lundi, juillet 26, 2010

Così i pachistani alleati dell'America aiutano al Qaida - [ Il Foglio.it › La giornata ]

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Produzione Fiat in Serbia Solo la Cgil non dice nulla « Tanziro

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Il Riformista

Produzione Fiat in Serbia Solo la Cgil non dice nulla - I COMMENTI - Italiaoggi

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Arriva il provider dei pirati : PC Professionale

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Windows 7 tricks: 20 top tips and tweaks

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5 free online services that store, sync and share your files

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samedi, juillet 24, 2010

Se il giudice fugge dai giudici

Se il giudice fugge dai giudici

di Peppino Caldarola sabato 24 luglio 2010 ilriformista.it


La battaglia moralizzatrice si arresta davanti alle toghe? Spesso è andata così. Magistrati noti per la loro severità si sono rivelati indulgenti verso i propri colleghi. Questa volta sta andando anche peggio e stiamo assistendo allo spettacolo di un magistrato che per sfuggire alle sanzioni si sta comportando in modo furbesco contando sulle solidarietà di casta. È questo il caso di Alfonso Marra, il magistrato con quel maestoso riportone sul cranio salito agli onori delle cronache in queste ultime settimane.
Marra è presidente della Corte d’Appello di Milano, ma ormai è noto per il coinvolgimento nell’attività della P3, la loggetta di “vecchietti” (la definizione anagrafica è di Berlusconi) che trattava affari e promozioni. La posizione di Marra si è fatta immediatamente insostenibile. Da qui la decisione del prima commissione del Csm di convocarlo e di avviare la procedura di trasferimento d’ufficio. Lunedì Marra sarebbe stato audito dai suoi colleghi e avrebbe potuto spiegare la sua posizione. Ma l’incontro non ci sarà. Il presidente della Corte d’Appello ha fatto sapere che non intende deporre davanti al Csm e non ha fornito alcuna spiegazione di questo rifiuto.
Con singolare contemporaneità si è messa in moto un’altra procedura tesa a salvarlo. Il procuratore generale di Cassazione, Vitaliano Esposito, ha anche lui avviato un inchiesta su Marra senza tuttavia richiedere sanzioni con la conseguenza che l’iniziativa della Cassazione sospenderà il provvedimento ipotizzato dalla prima commissione del Csm. Un marchingegno ben studiato per consentire a Marra di sfuggire alle proprie responsabilità. L’Associazione nazionale magistrati ha protestato vivacemente contro la Cassazione ma ormai la situazione è compromessa.
La decisione di Marra è sicuramente utile ai fini della sua difesa immediata ma getta ombre sui di lui e su quanti stanno favorendo il suo tentativo di sottrarsi a una valutazione delle sue frequentazioni. In primo luogo sconcerta l’iniziativa del procuratore generale della Cassazione che ha scelto di aprire un conflitto molto serio con il Csm e ha agevolato la decisione di Marra di sottrarsi al giudizio dell’organo di autogoverno della magistratura. Colpisce anche che in tutta questa vicenda compaia il nome di Piercamillo Davigo, un tempo magistrato di punta del pool di “Mani Pulite”, spesso rappresentato come uno dei più feroci custodi della moralità pubblica, che ha scelto questa volta di difendere Marra e che non può non aver condiviso la sua fuga davanti alla prima commissione del Csm.
È ragionevole riconoscere a Marra il beneficio di innocenza che spesso i suoi colleghi di Milano non hanno riconosciuto ad altri cittadini da loro inquisiti. Tuttavia lo spettacolo di un alto magistrato che scappa davanti ai suoi giudici invece di deporre con verità e onestà è abbastanza indecoroso. Non è giusto fare di tutta erba un fascio ma se la magistratura non è in grado di affrontare la “questione morale” al proprio interno è difficile immaginare che sia in grado di svolgere il controllo di legalità. Davigo e i suoi ex colleghi del pool non hanno niente da dire?

Un segreto è segreto - [ Il Foglio.it › La giornata ]

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jeudi, juillet 22, 2010

"Io ho arrestato Riina: la politica rimase fuori i magistrati invece..."

