dimanche, novembre 06, 2011

La Lobby di Jekyll Island

La Lobby di Jekyll Island

Usa : dal summit segreto di sette banchieri nacque la FED.

RETROSCENA  di Guido Mattioni   Lettera43.it  20111107  

Faceva freddo, quella notte a Hoboken. Faceva un maledetto freddo e dal cielo veniva giù qualcosa di indefinibile che non era più pioggia, ma che ancora non si poteva chiamare neve. Faceva uno stramaledetto freddo, quella notte a Hoboken, e le pensiline all’aperto della stazione ferroviaria del New Jersey, a un tiro di schioppo dal corso grigio e ancor più gelido del fiume Hudson, non offrivano la benché minima protezione. Ma più che scosso dai brividi, il manipolo di cronisti e fotografi 'parcheggiati' lì in pianta stabile dai principali quotidiani newyorkesi a fare la guardia al barile per la rubrica del «Chi arriva e chi parte», era pervaso da una fastidiosa sensazione. Del genere: «Qui qualcuno ci ha fregati». E da quella, ancor più sgradevole, di essersi probabilmente lasciati scappare una succulenta notizia.

Riunione in sordina.
 Era la notte del 22 novembre 1910 e sarebbe passata alla storia soltanto qualche anno dopo per via di quella clamorosa fregatura tirata ai reporter mondani, molti dei quali spediti a coprire un incarico tanto effimero e disagevole proprio in quanto pivelli alle prime armi. Era così sfuggita loro l’invidiabile occasione di poter raccontare il primo passo che avrebbe poi portato alla nascita della Federal reserve (Fed), la banca centrale americana.

A Hoboken il gotha della finanza mondiale
Una pagina poco chiara, per nulla trasparente. Sarebbero passati sei anni prima che la verità venisse a galla per merito di un giornalista un po’ più sveglio, curioso e pervicacemente ficcanaso: un certo Bertie Charles Forbes, futuro fondatore della rivista economico-finanziaria che ancor oggi porta il suo nome. Sta di fatto che a pochi minuti uno dietro l’altro, sotto i nais dei giovani reporter mondani - più usi a riconoscere belloni dello spettacolo, muscolosi assi del baseball e ancheggianti squinzie annesse - erano sfilati sette degli uomini più potenti del mondo borsistico e finanziario statunitense. Nell’ordine: il senatore repubblicano Nelson Aldrich, capo della Commissione monetaria nazionale; A. Piatt Andrew, assistente del segretario al Tesoro; Frank Vanderlip, presidente della City National Bank di New York, nonché braccio destro di William Rockefeller; Henry P. Davison senior, partner anziano di Jp Morgan Company e indiscusso alter ego di mister John Pierpont Morgan in persona (come dire il padre di tutti i banchieri); il suo collega Benjamin Strong, capo della Jp Morgan Bankers Trust; Charles D. Norton, presidente della First National Bank di Manhattan e Paul M. Warburg, partner della Khun, Loeb and Company, rappresentante delle famiglie Warburg e Rotschild in Europa. Messi tutti insieme, rappresentavano all’epoca un quarto dell’intera ricchezza mondiale.

Lontano dao cronisti di Manhattan.
 Avevano tatticamente deciso di partire da una stazione secondaria come quella di Hoboken, nel New Jersey, in quanto molto più defilata rispetto a quella troppo in vista di Manhattan, là dove i cronisti erano di norma reporter più grassi, navigati e anche ben piazzati in un salottino riscaldato. Per ulteriore scrupolo, al fine di depistare eventuali curiosi, i sette big cheeses - «pezzi grossi», nel gergo affaristico newyorkese - erano arrivati preceduti da montagne di valigie tra le quali spiccavano in voluta bella vista custodie di fucili da caccia. «Beati loro, se ne vanno a sparare alle anatre al caldo della Florida», aveva ingenuamente e collettivamente concluso il manipolo di sbarbati cronisti, stringendo delusi i bloc notes ancora vuoti tre le dita ormai livide per il freddo. Quegli uomini dai cappotti impellicciati avevano tirato diritto scortati da una pattuglia di facchini ed erano saliti in fretta su un piccolo convoglio privato, protetto dalle tendine abbassate, che li attendeva su un binario secondario con la vaporiera in tiro. Quindi un fischio, «si parte» e via nella notte. Via da Hoboken, via da quel freddo, via dallo stramaledetto New Jersey, via da occhi che non avrebbero dovuto vedere. Via soprattutto da possibili lettori dell’indomani, quelli che non avrebbero mai dovuto sapere. Dopo un migliaio di miglia verso Sud, e innumerevoli ore di viaggio più tardi, il convoglio si era fermato alla stazione di Brunswick, in Georgia, un luogo famoso unicamente - lo è ancor oggi ­come capitale americana dei gamberi. Roba che è difficile da catturare a fucilate.

Isolati su Jekyll Island, isola acquistata per 125 mila dollari
I pezzi grossi, senza più cappotti addosso, una volta scesi dal treno erano saliti su alcune automobili in attesa che li avevano condotti al porto. Di lì, in meno di un’ora di battello, avevano raggiunto Jekyll Island, la selvaggia isola subtropicale che dal 1886 era diventata il resort privato delle più potenti e danarose famiglie dell’establishment finanziario e politico statunitense: dai Morgan ai Vanderbilt, dai Pulitzer ai Carnegie, dai McCormick ai Rockefeller. In quel paradiso isolato dal mondo avevano fatto costruire ville sontuose degne del loro censo (divenute oggi la struttura di un lussuoso complesso alberghiero dai prezzi tuttavia abbordabili) tenute perennemente pronte alla bisogna da un esercito di maggiordomi e camerieri in pianta stabile. Era bastata un’inezia, un assegno di 125 mila dollari versato agli storici proprietari, i Du Bignon ­piantatori di cotone decaduti perché rimasti senza più schiavi da far lavorare nelle piantagioni - e quel paradiso era diventato di loro proprietà Comunque, come ulteriore misura discrezionale, per i 15 giorni che i sette uomini d’oro avrebbero dovuto fermarsi a Jeckyll, erano stati mandati in vacanza forzata tutti i cuochi, i camerieri e le sguattere abitualmente di servizio in quelle lussuose mansion, sostituiti da avventizi assunti a tempo. Con tutta probabilità molto meno esperti nel servire in tavola, ma per quello che davvero contava in quell’occasione totalmente all’oscuro in merito su chi fossero quei signori arrivati dal Nord. Non ancora paghi, come misura di segretezza supplementare i sette si erano dati anche una regola che sarebbe divenuta poi per gioco un Club, quello dei nomi propri. Nel senso che durante il soggiorno si sarebbero chiamati unicamente con i rispettivi nomi di battesimo, senza lasciarsi mai sfuggire uno qualsiasi di quei loro ingombranti e rinomati cognomi.

Da Roosevelt il primo passo con la Commissione monetaria
A questo punto è necessario un breve passo indietro. Due anni prima, nel 1908, il presidente Theodore Roosevelt aveva dato vita alla Commissione monetaria mettendovi a capo proprio il primo di quei sette uomini d’oro, il senatore Aldrich. La Casa Bianca era infatti intervenuta sull’onda del devastante Bankers Panic del 1907, quando in un niente la Borsa aveva perso il 50% del suo valore. Questo perché su un’economia già in recessione si erano andati a sovrapporre i fallimenti di numerose banche e società di intermediazione, provocati dal precipitoso ritiro dal mercato di titoli di prestito a rischio molto elevato. Col che si conferma la constatazione che la storia si ripete, senza che purtroppo gli uomini ne traggano mai utili insegnamen

Riforma bancaria di stile europeo.
 Dopo aver girato per due anni la vecchia Europa delle banche centrali - ufficialmente a scopo di studio - ma spendendo e spandendo qualcosa come 300 mila dollari dei contribuenti, Aldrich era atteso dal Congresso americano con una soluzione in tasca. Qualcosa di scritto, una traccia, un suggerimento che potesse dar vita a una riforma bancaria in un Paese dove l’opinione pubblica vedeva per lo più come fumo negli occhi anche la sola idea dell’emergere di una strapotente banca centrale. Ipotesi che sarebbe stata ben poco confacente al forte sentimento federale diffuso tra la maggioranza della gente. Le era stato infatti preferito fino ad allora il sistema indipendente delle Sotto-tesorerie, in modo da impedire a poche mani di impadronirsi dei beni di tutti. Nella volontà dei sette ritrovatisi in gran segreto a Jeckyll Island, quello non avrebbe dovuto essere tuttavia un segreto di Stato. Semmai privato. Privatissimo.

