anche a sinistra ma continua a logorare i rapporti con le forze politiche con cui dovrebbe governare. Trascura il fondamentale insegnamento machiavelliano che gli avversari si deve “spengerli o vezzeggiarli”. La sua linea è “minacciarli e tenerli in vita”. In una notte del luglio 2004 è costretto alle dimissioni. Che cosa farà ora? Conta sulla Lega: ma furono proprio Maroni e Calderoli che chiusero gli occhi quando Fini ottenne la sua testa. E’ utilizzato da tutti i cinici per logorare Berlusconi, ma ben difficilmente costruirà qualcosa in alleanza con costoro. Parafrasando Giuseppe Stalin, non si vedono le divisioni di cui Tremonti può disporre. Riflettendo sulle sue esperienze dovrebbe ripassare la lezione sulle alleanze necessarie per fare politica (e non per vincere una cattedra), esaminare in concreto quelle per lui possibili e perseguirle senza rancore, sentimento che in politica porta alla sicura sconfitta.

Silvio Berlusconi senza vie di mezzo IL FOGLIO 23/11/2004

Silvio Berlusconi senza vie di mezzo IL FOGLIO 23/11/2004

Giù le tasse, non è una promessa ma una strategia e un mandato del popolo
Un programma sottoscritto dai leader della Cdl o lo si attua o la parola torna al paese
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Il mio partito ed io non siamo disposti a voltafaccia
Gentile direttore - Questo che la prego di ospitare non è un articolo, è quasi un manifesto. E’ una postilla al contratto con gli italiani, ma decisiva perché ne riassume il significato e il valore politico ed etico. Infatti quel contratto non era un espediente elettorale, secondo la versione banale che ne danno i soliti increduli e qualche praticone della politica politicante. Quel contratto esprimeva il senso stesso del mio ingresso nella politica italiana, dieci anni fa. Era l’unica legittima giustificazione, dopo sette anni di inganni seguiti al ribaltone del ’94, della perseveranza e perfino dell’ostinazione con cui un imprenditore aveva cambiato vita e mestiere per compiere una “missione politica” nel senso più alto e necessario di questa espressione.
Il cuore del contratto con gli italiani è che questo paese può fare meglio, può diventare più libero e più responsabile. E che questa nuova libertà responsabile è possibile ottenerla solo ed esclusivamente riducendo la dipendenza del cittadino, e in primo luogo del lavoratore, del contribuente, dallo Stato, che è fatto per servirlo e non per esserne servito. La riduzione del carico fiscale sul reddito individuale e sull’impresa grande e piccola non è né un regalo né una promessa: è bensì una strategia di cambiamento del nostro modo di vita, è un nuovo orizzonte, è una nuova frontiera della politica. Il cuore del cuore del contratto era la chiara e libera volontà, affermata testualmente e chiaramente, di vincolare alla realizzazione di questo programma la sorte del mio impegno personale e di quello del partito di maggioranza relativa che ho avuto l’onore di fondare dieci anni fa. Se le imposte si riducono in modo consistente e visibile, la corsa continua. Altrimenti, la parola deve tornare agli italiani perché siano loro a decidere del proprio destino.

Ridimensionare la spesa pubblica
Lo stolto dice che sono prigioniero delle promesse elettorali. Non è così. Io sono volontariamente prigioniero solo della mia idea di libertà, in economia e in politica. Io sono convinto che l’azione di governo deve fondarsi su un mandato, e che il mandato degli elettori sovrani è il fondamento, è la legittimazione dell’esistenza di un governo e della sua effettiva capacità di agire. Il resto è professionismo politico senza contenuto e senza legittimità democratica. Se sulle nostre spalle pesa uno dei debiti di Stato più colossali del mondo, la colpa è di governi che hanno governato senza tenere in alcun conto il mandato elettorale. Se la benedetta introduzione della moneta unica europea ha fino ad ora prodotto un risultato che è l’esatto contrario dello scopo per cui l’euro nacque, e cioè un’economia asfittica e una crescita zoppicante sotto il fardello del vincolismo “stupido” invece che una liberazione delle grandi energie dell’Unione, lo si deve di nuovo al clamoroso abbaglio di una politica senza mandato. Le burocrazie e i partiti sono l’ossatura costituzionale dello Stato e i necessari protagonisti della vita pubblica, ma il protagonista più grande e indiscusso è il cittadino elettore, è lui il padrone costituzionale delle decisioni che lo riguardano.
La riduzione strutturale delle imposte, combinata con un intelligente ridimensionamento e cambiamento qualitativo della spesa pubblica e con un duttile ricorso al deficit di bilancio, è la leva che ha permesso i più grandi risultati nella storia dell’economia occidentale. Senza sviluppo non c’è risanamento, ma stagnazione. E senza maggiore libertà economica, lo sviluppo non arriverà mai. Attivare la leva fiscale è la politica di questo governo, concordata con la maggioranza che lo ha eletto e presentata nella massima chiarezza agli italiani e sottoscritta con parole inequivoche dai leader e dai candidati dei partiti della coalizione di governo. Impossibile anche solo pensare che a questo programma si possa rinunciare, aggiustando in qualche modo le cose a seconda di nuove convenienze e rinnegando un esplicito mandato con argomenti contingenti e di facciata. Il mio partito ed io non siamo a disposizione per questo voltafaccia. Il presidente del Consiglio non è a disposizione per questo rovesciamento del senso stesso di una missione di cambiamento e di sviluppo del paese.
Sono orgoglioso della stabilità assicurata all’Italia. Dei progressi nel campo dell’occupazione e del mercato del lavoro. Della nostra capacità di introdurre riforme decisive nei campi dell’educazione, del vivere civile, del sistema pensionistico, dell’organizzazione federale dello Stato. Sono fiero della severità con cui abbiamo tenuto in ordine i conti pubblici in un tempo di stagnazione e sotto gli effetti della guerra contro il terrorismo all’indomani dell’11 settembre. La copertura delle riduzioni fiscali c’è anche in virtù di questa azione responsabile di politica economica.
Sono convinto che l’Italia abbia speso nel modo migliore la sua influenza nel mondo per espandere la democrazia contro le tentazioni neototalitarie coltivate dai fanatici della guerra santa. So che con la firma a Roma del nuovo Trattato costituzionale l’Europa ha fatto un passo avanti molto significativo sul piano politico, e sono impegnato alla più solerte ratifica di questo passo avanti. Abbiamo fatto tutto quel che dovevamo per integrare e rilanciare sul piano mondiale le due grandi tradizioni politiche italiane, quella atlantica e quella europeista. Ma non sono per nulla soddisfatto dell’evidente povertà dei tassi di crescita delle economie europee e di quella italiana, specie se comparate all’energia mostrata dall’economia americana, rilanciata dal più consistente taglio fiscale della storia di quel paese. Non sono per niente soddisfatto del tasso troppo basso di innovazione, di ricerca, di investimento e consumo delle economie europee e della nostra.
Senza una radicale immissione di libertà e di responsabilità, senza un appello e una scossa alla società, ai cittadini e alle imprese, il rischio da tutti percepito è quello di un declino strategico. Una costante della storia dice che meno i popoli sono liberi, meno sono ricchi. E che la prosperità vera è un modo di vita dignitoso per tutti, in cui a ciascuno sia lasciata una quota di responsabilità, pari alla sua libertà, per crescere e competere con gli altri. La solidarietà sociale e le regole pubbliche, elementi indispensabili in ogni economia di mercato, possono e devono correggere gli squilibri, ma non devono mai diventare una filosofia della rinuncia, una limitazione delle libertà individuali e imprenditoriali, una filosofia della miseria.
Spero e credo che sia possibile usare i diciotto mesi che ci separano dalla fine della legislatura per andare fino in fondo. In Europa è fortissima la spinta a rivedere gli aspetti di vincolismo rigido del Trattato di Maastricht, quei fattori perversi che hanno incrementato il valore della nostra moneta oltre il necessario e artificialmente penalizzato la competitività delle nostre industrie e dei nostri servizi. Il nostro modello produttivo e di consumo deve tornare a credere in un orizzonte economico più libero e competitivo. Chi produce reddito individuale e profitto d’impresa deve tornare a credere nella possibilità di spenderlo e di investirlo in piena autonomia e indipendenza da uno Stato mangiatutto.
E’ per questo che sono entrato in politica. E’ per questo che ho formato una coalizione di governo. E’ per questo che ho firmato un contratto con gli italiani a nome di questa coalizione. E’ per questo che disponiamo di una maggioranza elettorale chiara e stabile nel paese e in Parlamento. E’ per questo che ho detto e confermo, senza arroganza, ma anche senza cedere a quello spirito rinunciatario che è il male oscuro della politica italiana: o si attua il programma fino in fondo oppure la missione è finita e la parola torna al paese.
Silvio Berlusconi