"Io ho arrestato Riina: la politica rimase fuori i magistrati invece..."
di Redazione articolo di giovedì 22 luglio 2010 ilgiornale.it

Uno dei carabinieri di "Ultimo" racconta la storia della cattura: "Quando i pm intervennero non fu più possibile andare avanti". Poi rivela: "Certi pm oggi fanno antimafia, ma prima erano contro Falcone e Borsellino"
Il maresciallo in congedo dei carabinieri Roberto Longu ha fatto parte del Crimor-Unità militare combattente, l’Unità della 1ª Sezione del 1° Reparto del Ros nata subito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, nel settembre del ’92, con compiti di contrasto alla criminalità organizzata. Il gruppo, guidato da Sergio De Caprio, meglio noto come Capitano Ultimo, il 15 gennaio del 1993, a Palermo, mise a segno il colpo più grosso: l’arresto del capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina. Il maresciallo Longu nella sua lettera racconta come andò quella cattura. E spiega perché, quando intervennero i giudici, tutto finì.
Roberto Longu
Egregio direttore,
sono un maresciallo dei carabinieri in congedo, nonché appartenente a Crimor, il gruppo del capitano Ultimo che ha arrestato Totò Riina. Le scrivo perché dopo aver sentito sciocchezze tra la trattativa di Stato e la mafia, il tentativo di colpo di Stato, l’arresto di Riina, le accuse al capitano Ultimo, al generale Mori e generale Ganzer, voglio offrire il pensiero e il racconto di chi le cose le ha vissute e fatte in prima persona.
Massimo Ciancimino parla e dopo vent’anni si torna a parlare con insistenza della morte di Falcone e Borsellino, trattativa tra mafia e Stato; politici e magistrati che parlano di tentativo di colpo di Stato, servizi segreti deviati, signor Franco eccetera... La grande mano del «livello superiore», intoccabile e soprattutto introvabile, la solita storia. Infangare il Paese e chi ha veramente lavorato per il bene dell’Italia.
Ebbene, voglio raccontare in breve la storia della cattura di Totò Riina. Il nostro gruppo, Crimor, lavorava a Milano occupandosi di Cosa nostra. Tutti dicevano che a Milano la mafia non esisteva. In pochi anni, con varie indagini mettiamo in luce che a Milano la mafia esiste ed è anche ben radicata, arrestiamo e sgominiamo le famiglie Carollo e Fidanzati. Siamo un gruppo di professionisti coordinato da un grande comandante, il capitano Ultimo. Siamo anche molto amici di Falcone, e facciamo riferimento a un grande generale, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il nostro simbolo. Il nostro motto è «lavorare per il popolo oppresso».
Il giorno della morte di Falcone ci ritroviamo nel nostro ufficio e siamo sgomenti; ci guardiamo in faccia, siamo una decina, e prendiamo una decisione che nasce spontanea. Andiamo a Palermo ad arrestare Totò Riina e smantellare la sua organizzazione. È quel giorno che nasce la fine di Riina. La mafia ha ammazzato il generale, giudici, colleghi, ora Falcone e in quel modo, ci sentivamo in dovere di fare qualcosa e mettere fine al massacro. Nessuna organizzazione segreta o chissà quale piano strategico messo in piedi con la mafia. Dieci persone che disprezzano la mafia e lavorano per il popolo oppresso decidono di catturare Salvatore Riina, l’imprendibile.
Viene data comunicazione delle nostre intenzioni al generale Mori, che a quel tempo era colonnello e vicecomandante del Ros, il quale inoltra le nostre intenzioni direttamente al Comando che accetta e ci dà il via. Di quel tempo ricordo una cosa, il terrore delle istituzioni, Totò Riina imprendibile che mette sotto scacco l’Italia, le grandi lacerazioni della magistratura palermitana, che era quasi tutta schierata contro Falcone e Borsellino che quasi venivano presi per pazzi. Oggi parlano bene, ma ieri razzolavano male, molto male.
Fui io, insieme al mio collega Ombra, a mettere per primo il piede a Palermo; facemmo le prime ricognizioni, le prime verifiche sugli obiettivi e sui personaggi. Rimasi quasi sconvolto per la mancanza di indagini, riscontri, indizi investigativi. La magistratura faceva pochissimo, le forze di polizia operavano fuori Palermo, la politica proprio non si vedeva e sentiva. Oggi mi viene da ridere quando sento tutti quei magistrati di Palermo che parlano di Antimafia. Ma dove erano allora? Cosa facevano?
Naturalmente l’indagine nasce in clandestinità, non ci fidavamo di nessuno, va avanti per circa sette mesi di grandi sacrifici, troviamo gli indizi, le tracce di Riina attraverso i Ganci e arriviamo vicino al suo rifugio, pochi giorni e avremmo trovato la casa.
Il fato ci mette la coda. In quei giorni al Nord viene arrestato Balduccio Di Maggio, che si pente e dice di essere stato l’autista di Riina sino a qualche anno prima.
Viene portato a Palermo, racconta che quando faceva da autista prendeva Riina lungo la strada, alla Rotonda di viale Michelangelo, vicino al famoso Motel Agip, senza però indicare un obiettivo preciso. Per noi quella zona era altamente strategica poiché avevamo individuato un obiettivo frequentato dal mafioso Domenico Ganci, da noi ritenuto molto vicino a Totò Riina. Mettiamo sotto osservazione un’abitazione e filmiamo chi entra e chi esce, li facciamo visionare al pentito il quale riconosce la moglie e i figli di Riina. L’indomani ci posizioniamo, esce Riina e l’arrestiamo. Questo in breve.