La nascita dell'istituzione per tutelare i grandi banchieri
In una democrazia economica che a ben vedere era ancora a uno stato puberale, vigilata in realtà da pochi e immensi capitali, quei marpioni del credito in trasferta carbonara sotto il sole della Georgia avevano infatti un preciso mandato di 'bottega': dar vita sì a un’istituzione superiore, ma che sotto una veste apparentemente pubblica fosse in realtà la precisa espressione dei loro  interessi. In modo da poter continuare a garantire a pochi grandi banchieri - i big cheeses, appunto - quella mano libera di cui avevano peraltro ampiamente goduto fino a quel momento. Al senatore Aldrich, giudicato poi dalla Storia come uno scadente tecnico finanziario, ma riconosciuto universalmente per essere stato un navigato legislatore, spettava il compito di 'tradurre' quel testo di riforma in modo tale da farlo passare indenne sotto gli occhi di un Congresso che era stato tenuto ovviamente del tutto all’oscuro di quella spedizione sull’isola.

Le Banche nei vertici della FED.
Congresso che avrebbe avuto sì il formale controllo della nascitura Fed - così chiamata proprio per non usare la deprecata espressione Central Bank (le sfumature della semantica contavano anche allora) - ma i cui vertici direttivi sarebbero stati sostanzialmente scelti dalle banche. All’europea, appunto, così come aveva recepito Aldrich nel suo dispendioso tour. E per gettare ulteriore fumo negli occhi dei cittadini, tanto istintivamente ostili all’idea di un Moloch centrale, i sette 'autoreclusi' nel paradiso di Jekyll avevano pensato di dare vita al sistema delle Riserve regionali, all’inizio quattro e successivamente cresciute fino a 12, diventate altrettante filiali della Fed in diverse zone del Paese.

 

L'Europa tecnocratica, la «vendetta dell'agorà»

ilsole24ore.com  di Guido Rossi  20111106 


Il primo ministro greco Papandreou ha ottenuto nella votazione notturna di ieri la fiducia al suo Governo, con risicata maggioranza. Ma la sua precedente dichiarazione che, per approvare la politica di austerity imposta dalla Bce, avrebbe potuto ricorrere a un referendum popolare, ha sottolineato definitivamente che il vero problema del salvataggio dell'euro è molto più politico che economico e che prima o poi sarà comunque necessario il consenso dei cittadini d'Europa.

In Europa i referendum hanno purtroppo dimostrato che i cittadini dei singoli Stati sono restii a diventare cittadini europei, come è avvenuto in Danimarca quando nel 1992 è stato respinto il Trattato di Maastricht, in Francia e in Olanda nel 2005, quando non è stata approvata la bozza di Costituzione europea; ma è bene ricordare anche l'episodio col quale nel 2008 l'Irlanda bloccò temporaneamente il Trattato di Lisbona.

La vera crisi politica attuale investe soprattutto il modello di democrazia indiretta, perché conferisce ai cittadini solo un diritto di voto, delegando ai politici eletti tutte le decisioni che li riguardano. Gli eletti poi, sembrano oggi, dovunque, incapaci di scegliere il bene comune, perché soggetti passivi delle pressioni lobbystiche, per la presenza di un forte fenomeno corruttivo, e per la difesa di interessi fra loro contrapposti che rendono maggioranze e minoranze inadeguate ad ogni indispensabile mediazione.

Quando però il tenore di vita dei cittadini e i presupposti delle loro stesse libertà vengono minacciati da quelle incapacità, sorgono reazioni violente, che giungono a turbare gli Stati nelle loro stesse funzioni.

Sembra allora diventare attuale il pensiero di Nietzsche, il quale nel suo capolavoro: Così parlò Zarathustra scrisse: «Lo Stato è il più freddo di tutti i mostri. Esso mente freddamente; dalla sua bocca esce questa menzogna: Io, lo Stato, sono il popolo».

Infatti, secondo Kelsen poi, soltanto nelle democrazie dirette l'ordine sociale viene realmente creato dalla decisione dei titolari dei diritti politici, i quali esercitano il loro diritto nell'Assemblea del popolo, tenuta come era, all'inizio della democrazia ateniese, nella Agorà. Allo stesso principio sono ispirati i movimenti degli Occupy Wall Street, degli Indignati non violenti di tutti i Paesi e in particolare, in questo momento, proprio quelli greci. È questa, nel complesso, la vendetta dell'Agorà.

Ancor più grave è il fatto che sia ora sostanzialmente la Bce (piuttosto che il Fondo monetario internazionale) a dettare le regole delle politiche di austerità senza che ad essa sia stata conferita alcuna delega di sovranità. Questo anomalo (tecnocratico?) governo dell'economia degli Stati membri può portare a tre possibili alternative.

La prima, quella più paventata, è che alcuni Paesi escano dall'euro, creando il caos finanziario globale temuto anche, come dichiarato dal presidente Obama al G-20, dagli Stati Uniti d'America, pure loro per ragioni identiche in grande difficoltà.

La seconda consisterebbe in un improponibile euro diviso in due: quello forte dei paesi con i bilanci statali maggiormente in ordine, come Germania e i Paesi del Nord Europa, e quello debole dei paesi del Sud Europa a rischio default.

Infine la terza, che risolverebbe tutti i problemi attuali, è quella che vede attuare il completamento del disegno iniziale di un'Europa politica, «libera ed unita», parafrasando il Manifesto di Altiero Spinelli, e come era nelle intenzioni dei padri fondatori.

Per questo è necessario che il cieco governo finanziario-tecnocratico, che ha solo creato disuguaglianze nelle cittadinanze dei singoli Stati membri, lasci il campo alla politica che, attraverso una democrazia deliberativa, crei una cittadinanza veramente europea, nella quale si riconoscano tutti i cittadini, sui piani di eguaglianza e parità dei quali ho già più volte parlato.

Questa soluzione è l'unica che evita "le vendette dell'Agorà", che abolisce le disuguaglianze fra i popoli degli Stati membri, e che consolida in un'Europa federativa la necessità di una autorevole e non dispersiva sua presenza, insieme agli Stati Uniti, alla Cina ed ai paesi emergenti, ad un tavolo che detti nuove regole per arginare e combattere disastri e iniquità che l'attuale globalizzazione ha comportato

6 novembre 2011

 

Così la bolla finanziaria nasce nel nostro cervello. Ecco i nuovi segreti della neuroeconomia

Così la bolla finanziaria nasce nel nostro cervello. Ecco i nuovi segreti della neuroeconomia – Il Sole 24 ORE

di Vittorio Carlini     ilsole24ore.com    20101211

A metà del 1600 la borghesia olandese faceva a gara nel comprare bulbi di tulipano. Poco più di quattro secoli dopo la corsa era sui titoli internet. Due, tra le tante bolle speculative, catalogate alla voce: incidenti di percorso nel razionale mondo finanziario. La realtà, però, è ben diversa. Le bolle, infatti, possono nascere e scoppiare grazie a precise attività del nostro cervello. Un pool di scienziati dell’università Vita-Salute del San Raffele di Milano, tra cui Nicola Canessa e Matteo Motterlini, ha individuato, a livello neurobiologico, i meccanismi con cui le emozioni di una persona, causate dal risultato di una sua scelta, influenzano chi lo osserva: in particolare le sue decisioni successive.

Il modello di apprendimento
«Si tratta di un modello di apprendimento – dice Motterlini- in grado di spiegare anche le bolle finanziarie». In che modo? «Pensiamo, per esempio, ad un soggetto che investe in Borsa e perde i suoi denari. La conseguenza è che proverà un’emozione: il rimpianto per la scelta sbagliata. Ebbene, grazie all’uso della risonanza magnetica funzionale, si è visto che nel cervello di chi osserva la persona che ha perso si attivano dei meccanismi cosiddetti specchio». Cioè delle aree cerebrali «con cui comprendiamo» e interpretiamo il sentimento negativo.

Il dispiacere degli altri diventa il mio dispiacere
«Il fenomeno – precisa Motterlini – era già noto. Il nostro passo avanti è l’aver scoperto che le zone attivate, quando vedo l’altra persona provare rimpianto, sono in gran parte le stesse di quando il rimpianto lo provo io stesso». Come a dire, insomma, che il dispiacere da me osservato « diventa » il mio rimpianto. Ed è grazie a questo meccanismo che nasce l’effetto gregge. «Vedere le decisioni altrui -specifica Motterlini- influenza la mia scelta, il mio prossimo investimento. Se osservo la frustrazione della perdita ridurrò, e di molto, la mia propensione al rischio». Al contrario, se il mio cervello vede il sollievo della vincita crescerà la voglia di rischiare. «I mercati salgono e compriamo perché non possiamo rimpiangere di esserne stati fuori. La bolla scoppia e corriamo a vendere, perché non possiamo rimpiangere di essere rimastati dentro».