(23/11/2004)

America e l'aborto IL FOGLIO 23/11/2004

America e l’aborto IL FOGLIO 23/11/2004

Bush si adegua alla legge 194 eppure in Italia è accusato di “umiliare il corpo femminile”
Milano. L’America è pronta a vietare l’aborto e, come ha scritto Ritanna Armeni su Liberazione, a “umiliare il corpo femminile”? Leggendo i giornali italiani sembra proprio di sì. La destra religiosa avrebbe chiesto il conto a George W. Bush, il quale ora è pronto a ripagarla rendendo illegale il diritto di scelta della donna. La caricatura è evidente e non tiene conto che rendere illegale l’aborto è difficilissimo, se non impossibile.
In America non c’è una legge sull’aborto, esiste dal 1973 una sentenza della Corte Suprema, la “Roe contro Wade”, che ha liberalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza. L’aborto non è regolamentato come in Italia, ma libero sempre e comunque. La destra americana non è mai riuscita a ribaltare la sentenza, nonostante la Corte sia a maggioranza conservatrice. Repubblica ha scritto che Bush vuole nominare giudici “di provata fede antiabortista”, ma è noto come il presidente abbia sempre detto, anche nei dibattiti, che non sceglierà i giudici supremi facendogli un test sull’aborto. E’ stato John Kerry, invece, a dire che l’aborto sarebbe stato decisivo per le sue nomine. La strada sarebbe difficoltosa anche se non si volesse credere a Bush, anche se riuscisse a nominare tre nuovi giudici antiabortisti. Il Senato dovrebbe confermarli, anche con il voto dei democratici; poi i giudici dovrebbero cancellare la “Roe contro Wade”. Ma anche in questo caso estremo, l’aborto non diventerebbe illegale, sarebbe rimandato alla legislazione dei singoli Stati sovrani.
Sì è detto, anche, che la prova della presa di potere degli evangelici si può rintracciare nell’opposizione alla nomina di Arlen Specter alla presidenza della Commissione Giustizia del Senato. Specter è un repubblicano favorevole all’aborto, come molti altri nel partito (Giuliani, Schwarzenegger, cioè le star che alla Convention hanno oscurato la destra religiosa). Quella poltrona è fondamentale per la procedura di conferma dei nuovi giudici. Gli antiabortisti hanno chiesto di bloccare la nomina di Specter, ma i repubblicani lo hanno eletto regolarmente. Nel frattempo sono stati i democratici a scegliersi come leader al Senato, Harry Reid, cioè un senatore contrario all’aborto.
Spuntata la prima prova del complotto degli evangelici, eccone pronta un’altra: la disposizione nella legge di bilancio che impedisce alle istituzioni che finanziano gli ospedali di forzare le strutture sanitarie a fornire i servizi di aborto. Scandalo, in Italia. Ma non si sono accorti che, il giorno dopo, i democratici hanno deciso di non fare ostruzionismo, dopo aver ottenuto la promessa di discutere una proposta di legge contro il provvedimento. Nei primi quattro anni di Bush gli unici interventi riguardanti l’aborto sono stati il riconoscimento come reato federale del danneggiamento del feto in caso di aggressione a donne incinte e il divieto della “nascita parziale” o “aborto tardivo”, brutale pratica vietata in Italia dalla legge 194.