Il pentito è stata la nostra sfortuna più grande. In primo luogo perché ha fatto sì che l’indagine fosse conosciuta dalla magistratura, la seconda perché non è stato più possibile portarla avanti con le nostre modalità operative. Noi, per nostro modus operandi, quando trovavamo un latitante non lo arrestavamo subito, anzi lo facevamo stare libero, però lo seguivamo, gli stavamo vicino 24 ore su 24 per capire i suoi percorsi, analizzare i suoi obiettivi, verificare la struttura organizzativa, documentarla, farne prova e poi annientare l’intera struttura. Questo era in origine il nostro obiettivo con Riina. Analizzare i suoi movimenti, le dinamiche operative di Cosa nostra partendo dal vertice, studiare i loro percorsi mentali per poi annientarli e distruggerli. Questo era il nostro obiettivo finale, con il risultato immediato di catturare Riina e distruggere la cupola.
Dopo il pentito questo non fu più possibile, tutti volevano esclusivamente l’arresto di Riina. Tutti volevano dirci cosa fare, fu solo grazie alla determinazione del colonnello Mori e del capitano Ultimo che le cose andarono come sono andate, altrimenti penso che Riina l’avrebbe fatta franca anche allora.
E per fortuna che andò così, se avessimo fatto secondo i nostri propositi ci avrebbero arrestati tutti per essere mafiosi, visto com’è andata con la perquisizione, non fatta solo esclusivamente per questioni investigative e legate all’indagine.
Parla Massimo Ciancimino, si parla di trattativa mafia-Stato, papello e terzo livello. Per noi Vito Ciancimino all’interno della mafia a quel tempo non contava più niente, roba vecchia che la mafia aveva abbandonato, com’è suo costume quando una cosa non serve più. È stato ascoltato perché voleva parlare, com’è giusto che faccia un investigatore quando si presenta un criminale. Probabilmente oggi una certa magistratura, se non fosse stato ascoltato, direbbe che non fu sentito per aiutare la mafia. Politici di oggi e di ieri e magistrati che parlano di trattative tra Stato e mafia. Dovrebbero spiegare cosa facevano allora, visto che facevano parte dello Stato. Può mai un generale o un capitano trattare per lo Stato senza che questi non sappia nulla? Io penso di no.
È di questi giorni la notizia della condanna al generale Ganzer e colleghi, questo deve far riflettere e molto sullo stato della magistratura e delle forze di polizia. Deve far riflettere perché ormai è sempre più evidente l’anomalia del Codice di procedura penale, ovvero le indagini dirette e coordinate dai magistrati. È qui l’errore di fondo. Un magistrato non può gestire delle indagini, le indagini le devono gestire e fare le forze di polizia. Perché, vede, un’indagine è un processo sociale, in quanto coinvolge la gente; è un processo psicologico in quanto coinvolge le strutture mentali delle persone; è un processo sistemico dove la cosa più logica alle volte non è la più giusta per il fine superiore, che è quello del bene comune. L’indagine è compito del poliziotto che vive e opera tra la gente, che conosce la strategia, la tattica e il terreno su cui combatte.
Ma lei ha mai visto un magistrato fare un pedinamento, uscire per strada e seguire un mafioso o un presunto ladro di biciclette? Io mai. E allora come fanno a dirigere le indagini (e dirigere significa comandare) quando non hanno la benché minima conoscenza del sistema? Un vero investigatore trova i riscontri e gli indizi sul terreno attraverso osservazione e pedinamento, e solo allora chiede le intercettazioni. Perché le intercettazioni per gli investigatori sono delle vere sciagure, hanno bisogno di verifiche, controlli, molto personale levato alla strada. Un investigatore intercetta solo quando c’è quasi la certezza dei reati. Per un investigatore le intercettazioni sono di ausilio alle indagini e non lo strumento principale.
Oggi siamo al contrario, si fanno le intercettazioni, si arrestano e si mettono alla gogna i cittadini senza un riscontro oggettivo e poi vengono scarcerate e tante scuse e grazie. C’è bisogno di cambiare il Codice di procedura penale e dare la direzione delle indagini alla polizia. I miei ex colleghi mi dicono che ormai non fanno più nulla di iniziativa, hanno paura di lavorare perché un magistrato potrebbe indagarli e metterli alla gogna peggio dei criminali. Io stesso oggi, vedendo com’è andata ai miei comandanti, non so se prenderei le decisioni che ho preso in passato. Sa cosa mi dice mia figlia a proposito dei guai al generale Mori e capitano Ultimo? «Papà, Riina era da vent’anni latitante e non è successo nulla, voi lo arrestate, mettete sotto la mafia e i magistrati vi incriminano. C’è qualcosa di strano, ma non è che i magistrati si sono arrabbiati perché lo avete arrestato?».
*Maresciallo dei carabinieri in congedo - Componente del gruppo guidato dal capitano Ultimo che arrestò Totò Riina
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mardi, juillet 20, 2010