Le donne apprendono meglio degli uomini il rimpianto
Un attività razionale? «Non sempre – risponde Motterlini -. In particolare nella fase del rimpianto per la possibile perdita, abbiamo a che fare con azioni emotive. Basta pensare che, quando proviamo il dispiacere legato all’investimento, vengono interessate alcune aree cerebrali che sono le stesse in grado di intercettare il dolore fisico». Una situazione, peraltro, in cui salta fuori una differenza tra uomo e donna: «In queste ultime – conclude Motterlini- il rimpianto altrui « risuona » più forte. In maniera proporzionale alla loro empatia, le donne apprendono socialmente meglio degli uomini, soprattutto quando si tratta di rischiare di meno».

Poco razionali
Già rischiare di più o rischiare di meno. Una propensione che, come visto, non è strettamente razionale. I sostenitori della teoria dell’homo oeconomicus vorrebbero il cervello capace di massimizzare informazioni e investimenti. La realtà, come detto, non è così. Si può in tal senso ricordare il famoso gioco dell’ultimatum.

A un soggetto A vengono dati 10 euro, con una condizione: manterrà i soldi solo se darà una parte di essi ad un altro soggetto B. La teoria della massimizzazione dei profitto vorrebbe che: A offre un euro a B (riesce così a mantenere più soldi possibili) e B accetta l’offerta, in quanto un euro è sempre « razionalmente » meglio di niente. Si è dimostrato invece che A, già in partenza, offre spesso più denari a B; mentre quest’ultimo, spesso, non accetta solo un euro. Utilizzando sempre la risonanza magnetica funzionale, come nell’esperimento del San Raffaele, è stato rilevato che il soggetto B, quando rifiuta l’offerta di un euro, attiva delle aree del cervello che fanno parte dell’Insula, cioè un’area « ancestrale » che ben possiamo definire emotiva. Insomma, quando ci sono di mezzo denari ed investimenti non è solo razionalità. E di questo si dovrebbe tenere conto nei modelli economici e finanziari.

 

E Feltri sta con Bobo: "Bruxelles vada all'inferno" - Vittorio Feltri, Roberto Maroni, Unione Europea, Europa, Libero, euro, lira, clandestini, immigrazione, Roberto Maroni - Libero-News.it

 

Feltri sta con Bobo: "Bruxelles vada all'inferno"

Editoriale del direttore. L'Unione ci riserva solo fregature: dimezziamo il debito e poi usciamone / VOI CHE NE PENSATE?

Libero-news.it

I

l ministro dell’Interno Roberto Maroni, scornato perché l’Europa rifiuta di darci una mano nella gestione disperata dell’emergenza immigrati (sottovalutata anche dai cittadini italiani), si è pubblicamente chiesto: «Perché stare nell’Ue?». Comprendo il suo stato d’animo, che è anche il nostro e non da ieri. Ma la risposta al quesito è una sola: abbiamo un debito pubblico mostruoso e siamo costretti a emettere Bot a tonnellate, molti dei quali sottoscritti da Paesi della comunità. Se l’Italia uscisse dal club, le aste dei nostri titoli di Stato rischierebbero di essere mortificate. Il che ci costringerebbe a portare i libri in Tribunale, come si dice per le aziende in fallimento.

Tutto qui. Non c’è altra ragione per rimanere agganciati a Bruxelles e Strasburgo, pachidermi burocratici cui abbiamo dato molto senza ricevere nulla in cambio, se non umiliazioni come quella inflittaci da Francia, Germania e Inghilterra sui profughi. Parliamoci senza ipocrisie. Abbiamo sempre avuto un complesso di inferiorità nei confronti delle Nazioni a Nord e a Ovest della nostra, e abbiamo cercato di superarlo sognando di entrare in società con esse. Ecco perché partecipammo con entusiasmo alla fondazione della Unione europea, che inizialmente aveva un’altra denominazione: Mec ossia Mercato comune europeo.

Ci eravamo illusi, sedendo a tavola coi grandi, di sentirci un po’ meno piccoli. E invece abbiamo continuato a comportarci da nani col risultato di farci considerare tali. Basti pensare a quando eravamo in procinto di entrare nella moneta unica. Romano Prodi, allora premier, ci obbligò a sopportare un supplemento di torchiatura fiscale: la cosiddetta tassa per l’Europa (che seguiva manovre finanziarie sanguinose) finalizzata a farci raggiungere i parametri minimi imposti dai trattati. Conquistato l’euro, organizzammo una gran festa nella capitale belga cui fui invitato anch’io. Dovevate vederli gli italianucci come brindavano all’evento; sembrava avessero vinto al Superenalotto. Viceversa inneggiavano a una fregatura. Perché il Professore, ebbro per l’obiettivo centrato («non siamo stati esclusi dall’Olimpo»), concordò un cambio da strozzo: 1936 lire per un euro. Un suicidio. Esaurita l’euforia di chi, nonostante le pezze al culo, è stato invitato a corte, ci accorgemmo ben presto di essere ancora più poveri.

Nei primi anni del terzo millennio, Libero svolse un’inchiesta che dimostrò come il potere d’acquisto degli stipendi fosse stato quasi dimezzato. Un dato di fatto incontrovertibile. Ciò che fino a un paio di anni prima era costato mille lire, ora costava un euro. Bell’affare. Fummo accusati di irresponsabile antieuropeismo, di cecità, leghismo, egoismo. Parlare male dell’euro era come sputare su Garibaldi. La mentalità corrente non è mutata: i sudditi di Bruxelles sono ancora convinti sia una immensa fortuna essere soci dell’Ue, anche senza avere diritto ai dividendi, ma col dovere di versare cospicui contributi per pagare le “spese condominiali”.

La domanda del giorno, visto che siamo stati snobbati quando abbiamo reclamato un aiutino ad assorbire i clandestini, è questa: perché contiamo tanto poco in Europa? La sinistra dà la colpa indovinate a chi? A Berlusconi perché negli incontri internazionali fa cucù alla Merkel, e perché la sua sarebbe una politica stracciona. Figuriamoci. Non abbiamo peso adesso (e non lo abbiamo mai avuto) per un motivo drammaticamente semplice: i parlamentari italiani eletti a Strasburgo sono per lo più mediocri, una minoranza sa l’inglese e/o il francese, quasi tutti scaldano lo scranno, non fanno squadra, sono incalliti assenteisti, e nel momento in cui bisogna assumere decisioni importanti non sanno neppure di cosa si discuta. Peggio, si dividono sul voto. Quelli di sinistra poi si divertono un casino a dare addosso all’Italia nella speranza di trarne vantaggi elettorali.
I nostri rappresentanti sono svelti e puntuali ed esperti solamente nella compilazione dei rimborsi spesa e nella riscossione dell’indennità di carica. I colleghi stranieri, consapevoli di tutto ciò, ridono. Ridono degli italiani in genere, giudicandoli pasticcioni, bontemponi senz’arte né parte. Aggiungete che le amministrazioni locali del Mezzogiorno non sono in grado di attingere ai fondi a loro disposizione per realizzare opere infrastrutturali, e il quadro è completo. Da imbecilli ci comportiamo e imbecilli siamo ritenuti.

Così si spiega la nostra irrilevanza. Abbiamo un bel dire che con tutti gli immigrati che ci stanno fra i piedi meriteremmo un ausilio comunitario, in considerazione del fatto che essi, venendo nella nostra Patria, vengono in Europa e creano un problema continentale oltre che nazionale. Francesi e tedeschi ci sfottono apertamente: arrangiatevi.

Dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco o ribellarci? Nel primo caso, smettiamola di piagnucolare e atteniamoci alla volontà della Ue e cerchiamo di migliorare i rapporti con essa. Nel secondo, adottiamo norme speciali (tipo respingimenti), ma non stupiamoci se poi ci buttano fuori dal “consorzio”, e affrettiamoci a dimezzare il debito pubblico rinunciando a che altri ce lo finanzino. È il solito discorso. Si può essere autonomi solo se si è indipendenti economicamente. O si scioglie questo nodo o saremo sempre gregari e immersi nei guai. Guai destinati ad aumentare nei prossimi mesi, perché la guerra idiota che pure noi combattiamo non ha ancora prodotto tutti i suoi effetti nefasti: mezza Africa è in ebollizione e si attrezza per invaderci e islamizzarci. Quando anziché ventimila extracomunitari, ne sbarcheranno qui - e giuro che succederà - duecentomila o due milioni, che faremo? Il cuscus.

di Vittorio Feltri

 

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Editoriale del direttore. L'Unione ci riserva solo fregature: dimezziamo il debito e poi usciamone / VOI CHE NE PENSATE?