(23/11/2004)

vendredi, novembre 12, 2004

Perché Berlusconi perde Il Foglio 12/11/2004

Come e perché Berlusconi ha perduto la battaglia delle tasse senza mai davvero combatterla
Il leader che era partito con il sogno liberale e si è arreso alla gestione dell’esistente
Roma. L’autodifesa del Cav. sulle tasse si è tenuta per una forma di nemesi al comando generale della guardia di finanza in occasione del 230° anniversario del corpo. Il Cav. ha usato i suoi argomenti: la riforma fiscale è fallita per le scarse risorse a disposizione, “a causa della gestione avventurosa della spesa pubblica fatta in passato”; poi ha rilanciato: “Se lo stato ti chiede più di un terzo di quello che guadagni hai la sensazione di essere vittima di un’ingiustizia”. Infine con quella berlusconiana eccentricità, che ne fa comunque un fuoriclasse, davanti ai finanzieri ha aggiunto: “Se lo stato chiede più di un terzo, il contribuente si sente autorizzato a trovare sistemi elusivi o evasivi che non lo fanno sentire colpevole”. Un passaggio con cui ha cercato di rimettersi in sintonia con l’opinione pubblica, dopo la malinconica sconfitta della giornata precedente. Il Cav. di mercoledì sera immalinconiva: “Avrei osato di più, ma non ho il 51 per cento dei consensi, e queste sono le mie truppe”, aveva detto. Eppure nessun leader italiano democraticamente eletto aveva mai contato su tante truppe, e per di più la forza politica di Silvio Berlusconi non era stata la truppa, ma l’entusiasmo rivoluzionario. L’abbondanza di truppa ne era stata la conseguenza. Immalinconiva il Cav., perché la decisione maturata mercoledì era la fine di una stagione: riduzione delle tasse sui redditi rinviate al 2006 (a tempo scaduto, ne sentiremo gli effetti sulla denuncia dei redditi 2007); in cambio via libera alle richieste concertative dei tre sindacati degli imprenditori – guidati dalla zazzeruta Confindustria di Luca di Montezemolo – e alle rivendicazioni postdemocristiane degli onorevoli Gianni Alemanno e Marco Follini. Qualcuno dice che era inevitabile. Ecco Tito Boeri, professore di economia alla Bocconi, animatore del sito lavoce.info: “Era una decisione obbligata. Con quella situazione finanziaria, non si poteva fare altrimenti. E’ stata una scelta di realismo”. Ma non era il realismo la posta iniziale con cui il Cav. si era seduto al tavolo della politica dieci anni fa. Berlusconi aveva vinto le elezioni del 1994 e poi quelle del 2001 con una carica eversiva di liberismo temperato da padano buonsenso. E oggi sono proprio i liberisti i più immalinconiti. Dice Alberto Mingardi, direttore della fondazione Bruno Leoni: “La fine del berlusconismo era già avvenuta. Mercoledì, però, abbiamo assistito al funerale solenne. E’ vero che il programma di governo del centrodestra era articolato su cinque punti, ma la riduzione della pressione fiscale era la cosa più importante, quella su cui Berlusconi aveva costruito il suo consenso”. Gli uomini del presidente cercano di attenuare l’effetto della ritirata. “Non è detto che tutto finisca qui – dice Luigi Casero, responsabile economico di Forza Italia – E’ solo un rinvio al 2006. La situazione economica questo ci consentiva, un intervento complessivo di 4 o 5 miliardi e la coalizione ha spinto sull’Irap”. Per il Cav. il problema oggi è capire quanto del suo ottimismo resti in circolazione. Questo spregiudicato Ronald Reagan brianzolo ha ancora un credito rivoluzionario? In dieci anni Berlusconi ha completamente ribaltato quasi tutte le nostre abitudini politiche e ha dato un ritmo alla vita pubblica nazionale che prima non aveva. Ha reso possibile la riforma del sistema politico in senso maggioritario, tenendo insieme tre o quattro anime diverse della costituenda destra italiana e costringendo il fronte opposto a fare lo stesso; ha realizzato una formidabile rivoluzione del linguaggio politico che si è spinta fino al limite di soluzioni spesso incomprensibili per lo snobismo politichese corrente, ma incredibilmente efficaci; in politica estera ha dato un peso nuovo al paese, lo ha sottratto alla sudditanza psicologica all’asse franco–tedesco e lo ha spostato verso un sistema di rapporti più congeniale ai cambiamenti in atto nel mondo. Dice Mingardi: “Ha fatto un’altra cosa per la quale bisogna essergli grati. Anche se domani scomparisse in una nuovola di fumo, è soprattutto grazie a lui se il dibattito politico si è enormemente ampliato: tornando al tema della sconfitta di due giorni fa, è grazie a lui che oggi in Italia è possibile parlare di riduzione delle tasse senza essere presi per matti. Prima di Berlusconi non esisteva un diritto di cittadinanza per questi argomenti”. Ma Berlusconi è stato anche l’uomo che da un certo momento in poi ha attenuato la sua carica. Che cosa gli rimproverano gli appassionati di com’era una volta? In politica economica ha consentito che i suoi ministri galleggiassero, ha abbandonato la battaglia sull’alleggerimento dei vincoli di bilancio imposti dalle regole europee. (D’altra parte, anche in politica estera ha abbassato un po’ la guardia, rendendosi disponibile a condividere con il Quirinale una attitudine di rapporti che non perdesse di vista una più tradizionale diplomazia internazionale). Sulle questioni sociali si è fatto intrappolare da una visione solidarista portata da cattolici, aennisti, forze sindacali di complemento che cercano di dare una risposta di maniera ai problemi del paese. Nell’assestamento dei rapporti di forza nel sistema politico, finanziario e industriale, è sembrato abdicare al suo ruolo di outsider preferendo una specie di integrazione che molti suoi sostenitori vorrebbero scoraggiare: pensano che oggi Berlusconi faccia parte del sistema. Dice Mingardi: “E’ facile individuare il primo errore. Ha vanificato il suo momento d’oro nei primi cento giorni. Era allora che poteva fare tutto. Invece è sembrato concentrarsi su una scaletta il cui ordine di priorità non era l’economia, ma quelle difficoltà personali che riteneva gli fossero d’ostacolo per ben governare. Ma è da lì che è cominciata la lenta agonia del suo governo”. Troppi annunci Casero non condivide questa analisi: “Durante i cento giorni si poteva accelerare – ammette – ma ricordiamoci che subito è venuto fuori il conto delle spese elettorali ereditato dal governo Amato, e poi è arrivato l’11 settembre”. L’11 settembre è una tappa decisiva nella storia del secondo gabinetto del Cav. La prima occasione perduta. Spiega Boeri: “Uno degli errori fatti dal governo è stato insistere su annunci che avevano come obiettivo incoraggiare psicologicamente l’opinione pubblica, ma che hanno ottenuto il risultato contrario. Non si può dire che le cose vanno bene, se la gente è in grado di misurare autonomamente un peggioramento della vita quotidiana. Non è solo un errore politico, ma anche un errore in politica economica, perché quegli annunci hanno generato incertezza”. Altra occasione perduta, articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Due anni di scontro con il sindacato su una questione poi abbandonata. Mingardi: “La verità è che Berlusconi sul terreno economico ha giocato solo battaglie che ha perduto”. Replica Casero: “L’articolo 18 non era una battaglia sua, e la battaglia sulle tasse è più difficile di quanto sembra. Non è in gioco solo la riduzione del carico fiscale, ma la diminuzione della quantità di ricchezza che lo stato deve ridistribuire. E’ una battaglia culturale: tagliare le tasse vuol dire prima o poi tagliare la spesa. Tre mesi di discussione ci hanno insegnato che non c’è solo un problema di rappresentanza politica (dove e quanto tagliare), ma una diffidenza ideologica nei confronti della riduzione del potere dello stato”. “Ma anche questo – osserva Boeri – forse sarebbe stato preferibile dirlo apertamente”. Certamente dunque, molti errori e qualche duro colpo subìto (come questo sulle tasse), ma non bisogna sottovalutare la capacità di reazione del Cav. Ieri con i finanzieri non è stato capace di risparmiarsi una battuta del suo repertorio allegro, felicitandosi per essere stato lui a fare una visita a casa loro e non il contrario.