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Rose garden - Lynne Anderson

"Il nonnetto"

Il Riformista

Nichi confonde eroi e morti

Italiaoggi.it 20100720 PRIMO PIANO Di Piero Laporta prlprt@gmail.com

Carlo Giuliani, eroe come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». Nichi Vendola usa tre morti per sparigliare, non solo a sinistra. Comparare chi assalì i carabinieri a due magistrati che con i carabinieri condivisero i rischi dà la misura della faccia tosta di quanti prima degli attentati isolarono Falcone e Borsellino, rei di non essere né comunisti né coopmunisti. Le stesse forze politiche non si accontentano dell'appropriazione indebita dei cadaveri massacrati, dalle calunnie prima che dal tritolo. Oggi, infatti, accostandoli a uno come Giuliani, equiparano i carabinieri che uccisero Giuliani alla mafia che uccise Falcone e Borsellino. In tal modo, Carlo Giuliani e la fazione politica lo santifica entrano nel salotto buono della classe legittimata a governare: l'obiettivo di Vendola.
Il medesimo obiettivo ebbe l'allora presidente della Camera, Fausto Bertinotti, quando dedicò una sala del parlamento, cuore della Repubblica, al violento da strada Carlo Giuliani, accostando la furia eversiva della piazza alla forza legittima dell'Arma.
L'opposizione, oggi al governo, lasciò fare invece di sollevarsi. Nichi Vendola oggi approfondisce il solco tracciato da Bertinotti e ha buon gioco con una maggioranza incapace di comprendere che certe battaglie sono inevitabili, perché se non le combatti è come se le avessi perdute, ieri come oggi. Basta con i piagnistei contro Fini, contro la stampa e la tivvù. La politica è scontro; la politica è, come in questi casi, infamia; la politica per troppi è eversione. Chi non sa fronteggiare questo, faccia altro. Vendola s'è messo fuori dalla Costituzione e dalla parte della violenza. Si alzi in piedi il governo e difenda, se ha le palle per farlo, la dignità dell'Arma, la propria e quella del paese. Altrimenti si faccia da parte e lasci la poltrona a Vendola.

lundi, juillet 19, 2010

Il giudice va a cena da solo

Il giudice va a cena da solo


di CARLO FEDERICO GROSSO 16/7/2010 - lastampa.it

Ricordo che mio padre mi diceva che ai suoi tempi era regola indiscussa che il magistrato non dovesse essere «commensale abituale» di coloro nei confronti dei quali amministrava la giustizia.