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I

l ministro dell’Interno Roberto Maroni, scornato perché l’Europa rifiuta di darci una mano nella gestione disperata dell’emergenza immigrati (sottovalutata anche dai cittadini italiani), si è pubblicamente chiesto: «Perché stare nell’Ue?». Comprendo il suo stato d’animo, che è anche il nostro e non da ieri. Ma la risposta al quesito è una sola: abbiamo un debito pubblico mostruoso e siamo costretti a emettere Bot a tonnellate, molti dei quali sottoscritti da Paesi della comunità. Se l’Italia uscisse dal club, le aste dei nostri titoli di Stato rischierebbero di essere mortificate. Il che ci costringerebbe a portare i libri in Tribunale, come si dice per le aziende in fallimento.

Tutto qui. Non c’è altra ragione per rimanere agganciati a Bruxelles e Strasburgo, pachidermi burocratici cui abbiamo dato molto senza ricevere nulla in cambio, se non umiliazioni come quella inflittaci da Francia, Germania e Inghilterra sui profughi. Parliamoci senza ipocrisie. Abbiamo sempre avuto un complesso di inferiorità nei confronti delle Nazioni a Nord e a Ovest della nostra, e abbiamo cercato di superarlo sognando di entrare in società con esse. Ecco perché partecipammo con entusiasmo alla fondazione della Unione europea, che inizialmente aveva un’altra denominazione: Mec ossia Mercato comune europeo.

Ci eravamo illusi, sedendo a tavola coi grandi, di sentirci un po’ meno piccoli. E invece abbiamo continuato a comportarci da nani col risultato di farci considerare tali. Basti pensare a quando eravamo in procinto di entrare nella moneta unica. Romano Prodi, allora premier, ci obbligò a sopportare un supplemento di torchiatura fiscale: la cosiddetta tassa per l’Europa (che seguiva manovre finanziarie sanguinose) finalizzata a farci raggiungere i parametri minimi imposti dai trattati. Conquistato l’euro, organizzammo una gran festa nella capitale belga cui fui invitato anch’io. Dovevate vederli gli italianucci come brindavano all’evento; sembrava avessero vinto al Superenalotto. Viceversa inneggiavano a una fregatura. Perché il Professore, ebbro per l’obiettivo centrato («non siamo stati esclusi dall’Olimpo»), concordò un cambio da strozzo: 1936 lire per un euro. Un suicidio. Esaurita l’euforia di chi, nonostante le pezze al culo, è stato invitato a corte, ci accorgemmo ben presto di essere ancora più poveri.

Nei primi anni del terzo millennio, Libero svolse un’inchiesta che dimostrò come il potere d’acquisto degli stipendi fosse stato quasi dimezzato. Un dato di fatto incontrovertibile. Ciò che fino a un paio di anni prima era costato mille lire, ora costava un euro. Bell’affare. Fummo accusati di irresponsabile antieuropeismo, di cecità, leghismo, egoismo. Parlare male dell’euro era come sputare su Garibaldi. La mentalità corrente non è mutata: i sudditi di Bruxelles sono ancora convinti sia una immensa fortuna essere soci dell’Ue, anche senza avere diritto ai dividendi, ma col dovere di versare cospicui contributi per pagare le “spese condominiali”.

La domanda del giorno, visto che siamo stati snobbati quando abbiamo reclamato un aiutino ad assorbire i clandestini, è questa: perché contiamo tanto poco in Europa? La sinistra dà la colpa indovinate a chi? A Berlusconi perché negli incontri internazionali fa cucù alla Merkel, e perché la sua sarebbe una politica stracciona. Figuriamoci. Non abbiamo peso adesso (e non lo abbiamo mai avuto) per un motivo drammaticamente semplice: i parlamentari italiani eletti a Strasburgo sono per lo più mediocri, una minoranza sa l’inglese e/o il francese, quasi tutti scaldano lo scranno, non fanno squadra, sono incalliti assenteisti, e nel momento in cui bisogna assumere decisioni importanti non sanno neppure di cosa si discuta. Peggio, si dividono sul voto. Quelli di sinistra poi si divertono un casino a dare addosso all’Italia nella speranza di trarne vantaggi elettorali.
I nostri rappresentanti sono svelti e puntuali ed esperti solamente nella compilazione dei rimborsi spesa e nella riscossione dell’indennità di carica. I colleghi stranieri, consapevoli di tutto ciò, ridono. Ridono degli italiani in genere, giudicandoli pasticcioni, bontemponi senz’arte né parte. Aggiungete che le amministrazioni locali del Mezzogiorno non sono in grado di attingere ai fondi a loro disposizione per realizzare opere infrastrutturali, e il quadro è completo. Da imbecilli ci comportiamo e imbecilli siamo ritenuti.

Così si spiega la nostra irrilevanza. Abbiamo un bel dire che con tutti gli immigrati che ci stanno fra i piedi meriteremmo un ausilio comunitario, in considerazione del fatto che essi, venendo nella nostra Patria, vengono in Europa e creano un problema continentale oltre che nazionale. Francesi e tedeschi ci sfottono apertamente: arrangiatevi.

Dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco o ribellarci? Nel primo caso, smettiamola di piagnucolare e atteniamoci alla volontà della Ue e cerchiamo di migliorare i rapporti con essa. Nel secondo, adottiamo norme speciali (tipo respingimenti), ma non stupiamoci se poi ci buttano fuori dal “consorzio”, e affrettiamoci a dimezzare il debito pubblico rinunciando a che altri ce lo finanzino. È il solito discorso. Si può essere autonomi solo se si è indipendenti economicamente. O si scioglie questo nodo o saremo sempre gregari e immersi nei guai. Guai destinati ad aumentare nei prossimi mesi, perché la guerra idiota che pure noi combattiamo non ha ancora prodotto tutti i suoi effetti nefasti: mezza Africa è in ebollizione e si attrezza per invaderci e islamizzarci. Quando anziché ventimila extracomunitari, ne sbarcheranno qui - e giuro che succederà - duecentomila o due milioni, che faremo? Il cuscus.

di Vittorio Feltri

 

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Editoriale del direttore. L'Unione ci riserva solo fregature: dimezziamo il debito e poi usciamone / VOI CHE NE PENSATE?

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l ministro dell’Interno Roberto Maroni, scornato perché l’Europa rifiuta di darci una mano nella gestione disperata dell’emergenza immigrati (sottovalutata anche dai cittadini italiani), si è pubblicamente chiesto: «Perché stare nell’Ue?». Comprendo il suo stato d’animo, che è anche il nostro e non da ieri. Ma la risposta al quesito è una sola: abbiamo un debito pubblico mostruoso e siamo costretti a emettere Bot a tonnellate, molti dei quali sottoscritti da Paesi della comunità. Se l’Italia uscisse dal club, le aste dei nostri titoli di Stato rischierebbero di essere mortificate. Il che ci costringerebbe a portare i libri in Tribunale, come si dice per le aziende in fallimento.

Tutto qui. Non c’è altra ragione per rimanere agganciati a Bruxelles e Strasburgo, pachidermi burocratici cui abbiamo dato molto senza ricevere nulla in cambio, se non umiliazioni come quella inflittaci da Francia, Germania e Inghilterra sui profughi. Parliamoci senza ipocrisie. Abbiamo sempre avuto un complesso di inferiorità nei confronti delle Nazioni a Nord e a Ovest della nostra, e abbiamo cercato di superarlo sognando di entrare in società con esse. Ecco perché partecipammo con entusiasmo alla fondazione della Unione europea, che inizialmente aveva un’altra denominazione: Mec ossia Mercato comune europeo.

Ci eravamo illusi, sedendo a tavola coi grandi, di sentirci un po’ meno piccoli. E invece abbiamo continuato a comportarci da nani col risultato di farci considerare tali. Basti pensare a quando eravamo in procinto di entrare nella moneta unica. Romano Prodi, allora premier, ci obbligò a sopportare un supplemento di torchiatura fiscale: la cosiddetta tassa per l’Europa (che seguiva manovre finanziarie sanguinose) finalizzata a farci raggiungere i parametri minimi imposti dai trattati. Conquistato l’euro, organizzammo una gran festa nella capitale belga cui fui invitato anch’io. Dovevate vederli gli italianucci come brindavano all’evento; sembrava avessero vinto al Superenalotto. Viceversa inneggiavano a una fregatura. Perché il Professore, ebbro per l’obiettivo centrato («non siamo stati esclusi dall’Olimpo»), concordò un cambio da strozzo: 1936 lire per un euro. Un suicidio. Esaurita l’euforia di chi, nonostante le pezze al culo, è stato invitato a corte, ci accorgemmo ben presto di essere ancora più poveri.