vendredi, octobre 29, 2004

Gli errori di Hitler e Bush

l'antitaliano di Giorgio Bocca Gli errori di Hitler e quelli di Bush L’Espresso 29/10/04

Corsi e ricorsi storici. Nell'estate del 1942 le armate naziste possono puntare su Mosca e su Leningrado, ma Hitler è di un altro parere: vuole impadronirsi del Caucaso e arrivare a Grozny, proprio Grozny, il passaggio obbligato per i rifornimenti petroliferi dell'Unione Sovietica.
Invano i generali dello Stato maggiore lo implorano perché non disperda le forze e non allunghi le vie dei rifornimenti. Nella sua fanatica determinazione il dittatore farà il contrario, preparando la svolta di Stalingrado.
Oggi il nome di Grozny torna nella determinazione dei russi di mantenere il controllo della Cecenia e del Caucaso e l'ossessione del petrolio torna nella guerra sbagliata degli Stati Uniti in Iraq, nello spostamento asiatico dell'esercito americano, nel rischio di una guerra nucleare.
Perché una cosa che sembrava assurda comincia ad apparire chiara: l'Iran degli ayatollah cerca disperatamente di arrivare a un deterrente atomico per evitare che gli Stati Uniti decidano di portare anche a Teheran la democrazia e la presa di controllo delle riserve petrolifere che sono, dopo le saudite e le irachene, le terze nel mondo.
Putin ha votato per Bush perché gli interessi delle due potenze e le loro illusioni nel controllo del petrolio coincidono. All'inizio della guerra nell'Iraq, l'ambasciatore americano a Roma, Mel Sembler, disse qualcosa che agli europei sembrò non dissimile dalla fanatica ostinazione di Hitler: "Chi pensa che gli Stati Uniti siano disposti a perdere il petrolio del Medio Oriente è uno che non conosce l'America e gli americani".
Diceva il vero, un vero catastrofico. Nella pazzia dei potenti di questa Terra c'è la razionalità della schizofrenia, la stessa che spinse la Germania nazista a cercare il suicidio sulla via del Caucaso. La causa prima è schizofrenica: è sempre quella della ricerca dell'egemonia mondiale. Gli Stati Uniti non possono ignorare che la guerra per il petrolio è la premessa di una guerra mondiale da cui la specie umana uscirebbe distrutta.
Ma perché le due grandi potenze vogliono correre questo rischio? Non sanno che il petrolio è una risorsa non recuperabile, che la sua ricerca e il suo uso economicamente convenienti sono sulla via dell'esaurimento?
Lo sanno, ma pensano che la transizione a una economia del dopo petrolio, del ritorno al carbone, dell'idrogeno e del nucleare debba essere affrontata da posizioni di forza; che si debba gestire la crisi a proprio vantaggio e che coloro i quali meno avranno pagato in questa transizione, usciranno più forti e più ricchi dei paesi fuori dal controllo dei prezzi petroliferi. E la crisi dei prezzi, la tempesta del mercato, gli pare la controprova che sia necessario stare su posizioni di forza.
Siamo in un periodo storico di continui mutamenti e di terrificanti fibrillazioni delle idee e dei valori. Le ipotesi, anche quelle catastrofiche, non sono interamente credibili, ma che i rischi siano alti e altissimi è evidente.
Come si può affidare alla forza militare un controllo intercontinentale quando con questa forza non si riesce a piegare neppure un paese debole e povero come l'Iraq? Che marcia verso l'Oriente è possibile quando i tre paesi leader, il Pakistan, l'India, la Cina, hanno miliardi di abitanti e dispongono di un arsenale atomico? Quale confronto militare è possibile in Asia se non una ecatombe del genere umano?
Eppure tutto è possibile, si intende. È stato possibile che i dirigenti della Germania nazista, un paese che era alla testa della ricerca scientifica e della organizzazione del lavoro, fossero completamente disinformati sugli Stati Uniti, credessero fermamente che erano un bluf, che sarebbe bastato un soldato tedesco a mettere in fuga 100 mila americani. Un errore. Ma l'Europa ne è uscita distrutta.


jeudi, octobre 28, 2004

Joska avait raison

Joschka avait raison


Le projet de Constitution adopté le 18 juin à Bruxelles est-il bon ? Jean-Louis Bourlanges décrit bien la déception de beaucoup d’Européens quand il confesse[1] «J’avais coutume de dire quand je regarde la Constitution, je me désole; quand je la compare au Traité de Nice, je me console. Mais je me console de moins en moins : le texte du 18 juin ne déplace pas les lignes par rapport au Traité de Nice. L’essentiel des compétences politiques (défense, politique étrangère, fiscalité, lutte contre la criminalité) demeure régi par un système de décision à la fois archaïque et paralysant.»

«Un système archaïque et paralysant » ! Qu’est-ce qui bloque ? Comment expliquer que, même les plus pro-européens critiquent aussi vivement la Constitution qui nous est proposée ? La règle d’unanimité a été maintenue sur toutes les questions importantes. De ce fait, quel que soit le vote des citoyens au moment des élections européennes et même lorsque la gauche gouverne 12 pays sur 15, le Conseil européen, organe central du pouvoir, ne fait avancer que les projets correspondants au plus petit commun dénominateur (à la mode libérale). Il faudrait que 15 pays sur 15 (et maintenant 25 sur 25) soient d’accord pour que l’on puisse vraiment changer de cap… Aucune alternance n’est jamais possible. Le bilan du Conseil n’est jamais soumis à un débat public. Les projets ne sont jamais soumis au vote des citoyens… Le Conseil n’a pas un fonctionnement démocratique. Quant à la Commission, sa composition rend son fonctionnement de plus en plus incompréhensible par le citoyen : c’est un homme de centre gauche, Romano Prodi, qui préside la Commission qui achève son mandat mais son Commissaire à la fiscalité est un ultra-libéral qui propose de supprimer l’impôt sur les sociétés ! Où est la cohérence ?