Non doveva, cioè, coltivare relazioni sociali, avere rapporti di interesse, anche soltanto ostentare amicizie nella città dove aveva l’ufficio. Lo imponeva una regola elementare di prudenza. Poiché egli doveva non soltanto essere, ma ancor prima apparire imparziale, la sua immagine sarebbe stata inevitabilmente intaccata se egli fosse stato visto sedere abitualmente al tavolo degli stessi commensali, frequentare circoli, salotti, cene o cenacoli.

Altra regola sentita era che il magistrato doveva esprimersi esclusivamente con gli atti processuali e le sentenze: non doveva esibirsi, rilasciare interviste, parlare dei suoi processi fuori dalle sedi processuali, cercare a tutti i costi la vetrina. La sua attività doveva essere improntata a grandissima riservatezza. Ogni eccesso avrebbe infatti potuto intorbidire un’immagine che doveva apparire, invece, manifestazione di equilibrato esercizio delle funzioni.

Ulteriore regola di prudenza era che mai il magistrato avrebbe dovuto utilizzare la notorietà comunque acquisita con i suoi processi per tentare la strada di carriere parallele: nella politica, nei ministeri, negli uffici studi dei partiti od in qualunque altro luogo che gli consentisse di avere rapporti ravvicinati con il potere politico. La stessa possibilità d’intraprendere una carriera parallela avrebbe potuto costituire, infatti, motivo di esercizio turbato della sua attività giudiziaria, improntata al perseguimento d’inconfessabili ragioni d’interesse personale piuttosto che al perseguimento dell’interesse di giustizia.

Può darsi che quest’idea di magistrato avulso da ogni profilo di promozione sociale, estraneo ad ogni gioco di potere o d’interessi, lontano dalle ribalte, di magistrato stretto in una carriera necessariamente separata da tutte le altre carriere, fosse un’idea impraticabile, antica, fuori dal tempo. Osservare, e fare rigorosamente osservare, sempre, quantomeno alcune regole di rigore e di prudenza nelle frequentazioni degli appartenenti all’ordine giudiziario, nelle loro esternazioni, nei loro coinvolgimenti politici, nelle loro manifestazioni pubbliche e private, sarebbe tuttavia stato, probabilmente, utile e sacrosanto.

Lo dimostrano le sconcertanti vicende che la cronaca giudiziaria di questi giorni ha portato sulle prime pagine dei giornali e che stanno coinvolgendo taluni magistrati di rilievo. Esse, si badi, non costituiscono d’altronde un caso isolato. Si inseriscono in una sequenza di episodi che, sia pure interessando settori circoscritti della magistratura, hanno ripetutamente connotato le dinamiche del mondo giudiziario. È significativo, ad esempio, che alcuni dei magistrati che sono oggi al centro dell’attenzione mediatica perché coinvolti nell’ultimo scandalo, siano già stati, anni fa, oggetto d’inchiesta da parte del Csm e scagionati, non so se a ragione o a causa del gioco perverso delle trasversalità correntizie. Segno, comunque, che il sistema di controllo interno della magistratura non ha funzionato.

Che dire, d’altronde, della circostanza che fra i soggetti dei quali oggi si mormora vi siano addirittura Primi Presidenti, componenti del Csm, ex Presidenti della Corte Costituzionale? A poco conta che, come sembra, essi non abbiano accolto le richieste d’interferenza che sono state loro rivolte; è già sufficiente, a preoccupare, che tali soggetti abbiano potuto essere anche soltanto avvicinati.

Ciò che è stato, comunque, è stato. Sarebbe importante, ora, che le vicende emerse, e che rivelano l’esistenza di una questione morale interna alla magistratura oltre che al Paese nel suo insieme, forniscano l’occasione per il rinnovamento quantomeno di alcune regole. Mi limito ad accennare ad alcuni temi sui quali occorrerebbe cominciare a ragionare.