Nei primi anni del terzo millennio, Libero svolse un’inchiesta che dimostrò come il potere d’acquisto degli stipendi fosse stato quasi dimezzato. Un dato di fatto incontrovertibile. Ciò che fino a un paio di anni prima era costato mille lire, ora costava un euro. Bell’affare. Fummo accusati di irresponsabile antieuropeismo, di cecità, leghismo, egoismo. Parlare male dell’euro era come sputare su Garibaldi. La mentalità corrente non è mutata: i sudditi di Bruxelles sono ancora convinti sia una immensa fortuna essere soci dell’Ue, anche senza avere diritto ai dividendi, ma col dovere di versare cospicui contributi per pagare le “spese condominiali”.

La domanda del giorno, visto che siamo stati snobbati quando abbiamo reclamato un aiutino ad assorbire i clandestini, è questa: perché contiamo tanto poco in Europa? La sinistra dà la colpa indovinate a chi? A Berlusconi perché negli incontri internazionali fa cucù alla Merkel, e perché la sua sarebbe una politica stracciona. Figuriamoci. Non abbiamo peso adesso (e non lo abbiamo mai avuto) per un motivo drammaticamente semplice: i parlamentari italiani eletti a Strasburgo sono per lo più mediocri, una minoranza sa l’inglese e/o il francese, quasi tutti scaldano lo scranno, non fanno squadra, sono incalliti assenteisti, e nel momento in cui bisogna assumere decisioni importanti non sanno neppure di cosa si discuta. Peggio, si dividono sul voto. Quelli di sinistra poi si divertono un casino a dare addosso all’Italia nella speranza di trarne vantaggi elettorali.
I nostri rappresentanti sono svelti e puntuali ed esperti solamente nella compilazione dei rimborsi spesa e nella riscossione dell’indennità di carica. I colleghi stranieri, consapevoli di tutto ciò, ridono. Ridono degli italiani in genere, giudicandoli pasticcioni, bontemponi senz’arte né parte. Aggiungete che le amministrazioni locali del Mezzogiorno non sono in grado di attingere ai fondi a loro disposizione per realizzare opere infrastrutturali, e il quadro è completo. Da imbecilli ci comportiamo e imbecilli siamo ritenuti.

Così si spiega la nostra irrilevanza. Abbiamo un bel dire che con tutti gli immigrati che ci stanno fra i piedi meriteremmo un ausilio comunitario, in considerazione del fatto che essi, venendo nella nostra Patria, vengono in Europa e creano un problema continentale oltre che nazionale. Francesi e tedeschi ci sfottono apertamente: arrangiatevi.

Dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco o ribellarci? Nel primo caso, smettiamola di piagnucolare e atteniamoci alla volontà della Ue e cerchiamo di migliorare i rapporti con essa. Nel secondo, adottiamo norme speciali (tipo respingimenti), ma non stupiamoci se poi ci buttano fuori dal “consorzio”, e affrettiamoci a dimezzare il debito pubblico rinunciando a che altri ce lo finanzino. È il solito discorso. Si può essere autonomi solo se si è indipendenti economicamente. O si scioglie questo nodo o saremo sempre gregari e immersi nei guai. Guai destinati ad aumentare nei prossimi mesi, perché la guerra idiota che pure noi combattiamo non ha ancora prodotto tutti i suoi effetti nefasti: mezza Africa è in ebollizione e si attrezza per invaderci e islamizzarci. Quando anziché ventimila extracomunitari, ne sbarcheranno qui - e giuro che succederà - duecentomila o due milioni, che faremo? Il cuscus.

di Vittorio Feltri

 

E Feltri sta con Bobo: "Bruxelles vada all'inferno" - Vittorio Feltri, Roberto Maroni, Unione Europea, Europa, Libero, euro, lira, clandestini, immigrazione, Roberto Maroni - Libero-News.it

 

del direttore. L'Unione ci riserva solo fregature: dimezziamo il debito e poi usciamone / VOI CHE NE PENSATE?

Libero-news.it

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l ministro dell’Interno Roberto Maroni, scornato perché l’Europa rifiuta di darci una mano nella gestione disperata dell’emergenza immigrati (sottovalutata anche dai cittadini italiani), si è pubblicamente chiesto: «Perché stare nell’Ue?». Comprendo il suo stato d’animo, che è anche il nostro e non da ieri. Ma la risposta al quesito è una sola: abbiamo un debito pubblico mostruoso e siamo costretti a emettere Bot a tonnellate, molti dei quali sottoscritti da Paesi della comunità. Se l’Italia uscisse dal club, le aste dei nostri titoli di Stato rischierebbero di essere mortificate. Il che ci costringerebbe a portare i libri in Tribunale, come si dice per le aziende in fallimento.

Tutto qui. Non c’è altra ragione per rimanere agganciati a Bruxelles e Strasburgo, pachidermi burocratici cui abbiamo dato molto senza ricevere nulla in cambio, se non umiliazioni come quella inflittaci da Francia, Germania e Inghilterra sui profughi. Parliamoci senza ipocrisie. Abbiamo sempre avuto un complesso di inferiorità nei confronti delle Nazioni a Nord e a Ovest della nostra, e abbiamo cercato di superarlo sognando di entrare in società con esse. Ecco perché partecipammo con entusiasmo alla fondazione della Unione europea, che inizialmente aveva un’altra denominazione: Mec ossia Mercato comune europeo.

Ci eravamo illusi, sedendo a tavola coi grandi, di sentirci un po’ meno piccoli. E invece abbiamo continuato a comportarci da nani col risultato di farci considerare tali. Basti pensare a quando eravamo in procinto di entrare nella moneta unica. Romano Prodi, allora premier, ci obbligò a sopportare un supplemento di torchiatura fiscale: la cosiddetta tassa per l’Europa (che seguiva manovre finanziarie sanguinose) finalizzata a farci raggiungere i parametri minimi imposti dai trattati. Conquistato l’euro, organizzammo una gran festa nella capitale belga cui fui invitato anch’io. Dovevate vederli gli italianucci come brindavano all’evento; sembrava avessero vinto al Superenalotto. Viceversa inneggiavano a una fregatura. Perché il Professore, ebbro per l’obiettivo centrato («non siamo stati esclusi dall’Olimpo»), concordò un cambio da strozzo: 1936 lire per un euro. Un suicidio. Esaurita l’euforia di chi, nonostante le pezze al culo, è stato invitato a corte, ci accorgemmo ben presto di essere ancora più poveri.

Nei primi anni del terzo millennio, Libero svolse un’inchiesta che dimostrò come il potere d’acquisto degli stipendi fosse stato quasi dimezzato. Un dato di fatto incontrovertibile. Ciò che fino a un paio di anni prima era costato mille lire, ora costava un euro. Bell’affare. Fummo accusati di irresponsabile antieuropeismo, di cecità, leghismo, egoismo. Parlare male dell’euro era come sputare su Garibaldi. La mentalità corrente non è mutata: i sudditi di Bruxelles sono ancora convinti sia una immensa fortuna essere soci dell’Ue, anche senza avere diritto ai dividendi, ma col dovere di versare cospicui contributi per pagare le “spese condominiali”.

La domanda del giorno, visto che siamo stati snobbati quando abbiamo reclamato un aiutino ad assorbire i clandestini, è questa: perché contiamo tanto poco in Europa? La sinistra dà la colpa indovinate a chi? A Berlusconi perché negli incontri internazionali fa cucù alla Merkel, e perché la sua sarebbe una politica stracciona. Figuriamoci. Non abbiamo peso adesso (e non lo abbiamo mai avuto) per un motivo drammaticamente semplice: i parlamentari italiani eletti a Strasburgo sono per lo più mediocri, una minoranza sa l’inglese e/o il francese, quasi tutti scaldano lo scranno, non fanno squadra, sono incalliti assenteisti, e nel momento in cui bisogna assumere decisioni importanti non sanno neppure di cosa si discuta. Peggio, si dividono sul voto. Quelli di sinistra poi si divertono un casino a dare addosso all’Italia nella speranza di trarne vantaggi elettorali.
I nostri rappresentanti sono svelti e puntuali ed esperti solamente nella compilazione dei rimborsi spesa e nella riscossione dell’indennità di carica. I colleghi stranieri, consapevoli di tutto ciò, ridono. Ridono degli italiani in genere, giudicandoli pasticcioni, bontemponi senz’arte né parte. Aggiungete che le amministrazioni locali del Mezzogiorno non sono in grado di attingere ai fondi a loro disposizione per realizzare opere infrastrutturali, e il quadro è completo. Da imbecilli ci comportiamo e imbecilli siamo ritenuti.

Così si spiega la nostra irrilevanza. Abbiamo un bel dire che con tutti gli immigrati che ci stanno fra i piedi meriteremmo un ausilio comunitario, in considerazione del fatto che essi, venendo nella nostra Patria, vengono in Europa e creano un problema continentale oltre che nazionale. Francesi e tedeschi ci sfottono apertamente: arrangiatevi.

Dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco o ribellarci? Nel primo caso, smettiamola di piagnucolare e atteniamoci alla volontà della Ue e cerchiamo di migliorare i rapporti con essa. Nel secondo, adottiamo norme speciali (tipo respingimenti), ma non stupiamoci se poi ci buttano fuori dal “consorzio”, e affrettiamoci a dimezzare il debito pubblico rinunciando a che altri ce lo finanzino. È il solito discorso. Si può essere autonomi solo se si è indipendenti economicamente. O si scioglie questo nodo o saremo sempre gregari e immersi nei guai. Guai destinati ad aumentare nei prossimi mesi, perché la guerra idiota che pure noi combattiamo non ha ancora prodotto tutti i suoi effetti nefasti: mezza Africa è in ebollizione e si attrezza per invaderci e islamizzarci. Quando anziché ventimila extracomunitari, ne sbarcheranno qui - e giuro che succederà - duecentomila o due milioni, che faremo? Il cuscus.

di Vittorio Feltri

13/04/2011

 

L'Europa tecnocratica, la «vendetta dell'agorà» - Il Sole 24 ORE

Tanziro

Federal reserve: da una riunione segreta nacque la banca centrale Usa - ECONOMIA

La lobby di Jekyll Island

Usa: dal summit segreto di sette banchieri nacque la Fed.

di Guido Mattioni

Articolo completo

Faceva freddo, quella notte a Hoboken. Faceva un maledetto freddo e dal cielo veniva giù qualcosa di indefinibile che non era più pioggia, ma che ancora non si poteva chiamare neve.
Faceva uno stramaledetto freddo, quella notte a Hoboken, e le pensiline all’aperto della stazione ferroviaria del New Jersey, a un tiro di schioppo dal corso grigio e ancor più gelido del fiume Hudson, non offrivano la benché minima protezione.
Ma più che scosso dai brividi, il manipolo di cronisti e fotografi 'parcheggiati' lì in pianta stabile dai principali quotidiani newyorkesi a fare la guardia al barile per la rubrica del «Chi arriva e chi parte», era pervaso da una fastidiosa sensazione. Del genere: «Qui qualcuno ci ha fregati». E da quella, ancor più sgradevole, di essersi probabilmente lasciati scappare una succulenta notizia.
RIUNIONE IN SORDINA. Era la notte del 22 novembre 1910 e sarebbe passata alla storia soltanto qualche anno dopo per via di quella clamorosa fregatura tirata ai reporter mondani, molti dei quali spediti a coprire un incarico tanto effimero e disagevole proprio in quanto pivelli alle prime armi.
Era così sfuggita loro l’invidiabile occasione di poter raccontare il primo passo che avrebbe poi portato alla nascita della Federal reserve (Fed), la banca centrale americana.

A Hoboken il gotha della finanza mondiale

Una pagina poco chiara, per nulla trasparente. Sarebbero passati sei anni prima che la verità venisse a galla per merito di un giornalista un po’ più sveglio, curioso e pervicacemente ficcanaso: un certo Bertie Charles Forbes, futuro fondatore della rivista economico-finanziaria che ancor oggi porta il suo nome.
Sta di fatto che a pochi minuti uno dietro l’altro, sotto i nasi dei giovani reporter mondani - più usi a riconoscere belloni dello spettacolo, muscolosi assi del baseball e ancheggianti squinzie annesse - erano sfilati sette degli uomini più potenti del mondo borsistico e finanziario statunitense.
Nell’ordine: il senatore repubblicano Nelson Aldrich, capo della Commissione monetaria nazionale; A. Piatt Andrew, assistente del segretario al Tesoro; Frank Vanderlip, presidente della City National Bank di New York, nonché braccio destro di William Rockefeller; Henry P. Davison senior, partner anziano di Jp Morgan Company e indiscusso alter ego di mister John Pierpont Morgan in persona (come dire il padre di tutti i banchieri); il suo collega Benjamin Strong, capo della Jp Morgan Bankers Trust; Charles D. Norton, presidente della First National Bank di Manhattan e Paul M. Warburg, partner della Khun, Loeb and Company, rappresentante delle famiglie Warburg e Rotschild in Europa.
Messi tutti insieme, rappresentavano all’epoca un quarto dell’intera ricchezza mondiale.
LONTANO DAI CRONISTI DI MANHATTAN. Avevano tatticamente deciso di partire da una stazione secondaria come quella di Hoboken, nel New Jersey, in quanto molto più defilata rispetto a quella troppo in vista di Manhattan, là dove i cronisti erano di norma reporter più grassi, navigati e anche ben piazzati in un salottino riscaldato.
Per ulteriore scrupolo, al fine di depistare eventuali curiosi, i sette big cheeses - «pezzi grossi», nel gergo affaristico newyorkese - erano arrivati preceduti da montagne di valigie tra le quali spiccavano in voluta bella vista custodie di fucili da caccia.
«Beati loro, se ne vanno a sparare alle anatre al caldo della Florida», aveva ingenuamente e collettivamente concluso il manipolo di sbarbati cronisti, stringendo delusi i bloc notes ancora vuoti tre le dita ormai livide per il freddo.
Quegli uomini dai cappotti impellicciati avevano tirato diritto scortati da una pattuglia di facchini ed erano saliti in fretta su un piccolo convoglio privato, protetto dalle tendine abbassate, che li attendeva su un binario secondario con la vaporiera in tiro. Quindi un fischio, «si parte» e via nella notte.
Via da Hoboken, via da quel freddo, via dallo stramaledetto New Jersey, via da occhi che non avrebbero dovuto vedere. Via soprattutto da possibili lettori dell’indomani, quelli che non avrebbero mai dovuto sapere.
Dopo un migliaio di miglia verso Sud, e innumerevoli ore di viaggio più tardi, il convoglio si era fermato alla stazione di Brunswick, in Georgia, un luogo famoso unicamente - lo è ancor oggi - come capitale americana dei gamberi. Roba che è difficile da catturare a fucilate.

Isolati su Jekyll Island, isola acquistata per 125 mila dollari

I pezzi grossi, senza più cappotti addosso, una volta scesi dal treno erano saliti su alcune automobili in attesa che li avevano condotti al porto. Di lì, in meno di un’ora di battello, avevano raggiunto Jekyll Island, la selvaggia isola subtropicale che dal 1886 era diventata il resort privato delle più potenti e danarose famiglie dell’establishment finanziario e politico statunitense: dai Morgan ai Vanderbilt, dai Pulitzer ai Carnegie, dai McCormick ai Rockefeller.
In quel paradiso isolato dal mondo avevano fatto costruire ville sontuose degne del loro censo (divenute oggi la struttura di un lussuoso complesso alberghiero dai prezzi tuttavia abbordabili) tenute perennemente pronte alla bisogna da un esercito di maggiordomi e camerieri in pianta stabile.
Era bastata un’inezia, un assegno di 125 mila dollari versato agli storici proprietari, i Du Bignon - piantatori di cotone decaduti perché rimasti senza più schiavi da far lavorare nelle piantagioni - e quel paradiso era diventato di loro proprietà.
NESSUN COGNOME, SOLO NOMI DI BATTESIMO. Comunque, come ulteriore misura discrezionale, per i 15 giorni che i sette uomini d’oro avrebbero dovuto fermarsi a Jeckyll, erano stati mandati in vacanza forzata tutti i cuochi, i camerieri e le sguattere abitualmente di servizio in quelle lussuose mansion, sostituiti da avventizi assunti a tempo. Con tutta probabilità molto meno esperti nel servire in tavola, ma per quello che davvero contava in quell’occasione totalmente all’oscuro in merito su chi fossero quei signori arrivati dal Nord.
Non ancora paghi, come misura di segretezza supplementare i sette si erano dati anche una regola che sarebbe divenuta poi per gioco un Club, quello dei nomi propri. Nel senso che durante il soggiorno si sarebbero chiamati unicamente con i rispettivi nomi di battesimo, senza lasciarsi mai sfuggire uno qualsiasi di quei loro ingombranti e rinomati cognomi.