Ce n’est pas en améliorant la bougie qu’on a inventé l’électricité. Ce n’est pas en mettant quelques rustines aux institutions conçues à 6 que l’on fera naître l’Europe des 30. Rester dans une logique intergouvernementale nous mène à l’impasse : comment justifier que, sur les questions les plus importantes, on donne le même poids au gouvernement allemand et à celui de Malte (dont la population est 209 fois plus petite) ? Certes, pour sortir de la règle d’unanimité, un dispositif de « coopération renforcé » a été prévu. Mais pour la politique extérieure, par exemple, il faudra l’autorisation de tous les pays pour qu’un groupe de pionniers ait le droit de se constituer… Est-il démocratique que Malte (0,08% de la population européenne) puisse bloquer une coopération éventuelle entre la France, l’Allemagne et quelques voisins ? Que Malte ne soit pas obligé de participer, cela se comprend mais que Malte (ou tout autre gouvernement) puisse définitivement nous empêcher d’avancer, c’est injustifiable.

Comment sortir de l’impasse ? «L’élargissement rend indispensable une réforme fondamentale des institutions.» affirmait Joschka Fischer, le Ministre allemand des Affaires étrangères, à l’Université Humboldt de Berlin le 12 mai 2000. «Comment imaginer un Conseil européen à 30 chefs d’Etat ? Combien de temps les réunions vont-elles durer ? Des jours, des semaines entières ? Comment parvenir à 30, dans les institutions actuelles, à adopter des décisions et encore à agir ? Comment éviter que les compromis ne soient de plus en plus étranges et que l’intérêt des Citoyens pour l’Union ne finisse par tomber bien en dessous de zéro ? Autant de questions auxquelles il existe une réponse toute simple : le passage à un système entièrement parlementaire que demandait déjà Robert Schuman il y a cinquante ans. »

Elaguer et mettre en place un régime parlementaire «Les problèmes du XXIème siècle ne peuvent être résolus avec les peurs et les recettes des XIX et XXème siècles, continuait Joschka Fischer. Une répartition précise des compétences entre la Fédération et les Etats nations devrait laisser à la Fédération uniquement les questions demandant à être réglées impérativement au niveau européen tandis que le reste demeurerait de la compétence des Etats. Il en ressortirait une Fédération élaguée, capable d’agir et compréhensible pour ses citoyens parce qu’elle aurait surmonté son déficit démocratique. » concluait le Ministre allemand dans un discours qui reste totalement d’actualité. Si l’on adoptait le fonctionnement parlementaire proposé par Robert Schuman et Joschka Fischer, l’ensemble de la Commission, le Gouvernement européen, serait d’une seule couleur politique, celle qui a la majorité au Parlement européen. Il n’interviendrait que sur les questions sur lesquelles un pays isolé n’a plus vraiment de souveraineté, celles sur lesquelles nous devons absolument nous unir pour être efficaces (défense, diplomatie, monnaie, recherche, sécurité intérieure, environnement…). Il serait désigné par la majorité du Parlement européen pour mettre en œuvre le projet exposé aux citoyens avant les élections européennes. Il aurait cinq ans pour mettre en œuvre ce projet (le Conseil n’ayant qu’un rôle limité, comme le Sénat en France).

Il disposerait d’une fiscalité propre. Impôt sur les bénéfices, écotaxe ou taxe Tobin améliorée, un impôt voté par le Parlement européen financerait la défense, la diplomatie, la recherche, les fonds structurels, l’aide aux nouveaux adhérents comme l’aide à la Turquie (Cf Rocard et Larrouturou « Pour un impôt européen » Libération 19 mars 2004). Tous les 5 ans, les citoyens pourraient faire le bilan de l’action de la majorité sortante et décider de lui donner ou non cinq ans de plus... La proposition de Joschka Fischer aurait l’intérêt aussi de respecter le principe fondamental de toute démocratie : un homme, une voix. Un député élu à Malte ayant le même poids qu’un député élu en Allemagne; le vote d’un citoyen Polonais aux élections européennes ayant le même poids que le vote d’un Irlandais ou d’un Espagnol.

La proposition Delors Comment être sûr que les élections au Parlement européen seront réellement des élections européennes et non 25 élections nationales organisées simultanément comme ce fut le cas en juin dernier ? En 1997, Jacques Delors proposait que les formations politiques européennes désignent avant les élections leur candidat au poste de Président de la Commission. Aux Etats-Unis (d’Amérique), les citoyens élisent un ticket (Président et Vice Président) en même temps qu’ils désignent leurs représentants. De ce fait, les électeurs du Texas ont conscience de participer au même scrutin que ceux de Floride. Pourquoi les partis qui participent aux élections européennes ne pourraient-ils pas désigner avant les élections les trois personnalités (issues de trois pays différents) qui dirigeraient la Commission pendant 5 ans ? C’est un bon moyen pour forcer les partis à s’entendre sur des programmes réellement européens.

Les propositions de Joschka Fischer, assez proches de celles formulées en 1994 par la CDU d’Helmut Kohl, avaient suscité l’enthousiasme de tous ceux qui veulent construire une Europe politique capable de faire équilibre à l’hyper-puissance américaine. A gauche, un très grand nombre de militants et d’élus socialistes avaient immédiatement exprimé leur soutien à Joschka Fischer. Et, à droite, les Européens convaincus avaient applaudi aussi : « Le discours de Joschka Fischer a le mérite de tracer un cap et de dégager l’horizon de l’Union » affirmait Xavier de Villepin. Alain Juppé, pressentant l’opposition anglaise, affirmait qu’il ne fallait pas avoir peur d’une « crise clarificatrice ». « Ces propositions tombent à pic. Si nous n’allons pas dans ce sens, l’Europe ne ressemblera plus à rien. » appuyait Hubert Haenel, le Président RPR de la délégation du Sénat pour l’Union européenne (Le Monde du 30 mai 2000).

Le Non de Védrine Hélas, très vite, le Ministre français des Affaires étrangères entreprit d’étouffer l’enthousiasme naissant. Hubert Védrine expliqua d’abord que Fischer s’exprimait à titre personnel. Mais comme le Chancelier Schröder et le Président Johannes Rau exprimèrent leur soutien à la démarche de leur Ministre, l’argument ne fit pas long feu. Puis, M. Védrine expliqua qu’il n’avait pas «de goût pour les controverses théoriques», comme si le fait de passer d’une usine à gaz technocratique à une démocratie parlementaire était une controverse théorique !

Au sein du PS, le trouble grandissait : Pourquoi Védrine était-il tellement fermé à la proposition allemande ? On expliqua aux militants que, à cause de la cohabitation, la France ne pouvait pas répondre aux initiatives allemandes. Mais quand le Président Chirac, devant le Bundestag, affirma que Fischer avait raison et qu’il fallait donner une Constitution à l’Europe, Pierre Moscovici affirma que le discours du Président n’engageait pas les autorités françaises… L’explication de la cohabitation s’effondra. Non, Non et Non ! Védrine et Moscovici ne voulaient pas refonder l’Europe ni lui donner une Constitution. La discussion devait porter seulement sur « le reliquat d’Amsterdam » disaient-ils. Le reliquat du reliquat de Maastricht… La question est trop importante pour ne pas rétablir la vérité : il est faux de dire que « les Français » ont dit Non au projet de Fischer comme on l’entend dire à Bruxelles et ailleurs :on a clôt le débat avant qu’il ne devienne un vrai débat public. Il est faux de dire que les socialistes, dans leur ensemble, ont dit Non. Toutes les motions préparatoires au Congrès de Dijon exprimaient au contraire la nécessité de construire une Europe fédérale (et Hubert Védrine n’en a signé aucune…).

Certes ! nous dira-t-on, les propositions de Fischer sont très intéressantes mais il y a peu de chance que Tony Blair accepte cette Europe politique. Que faire si -pour un temps au moins- la Grande Bretagne refuse d’avancer dans ce sens ? Dés 1946, Winston Churchill pressait la France et l’Allemagne de construire les Etats-Unis d’Europe mais il affirmait déjà que la Grande Bretagne n’avait pas vocation à en faire partie ! La Grande Bretagne garderait un rôle de charnière entre les Etats-Unis d’Amérique et les Etats-Unis d’Europe. Pourquoi ne pas accorder au Royaume Uni cette position distincte et privilégiée ? Nul ne peut être obligé d’aller plus loin qu’il ne le souhaite. Mais nul n’a le droit de ralentir exagérément la marche des autres.

Et qu’on ne nous dise pas qu’il faut forcément l’unanimité pour modifier un Traité international. Dans le Nouvel Observateur du 4 décembre 2003, Robert Badinter dénonçait « le carcan » dans lequel on allait enfermer l’Europe. Il rappelait que « de nombreux Traité internationaux comportent une clause de révision à la majorité simple ou à la majorité des 2/3 comme la Charte des Nations-Unies. » Malgré l’opposition des Etats-Unis, le protocole de Kyoto va entrer en vigueur puisque 55 Etats représentant 55% des émissions de CO2 l’ont ratifié. Il est donc totalement faux de dire que l’unanimité s’impose à toutes les négociations internationales. Ce « carcan » s’impose à nous uniquement parce que les diplomates qui négociaient l’ont bien voulu. Réunie quelques jours après les élections européennes qui avaient sanctionné 23 gouvernements sur 25, le sommet des 17-18 juin, le « sommet des battus », s’est déroulé dans une ambiance franchement morose. Il fallait arriver à un accord coûte que coûte et donc accepter des clauses que l’on aurait refusées quelques mois plus tôt…

Le seul reproche qu’on pouvait faire aux propositions allemandes, c’est qu’elles ne s’adressaient qu’à un « centre de gravité » qui semblait restreint aux 6 fondateurs. Fischer s’en est expliqué depuis (Berliner Zeitung 28 février 2004) : si il avait à réécrire son discours, il maintiendrait le besoin de refondation mais «les visions d’une petite Europe sont tout simplement dépassées. » Sur des bases claires, clairement démocratiques, la proposition de participer à la construction d’une nouvelle Europe doit être faite aux citoyens des 25 états.

N’ayons pas peur du débat. En 1945, le peuple français a refusé la Constitution qui lui était proposée. La France n’en est pas morte. Le débat qui avait précédé le référendum avait été assez clair pour que l’Assemblée se remette au travail et, huit mois plus tard, par un nouveau référendum, le peuple approuvait un texte différent.

Et Poul Rasmunsen (Président des Socialistes Européens) ? Et Jose Luis Zapatero (Premier Ministre espagnol) ? Ont-ils tort de soutenir le compromis du 18 juin ? A leurs yeux, « la France » ne veut pas aller plus loin. Ils ont de bonnes raisons de le croire : c’est un Ministre français qui a dit Non aux propositions allemandes et c’est un autre Français, Valéry Giscard d’Estaing, qui a tout fait, durant la Convention, pour éviter les votes qui auraient mis Londres en minorité. Si la France dit Non aux propositions d’approfondissement et si la France s’incline en permanence devant les demandes anglaises, ils peuvent, en toute bonne foi, estimer que la France ne veut pas d’une Europe politique. Dans ce cas, le compromis du 18 juin est la moins mauvaise solution. Mais la France est-elle hostile à une Europe vraiment démocratique ? Valéry Giscard d’Estaing et Hubert Védrine ont-ils le monopole de la pensée européenne ?

Que les citoyens s’expriment ! Ne laissons pas mourir l’Europe ! Si l’on avait attendu un accord entre diplomates, le Mur de Berlin serait toujours debout. Ce sont des citoyens, des élus, des syndicats et des associations qui ont voulu et obtenu la chute du Mur et la réunification de l’Europe. C’est aux citoyens, aux élus, de dire aujourd’hui quelle Europe ils veulent construire. Si l’on pense que le compromis de Bruxelles n’est guère meilleur que le Traité de Nice, si l’on partage aussi la conviction que nous ne devons pas laisser l’Europe s’enfoncer dans une crise qui peut être fatale, nous devons être le plus nombreux possible, élus et citoyens, à signer la pétition demandant que s’ouvre une nouvelle négociation portant sur deux textes distincts :

► une Constitution, un texte court qui ne traite pas du contenu des politiques mais seulement des valeurs, des droits fondamentaux et du fonctionnement des institutions. Un texte qui s’inspire fortement des propositions de Joschka Fischer, de celles de Jacques Delors et, si nécessaire, de Winston Churchill…

► un Traité social, qui fixe des critères sociaux ambitieux, comparables aux critères de Maastricht, et change les règles du jeu en matière de monnaie, de fiscalité, d’agriculture et de relations Nord-Sud. Un Traité qui reconnaît la primauté du principe d'intérêt général sur le droit de la concurrence. Un Traité qui reconnaît vraiment en droit la notion de service public et donne contenu et force à la notion de développement durable. La négociation pourrait partir de la proposition de Traité de l’Europe sociale soutenue par Jacques Delors, Bronislaw Geremek, Michel Rocard, Susan George, José Bové, Antonio Guterres, Elio di Rupo, Enrique Baron Crespo, Jean-Jacques Viseur, Robert Goebbels, Piero Fassino, Timothy Radcliffe, Mgr Ricard, Dominique Wolton et plus de 400 responsables issus de 9 pays de l’Union (Cf www.europesociale.net). L’Europe doit avancer sur ses deux jambes, le Traité monétaire et un Traité social. C’est sur ces deux jambes que l’on pourra poser son corps et sa tête, l’Europe politique, l’Europe de la recherche et de la défense. Une Europe qui construit la paix par la coopération et le développement durable….