Da Roosevelt il primo passo con la Commissione monetaria

A questo punto è necessario un breve passo indietro. Due anni prima, nel 1908, il presidente Theodore Roosevelt aveva dato vita alla Commissione monetaria mettendovi a capo proprio il primo di quei sette uomini d’oro, il senatore Aldrich.
La Casa Bianca era infatti intervenuta sull’onda del devastante Bankers Panic del 1907, quando in un niente la Borsa aveva perso il 50% del suo valore. Questo perché su un’economia già in recessione si erano andati a sovrapporre i fallimenti di numerose banche e società di intermediazione, provocati dal precipitoso ritiro dal mercato di titoli di prestito a rischio molto elevato. Col che si conferma la constatazione che la storia si ripete, senza che purtroppo gli uomini ne traggano mai utili insegnamenti.
RIFORMA BANCARIA SU ESEMPIO EUROPEO. Dopo aver girato per due anni la vecchia Europa delle banche centrali - ufficialmente a scopo di studio - ma spendendo e spandendo qualcosa come 300 mila dollari dei contribuenti, Aldrich era atteso dal Congresso americano con una soluzione in tasca. Qualcosa di scritto, una traccia, un suggerimento che potesse dar vita a una riforma bancaria in un Paese dove l’opinione pubblica vedeva per lo più come fumo negli occhi anche la sola idea dell’emergere di una strapotente banca centrale.
Ipotesi che sarebbe stata ben poco confacente al forte sentimento federale diffuso tra la maggioranza della gente. Le era stato infatti preferito fino ad allora il sistema indipendente delle Sotto-tesorerie, in modo da impedire a poche mani di impadronirsi dei beni di tutti.
Nella volontà dei sette ritrovatisi in gran segreto a Jeckyll Island, quello non avrebbe dovuto essere tuttavia un segreto di Stato. Semmai privato. Privatissimo.

La nascita dell'istituzione per tutelare i grandi banchieri

In una democrazia economica che a ben vedere era ancora a uno stato puberale, vigilata in realtà da pochi e immensi capitali, quei marpioni del credito in trasferta carbonara sotto il sole della Georgia avevano infatti un preciso mandato di 'bottega': dar vita sì a un’istituzione superiore, ma che sotto una veste apparentemente pubblica fosse in realtà la precisa espressione dei loro interessi. In modo da poter continuare a garantire a pochi grandi banchieri - i big cheeses, appunto - quella mano libera di cui avevano peraltro ampiamente goduto fino a quel momento.
Al senatore Aldrich, giudicato poi dalla Storia come uno scadente tecnico finanziario, ma riconosciuto universalmente per essere stato un navigato legislatore, spettava il compito di 'tradurre' quel testo di riforma in modo tale da farlo passare indenne sotto gli occhi di un Congresso che era stato tenuto ovviamente del tutto all’oscuro di quella spedizione sull’isola.
LE BANCHE NEI VERTICI DELLA FED. Congresso che avrebbe avuto sì il formale controllo della nascitura Fed - così chiamata proprio per non usare la deprecata espressione Central Bank (le sfumature della semantica contavano anche allora) - ma i cui vertici direttivi sarebbero stati sostanzialmente scelti dalle banche. All’europea, appunto, così come aveva recepito Aldrich nel suo dispendioso tour.
E per gettare ulteriore fumo negli occhi dei cittadini, tanto istintivamente ostili all’idea di un Moloch centrale, i sette 'autoreclusi' nel paradiso di Jekyll avevano pensato di dare vita al sistema delle Riserve regionali, all’inizio quattro e successivamente cresciute fino a 12, diventate altrettante filiali della Fed in diverse zone del Paese.

Con Wilson nacque ufficialmente la Fed

Le cose andarono insomma così, all’insegna di una discutibile opacità di comportamento finalizzata al raggiungimento di un obiettivo che - se non è esatto definirlo con termini molto attuali ad personam, visto che a beneficiarne sarebbero stati un po’ più di uno - avrebbe fatto comodo a pochi. I soliti pochi.
A rivelarlo, ma soltanto sei anni più tardi, fu appunto quel giovane reporter di grande talento e di intelligente curiosità, Forbes, la cui futura omonima rivista sarebbe diventata quello che è ancor oggi: una bibbia indiscussa del capitalismo mondiale.
Fatto sta che la verità venne a galla a cose ormai fatte, quando non ci sarebbe stato più modo di tornare indietro. Perché nel frattempo, il 23 dicembre 1913, su proposta del presidente Woodrow Wilson, con l’approvazione del Congresso, era nata ufficialmente la Fed. Concepita in gran segreto in quell’ammucchiata di banchieri e ricconi, era venuta alla luce come banca centrale: ma clandestinamente, senza il coraggio di dichiararlo.
NELLA SUA STORIA, 200 EMENDAMENTI. Crescendo, questo è vero, la massima istituzione finanziaria americana è poi molto cambiata, come testimoniano gli oltre 200 emendamenti apportati fino a oggi dal giorno della sua legge istitutiva. Emendamenti che le hanno lasciato tuttavia il pudore di non menzionare ancora, nemmeno nel proprio sito internet - manca quarda caso una specifica voce «History» - quel summit segreto da cui tutto aveva avuto inizio.
Insomma, permane ancor oggi il buio su quel peccato originale consumato nel 1910 all’ombra delle querce secolari di un luogo fuori mano com’era allora Jekyll Island.
Peraltro un luogo bellissimo per peccare, fidatevi di uno che c’è stato.

Domenica, 06 Novembre 2011

Federal reserve: da una riunione segreta nacque la banca centrale Usa - ECONOMIA

La lobby di Jekyll Island

Usa: dal summit segreto di sette banchieri nacque la Fed.

di Guido Mattioni

Articolo completo

Faceva freddo, quella notte a Hoboken. Faceva un maledetto freddo e dal cielo veniva giù qualcosa di indefinibile che non era più pioggia, ma che ancora non si poteva chiamare neve.

Faceva uno stramaledetto freddo, quella notte a Hoboken, e le pensiline all’aperto della stazione ferroviaria del New Jersey, a un tiro di schioppo dal corso grigio e ancor più gelido del fiume Hudson, non offrivano la benché minima protezione.

Ma più che scosso dai brividi, il manipolo di cronisti e fotografi 'parcheggiati' lì in pianta stabile dai principali quotidiani newyorkesi a fare la guardia al barile per la rubrica del «Chi arriva e chi parte», era pervaso da una fastidiosa sensazione. Del genere: «Qui qualcuno ci ha fregati». E da quella, ancor più sgradevole, di essersi probabilmente lasciati scappare una succulenta notizia.

RIUNIONE IN SORDINA. Era la notte del 22 novembre 1910 e sarebbe passata alla storia soltanto qualche anno dopo per via di quella clamorosa fregatura tirata ai reporter mondani, molti dei quali spediti a coprire un incarico tanto effimero e disagevole proprio in quanto pivelli alle prime armi.

Era così sfuggita loro l’invidiabile occasione di poter raccontare il primo passo che avrebbe poi portato alla nascita della Federal reserve (Fed), la banca centrale americana.

A Hoboken il gotha della finanza mondiale

Una pagina poco chiara, per nulla trasparente. Sarebbero passati sei anni prima che la verità venisse a galla per merito di un giornalista un po’ più sveglio, curioso e pervicacemente ficcanaso: un certo Bertie Charles Forbes, futuro fondatore della rivista economico-finanziaria che ancor oggi porta il suo nome.

Sta di fatto che a pochi minuti uno dietro l’altro, sotto i nasi dei giovani reporter mondani - più usi a riconoscere belloni dello spettacolo, muscolosi assi del baseball e ancheggianti squinzie annesse - erano sfilati sette degli uomini più potenti del mondo borsistico e finanziario statunitense.

Nell’ordine: il senatore repubblicano Nelson Aldrich, capo della Commissione monetaria nazionale; A. Piatt Andrew, assistente del segretario al Tesoro; Frank Vanderlip, presidente della City National Bank di New York, nonché braccio destro di William Rockefeller; Henry P. Davison senior, partner anziano di Jp Morgan Company e indiscusso alter ego di mister John Pierpont Morgan in persona (come dire il padre di tutti i banchieri); il suo collega Benjamin Strong, capo della Jp Morgan Bankers Trust; Charles D. Norton, presidente della First National Bank di Manhattan e Paul M. Warburg, partner della Khun, Loeb and Company, rappresentante delle famiglie Warburg e Rotschild in Europa.

Messi tutti insieme, rappresentavano all’epoca un quarto dell’intera ricchezza mondiale.

LONTANO DAI CRONISTI DI MANHATTAN. Avevano tatticamente deciso di partire da una stazione secondaria come quella di Hoboken, nel New Jersey, in quanto molto più defilata rispetto a quella troppo in vista di Manhattan, là dove i cronisti erano di norma reporter più grassi, navigati e anche ben piazzati in un salottino riscaldato.

Per ulteriore scrupolo, al fine di depistare eventuali curiosi, i sette big cheeses - «pezzi grossi», nel gergo affaristico newyorkese - erano arrivati preceduti da montagne di valigie tra le quali spiccavano in voluta bella vista custodie di fucili da caccia.