[1] Le Nouvel Observateur 24 juin 2004

Perché Berlusconi perde - Il Foglio 27/10/2004

Perché Berlusconi perde. Il Foglio 27/10/2004

Il Cav. perde perché non guida il paese. E per gestire l’esistente è meglio il centrosinistra

Si può perdere dopo aver governato in modo chiaro e magari impopolare. Oppure affondare nell’inerzia che non scuote, non smuove e non convince gli elettori che finiscono per disertare le urne. Al centrodestra berlusconiano gli osservatori sono disposti a riconoscere una politica estera palpabile, portata a coerenza nell’alleanza con l’America di George W. Bush. Quanto al governo del paese, il sospetto è che Berlusconi abbia rinunciato. Che le sconfitte elettorali della Cdl segnalino il declino di un appeal costruito sulla promessa di un buon governo e macerato nella prassi del non-governo. Che tra un rinvio e l’altro – l’ultimo sulle aliquote fiscali è arrivato ieri – la maggioranza abbia abdicato al tentativo di autorappresentarsi e proporsi in nome di un programma inconfondibile, un progetto attorno al quale si producono identificazione e divaricazioni, scontro e consenso. Ne è convinto Angelo Panebianco, politologo ed editorialista del Corriere della Sera, interpellato dal Foglio. “Il risultato elettorale milanese parla da solo – nota Panebianco – e dice che per la gestione dell’esistente è più indicato il centrosinistra, erede della coalizione che ha già governato con l’appoggio dei comunisti, che gode della simpatia e dell’appoggio dei gruppi più importanti della società”. Il centrodestra non innova e non seduce, si limita “a mediare nella difficile amministrazione dello status quo. Dunque perde”. Secondo Panebianco è fuori tempo anche l’impresa di raggiungere una riforma fiscale neoreaganiana, seguendo la stella fissa dell’America che taglia le tasse e spende e ingrossa i suoi indici di crescita. “Recuperare credibilità con il taglio delle imposte è difficile nella prassi e ormai da solo non basta. In più, guardando la Finanziaria, si individuano segnali che vanno in tutt’altra direzione”. Risultato: “Un disorientamento diffuso e variegato, che attraversa i liberi professionisti come gli industriali, i quali per definizione non dovrebbero osteggiare un governo di centrodestra, come invece avviene”. Insomma il non-governo di centrodestra “scontenta tutti”, e oggi è per lo più identificabile con un “un premierato diluito, attorno al quale nessuno può ragionevolmente mobilitarsi”. La sua immagine si sovrappone a quella delle grandi riforme solo annunciate o di altre “sbagliate”. Come quella della giustizia “che è in ritardo di tre anni e fa insorgere persino gli avvocati”, dice Panebianco: “Una buona ragione per licenziare il ministro Castelli”. Ecco il punto: se conserva velleità di governo, il Cav. potrebbe far sedere i suoi ministri a un tavolo e giudicarne l’operato: “Questo ministro funziona, per esempio la Moratti. Quest’altro no e si manda via”, propone Panebianco. Fermo restando il sospetto che “Berlusconi non abbia nemmeno una capacità di monitoraggio sul lavoro svolto”.

Lo stato d’animo nel partito del presidente del Consiglio è un po’ sbattuto. E proprio la difficile gestazione del secondo modulo di riforma fiscale viene avvertita come un difetto di credibilità politica. An vuole conservare l’aliquota marginale per i redditi sopra i 300.000 euro al 43 per cento: “E’ poca cosa da un punto di vista del gettito – dice Luigi Casero, responsabile economico di Forza Italia – però simbolicamente è importante. Se la eliminassimo, se l’aliquota massima fosse al 39, potremmo dire che le tasse sono sotto il 40. L’auspicio è che An non insista, ma questa è una coalizione e bisogna tenerne conto”. Non sono gli obblighi di coalizione gli unici responsabili della scarsa incisività di proposta politica spesso inefficace su tutto quello che non è politica estera: “Sì – riconosce Casero – il problema è che la gestione della politica interna tocca degli assetti di potere, degli interessi vivi, delle ingessature sociali. E’ molto più difficile intervenire, ma non è ancora tardi, la partita politica andrebbe comunque ancora giocata, anche senza l’assillo dei risultati elettorali”.

“Alla fine Berlusconi abbasserà le tasse, ma non è solo da questo che si misura la qualità del suo governo”, assicura al Foglio don Gianni Baget Bozzo. Secondo il quale, “a giudicare dalle antipatie riscosse fra gli avversari, non è vero che il centrodestra non abbia governato”. All’obiezione che il “popolo di Berlusconi” (come lui lo definisce) non è andato a votare, Baget Bozzo risponde che “il nostro è un elettorato con motivazioni politiche e non ideologiche, che non ama le elezioni prive di significato generale, come le suppletive, ma al dunque sarà pronto a mobilitarsi per non consegnare l’Italia alla sinistra”. Intanto la Cdl arretra. Il teologo di FI è convinto che le ragioni stiano “nel deficit di felicità dei cittadini di un’Europa che s’impoverisce economicamente, il che penalizza in modo fisiologico le classi dirigenti”. Che qualcosa non funzioni nella maggioranza, tuttavia, lo ammette anche Baget Bozzo: “Nel grande vuoto riempito da Berlusconi, oggi c’è una coalizione in cui ogni partito ha il suo elettorato specifico e guarda al suo orticello. Ma il collante reggerà, come ha retto finora”.

mercredi, octobre 27, 2004

Buttiglione-Biagi

L’Espresso 26/10/2004

Annali di Enzo Biagi

Anche i filosofi vengono bocciati

Più volte ho detto, pensato e scritto che stiamo vivendo una dittatura morbida: ora toglierei l'aggettivo