«Beati loro, se ne vanno a sparare alle anatre al caldo della Florida», aveva ingenuamente e collettivamente concluso il manipolo di sbarbati cronisti, stringendo delusi i bloc notes ancora vuoti tre le dita ormai livide per il freddo.

Quegli uomini dai cappotti impellicciati avevano tirato diritto scortati da una pattuglia di facchini ed erano saliti in fretta su un piccolo convoglio privato, protetto dalle tendine abbassate, che li attendeva su un binario secondario con la vaporiera in tiro. Quindi un fischio, «si parte» e via nella notte.

Via da Hoboken, via da quel freddo, via dallo stramaledetto New Jersey, via da occhi che non avrebbero dovuto vedere. Via soprattutto da possibili lettori dell’indomani, quelli che non avrebbero mai dovuto sapere.

Dopo un migliaio di miglia verso Sud, e innumerevoli ore di viaggio più tardi, il convoglio si era fermato alla stazione di Brunswick, in Georgia, un luogo famoso unicamente - lo è ancor oggi - come capitale americana dei gamberi. Roba che è difficile da catturare a fucilate.

Isolati su Jekyll Island, isola acquistata per 125 mila dollari

I pezzi grossi, senza più cappotti addosso, una volta scesi dal treno erano saliti su alcune automobili in attesa che li avevano condotti al porto. Di lì, in meno di un’ora di battello, avevano raggiunto Jekyll Island, la selvaggia isola subtropicale che dal 1886 era diventata il resort privato delle più potenti e danarose famiglie dell’establishment finanziario e politico statunitense: dai Morgan ai Vanderbilt, dai Pulitzer ai Carnegie, dai McCormick ai Rockefeller.

In quel paradiso isolato dal mondo avevano fatto costruire ville sontuose degne del loro censo (divenute oggi la struttura di un lussuoso complesso alberghiero dai prezzi tuttavia abbordabili) tenute perennemente pronte alla bisogna da un esercito di maggiordomi e camerieri in pianta stabile.

Era bastata un’inezia, un assegno di 125 mila dollari versato agli storici proprietari, i Du Bignon - piantatori di cotone decaduti perché rimasti senza più schiavi da far lavorare nelle piantagioni - e quel paradiso era diventato di loro proprietà.

NESSUN COGNOME, SOLO NOMI DI BATTESIMO. Comunque, come ulteriore misura discrezionale, per i 15 giorni che i sette uomini d’oro avrebbero dovuto fermarsi a Jeckyll, erano stati mandati in vacanza forzata tutti i cuochi, i camerieri e le sguattere abitualmente di servizio in quelle lussuose mansion, sostituiti da avventizi assunti a tempo. Con tutta probabilità molto meno esperti nel servire in tavola, ma per quello che davvero contava in quell’occasione totalmente all’oscuro in merito su chi fossero quei signori arrivati dal Nord.

Non ancora paghi, come misura di segretezza supplementare i sette si erano dati anche una regola che sarebbe divenuta poi per gioco un Club, quello dei nomi propri. Nel senso che durante il soggiorno si sarebbero chiamati unicamente con i rispettivi nomi di battesimo, senza lasciarsi mai sfuggire uno qualsiasi di quei loro ingombranti e rinomati cognomi.

Da Roosevelt il primo passo con la Commissione monetaria

A questo punto è necessario un breve passo indietro. Due anni prima, nel 1908, il presidente Theodore Roosevelt aveva dato vita alla Commissione monetaria mettendovi a capo proprio il primo di quei sette uomini d’oro, il senatore Aldrich.

La Casa Bianca era infatti intervenuta sull’onda del devastante Bankers Panic del 1907, quando in un niente la Borsa aveva perso il 50% del suo valore. Questo perché su un’economia già in recessione si erano andati a sovrapporre i fallimenti di numerose banche e società di intermediazione, provocati dal precipitoso ritiro dal mercato di titoli di prestito a rischio molto elevato. Col che si conferma la constatazione che la storia si ripete, senza che purtroppo gli uomini ne traggano mai utili insegnamenti.

RIFORMA BANCARIA SU ESEMPIO EUROPEO. Dopo aver girato per due anni la vecchia Europa delle banche centrali - ufficialmente a scopo di studio - ma spendendo e spandendo qualcosa come 300 mila dollari dei contribuenti, Aldrich era atteso dal Congresso americano con una soluzione in tasca. Qualcosa di scritto, una traccia, un suggerimento che potesse dar vita a una riforma bancaria in un Paese dove l’opinione pubblica vedeva per lo più come fumo negli occhi anche la sola idea dell’emergere di una strapotente banca centrale.

Ipotesi che sarebbe stata ben poco confacente al forte sentimento federale diffuso tra la maggioranza della gente. Le era stato infatti preferito fino ad allora il sistema indipendente delle Sotto-tesorerie, in modo da impedire a poche mani di impadronirsi dei beni di tutti.

Nella volontà dei sette ritrovatisi in gran segreto a Jeckyll Island, quello non avrebbe dovuto essere tuttavia un segreto di Stato. Semmai privato. Privatissimo.

La nascita dell'istituzione per tutelare i grandi banchieri

In una democrazia economica che a ben vedere era ancora a uno stato puberale, vigilata in realtà da pochi e immensi capitali, quei marpioni del credito in trasferta carbonara sotto il sole della Georgia avevano infatti un preciso mandato di 'bottega': dar vita sì a un’istituzione superiore, ma che sotto una veste apparentemente pubblica fosse in realtà la precisa espressione dei loro interessi. In modo da poter continuare a garantire a pochi grandi banchieri - i big cheeses, appunto - quella mano libera di cui avevano peraltro ampiamente goduto fino a quel momento.

Al senatore Aldrich, giudicato poi dalla Storia come uno scadente tecnico finanziario, ma riconosciuto universalmente per essere stato un navigato legislatore, spettava il compito di 'tradurre' quel testo di riforma in modo tale da farlo passare indenne sotto gli occhi di un Congresso che era stato tenuto ovviamente del tutto all’oscuro di quella spedizione sull’isola.

LE BANCHE NEI VERTICI DELLA FED. Congresso che avrebbe avuto sì il formale controllo della nascitura Fed - così chiamata proprio per non usare la deprecata espressione Central Bank (le sfumature della semantica contavano anche allora) - ma i cui vertici direttivi sarebbero stati sostanzialmente scelti dalle banche. All’europea, appunto, così come aveva recepito Aldrich nel suo dispendioso tour.

E per gettare ulteriore fumo negli occhi dei cittadini, tanto istintivamente ostili all’idea di un Moloch centrale, i sette 'autoreclusi' nel paradiso di Jekyll avevano pensato di dare vita al sistema delle Riserve regionali, all’inizio quattro e successivamente cresciute fino a 12, diventate altrettante filiali della Fed in diverse zone del Paese.

Con Wilson nacque ufficialmente la Fed

Le cose andarono insomma così, all’insegna di una discutibile opacità di comportamento finalizzata al raggiungimento di un obiettivo che - se non è esatto definirlo con termini molto attuali ad personam, visto che a beneficiarne sarebbero stati un po’ più di uno - avrebbe fatto comodo a pochi. I soliti pochi.

A rivelarlo, ma soltanto sei anni più tardi, fu appunto quel giovane reporter di grande talento e di intelligente curiosità, Forbes, la cui futura omonima rivista sarebbe diventata quello che è ancor oggi: una bibbia indiscussa del capitalismo mondiale.

Fatto sta che la verità venne a galla a cose ormai fatte, quando non ci sarebbe stato più modo di tornare indietro. Perché nel frattempo, il 23 dicembre 1913, su proposta del presidente Woodrow Wilson, con l’approvazione del Congresso, era nata ufficialmente la Fed. Concepita in gran segreto in quell’ammucchiata di banchieri e ricconi, era venuta alla luce come banca centrale: ma clandestinamente, senza il coraggio di dichiararlo.

NELLA SUA STORIA, 200 EMENDAMENTI. Crescendo, questo è vero, la massima istituzione finanziaria americana è poi molto cambiata, come testimoniano gli oltre 200 emendamenti apportati fino a oggi dal giorno della sua legge istitutiva. Emendamenti che le hanno lasciato tuttavia il pudore di non menzionare ancora, nemmeno nel proprio sito internet - manca quarda caso una specifica voce «History» - quel summit segreto da cui tutto aveva avuto inizio.

Insomma, permane ancor oggi il buio su quel peccato originale consumato nel 1910 all’ombra delle querce secolari di un luogo fuori mano com’era allora Jekyll Island.

Peraltro un luogo bellissimo per peccare, fidatevi di uno che c’è stato.

Domenica, 06 Novembre 2011

Federal reserve: da una riunione segreta nacque la banca centrale Usa - ECONOMIA