Buttiglione paga il conto di Berlusconi
13 ottobre, sant'Edoardo re

Non escludo che ci sia chi ce l'ha anche con l'Italia. Perfino Dante, che pure era di queste parti: "Ah serva Italia di dolore ostello".
L'ultimo caso di ostilità, o se volete, di intolleranza: la Commissione giustizia, libertà pubbliche e sicurezza ha bocciato lunedì scorso la nomina dell'onorevole Rocco Buttiglione a commissario europeo. Oggi però informano che il presidente della Commissione Barroso conferma la 'fiducia' al professore che ha dato dell'incidente, come è ovvio e legittimo, la sua interpretazione: "Bocciato da una lobby" che ce l'avrebbe con Berlusconi. "Ma sono dei bischeri", direbbe Montanelli, che purtroppo ci manca, "a prendersela con Rocco".
Certo, soltanto degli sprovveduti, o dei piccoli opportunisti della piccola politica, possono aver pensato di sostituire Mario Monti col professore di Gallipoli che ha dovuto subire l'umiliazione di un diniego. Ma perché affrontare queste avventure, come se si trattasse dei soliti giochetti nazionali, per sistemare gli amici rischiando poi una figuraccia con uno che, legittimamente, in nome delle sue convinzioni religiose, definisce l'omosessualità "un peccato e un disordine morale". Riflessione personale: ma André Gide non era un grande personaggio e un incancellabile capitolo della cultura, indipendentemente da certi aspetti biografici?
Rocco Buttiglione paga anche conti non suoi: dal litigio di Berlusconi con Schulz all'ostilità di una certa sinistra europea per il nostro governo. Passerà.

Scempi di reclute e tifosi

Il Foglio 200410206

Scempi di reclute e di tifosi
Algeria e Iraq, due stragi, stesso terrorismo ma con due pesi e due misure
A Medea 16 ragazzi sgozzati e uccisi mentre andavano allo stadio. I media però fanno finta di niente
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Roma. Sedici ragazzi sgozzati e uccisi soltanto perché volevano andare allo stadio. Non è successo in Iraq, ma in Algeria: venerdì sera, due ore dopo il tramonto, in pieno Ramadan, un pullman di giovani tifosi si dirige verso Algeri, per assistere alla partita tra la squadra di Maloudia e quella dell’Unione sportiva musulmana di Algeri. Entrato nella stretta gola di Chiffa, vicino a Sid el Madani, poco dopo la città di Medea, il pullman cade in un’imboscata; alcuni ragazzi vengono decapitati, altri uccisi con un colpo alla nuca, i loro corpi sono cosparsi di benzina e poi bruciati. Una scena simile, quasi identica a quella che 24 ore dopo si svolge vicino a Baquba, in Iraq, dove un pullman di giovani neoarruolati nell’esercito iracheno cade in un’imboscata di terroristi islamici e alle povere reclute è riservata la stessa fine dei giovani tifosi algerini. Due le differenze tra le stragi, identica la logica degli assassini.
La prima differenza salta agli occhi: se uccidere reclute dell’esercito iracheno risponde a una qualche logica, sia pure orribile, perché mai uccidere giovani tifosi algerini? La risposta è tutta nell’ideologia dei terroristi del Gruppo salafita di predicazione e combattimento, che hanno la stessa ideologia dei Talebani e considerano quindi il gioco del calcio un peccato, e vedono nel tifo e nei suoi innocenti riti, la “venerazione di diavoli”, un’apostasia da punire con la morte. La seconda differenza riguarda l’occidente, non le vittime: la strage irachena di Baquba ha aperto infatti telegiornali e giornali di mezzo mondo; quella degli ancora più innocenti ragazzi di Medea, invece, è passata inosservata. Al massimo è stata riportata in un trafiletto di cinque righe, nelle pagine più interne. Pure, è una notizia importante, importantissima, tanto quanto è agghiacciante, perché conferma, con l’atrocità compiuta su quei sedici corpi straziati e oltraggiati, che il terrorismo islamico in Algeria è forte, continua a fare strage, che dopo 13 anni e una repressione feroce, è ormai diventato cronico. In questa conferma c’è anche la spiegazione del così poco rilievo che la strage dei tifosi ha così stranamente trovato sui nostri mass media, del perché nessun direttore di giornale abbia trovato interessante la notizia di un terrorismo islamico che considera il tifo calcistico un peccato da punire con lo sgozzamento e la morte. In Algeria, infatti, non c’è nessun americano, non c’è nessuna guerra, non c’è più nessun ebreo (sono stati costretti a fuggire, a centinaia di migliaia), non c’è nessun israeliano. Né Bush né Sharon possono essere accusati di aver fatto nulla che abbia prodotto terrorismo islamico. In Algeria non c’è questione nazionale aperta. Pure, dal 1991, 150 mila sono le vittime del terrorismo islamico, decine di migliaia sgozzate e decapitate. L’Algeria, insomma, testimonia, anche nell’orrore dell’ennesima strage, che il terrorismo islamico nasce dentro la società musulmana contemporanea, che non è reazione a nulla, neanche alla miseria, ma che è intrinseco a un orrido miraggio salvifico, a una religione, a uno scisma islamico, a una visione del mondo in cui il tifoso di calcio va punito con la morte.

La sospensione della democrazia
L’Algeria testimonia poi il fallimento pieno della “via francese” di contrasto al terrorismo. Dal ’91 in poi, infatti, il governo algerino del Fln, trova a Parigi, in François Mitterrand e poi in Jacques Chirac, un totale stimolo e appoggio alla propria strategia antiterrorista. Strategia che è consistita nell’annullamento del secondo turno di elezioni politiche che il movimento fondamentalista Fis aveva ampiamente vinto al primo turno, e poi in un contrasto solo e unicamente militare del fenomeno. Una strategia opposta a quella applicata in Iraq dagli Stati Uniti: a Baghdad la repressione militare dei terroristi s’interseca con la faticosa costruzione di un traguardo, di una prospettiva elettorale di democrazia. In Algeria, la Francia ha solo appoggiato la sospensione della democrazia e una “guerra sporca” condotta dal governo del Fln, con stragi, migliaia di desaparecidos (ci sono due organizzazioni di scomparsi, oggi riunificate: quella delle vittime dei terroristi e quella delle vittime degli squadroni della morte governativi). Guerra civile e abrogazione di ogni processo di democratizzazione, tanto che alle presidenziali del 9 aprile scorso lo stesso Fnl si è presentato spaccato, con un Abdelaziz Bouteflika rieletto presidente solo per segnare il pieno controllo della lobby militare sul paese.