Primo. Attenzione al problema dei rapporti fra appartenenti all’ordine giudiziario e società. Non basta, si badi, vietare ai magistrati la frequentazione di ambienti quali quello degli affari, dei partiti, dei cenacoli e delle società segrete. Bisognerebbe, forse, decidere finalmente che il magistrato faccia, e soltanto, il magistrato, e non possa più essere distaccato in un ministero, in un ufficio politico, in un ufficio studi.

Secondo. Massimo rigore nel vietare le esternazioni improprie, le apparizioni televisive e le interviste sui processi in corso, comunque l’autopromozione mediatica.

Terzo. Divieto che un magistrato possa transitare senza scosse dalla magistratura all’attività politica. Se vuole farlo, si dimetta dalla magistratura ed affronti la nuova carriera libero da ogni condizionamento pregresso e futuro.

Quarto. Una riforma dei criteri di selezione dei componenti togati del Csm, per evitare finalmente che le trasversalità correntizie incidano sulla selezione dei dirigenti degli uffici, sulle decisioni disciplinari, su quant’altro potrebbe essere deviato dall’esistenza di rapporti impropri.

È difficile dire chi potrà, oggi, impostare riforme di questo tipo (le riforme di cui sta discutendo il mondo politico sono, al momento, di tutt’altro segno). Potrebbe, forse, essere la stessa magistratura organizzata a farsi carico, in un sussulto d’orgoglio, dei suoi problemi, nel tentativo di un’autoriforma salvifica dei principi di rigore, d’indipendenza e di onestà ai quali dovrebbe ispirarsi, sempre, l’attività dei magistrati.

Perché studiare l'esperanto? (Video didattici IEJ)

dimanche, juillet 18, 2010

YouTube - Gaudeamus Igitur

Il tacco 5 cambia il polpaccio e crea «dipendenza»

La ricerca La Manchester Metropolitan University spiega i dolori provati dalle donne che «scendono» d' estate dalle scarpe alte

Il tacco 5 cambia il polpaccio e crea «dipendenza»

Elasticità La perdita di elasticità del muscolo sarebbe all' origine del fastidio


MILANO - La riprova si ha con l' estate: chi non rinuncia al tacco 5 in città, si ritrova in vacanza con infradito e ballerine ai piedi e un fastidioso dolore ai polpacci. Che la "dipendenza da tacco 5" possa creare problemi di salute lo sapevano già le segretarie degli anni Cinquanta e lo sapeva pure il dottor Marco Narici della Manchester Metropolitan University che però si è chiesto: la scarpa alta modifica i muscoli del polpaccio tanto da giustificare il dolore? E come? Del resto i medici sanno bene che, quando si tiene una gamba o un braccio in una certa posizione per un pò di tempo, i muscoli si accorciano. Per rispondere alla domanda, Narici ha approfittato della visita, nel suo laboratorio, di un collega austriaco, Robert Csapo, esperto di ultrasuoni e risonanze magnetiche. E ha messo un annuncio sul Manchester Evening News per reclutare signore, portatrici abituali (almeno da due anni), e non, di tacco 5, disposte a sacrificare qualche ora di tempo per la ricerca. All' avviso hanno risposto un' ottantina di persone, fra i 20 e i 50 anni, e alcune hanno accettato di sottoporsi sia a una risonanza che a un' ecografia con ultrasuoni. Il primo esame non ha mostrato accorciamenti del muscolo, ma il secondo ha mostrato una riduzione del 13 per cento della lunghezza delle fibre nelle donne abituate ai tacchi alti. Non solo: queste ultime mostravano anche un tendine di Achille più sottile e rigido, capace così di compensare una minore capacità contrattile delle fibre e di facilitare la camminata. La perdita di elasticità del tendine, però, ha come effetto collaterale il fastidio che si prova quando si passa alla scarpa bassa. Un rimedio comunque c' è, dicono gli esperti che hanno pubblicato le loro osservazioni sul Journal of Experimental Biology: basta eseguire qualche esercizio di stretching per i muscoli, quando alla sera si tolgono le amate calzature. Meglio ancora sarebbe alternare, nella vita quotidiana, diversi tipi di scarpe. Abdicare del tutto al fascino della moda, infatti, è quasi impossibile, soprattutto quando a reclamizzare l' ultimo modello di - si fa per dire - Jimmy Choo, c' è di mezzo qualche «celebrity». Il loro richiamo altera, infatti, il cervello delle donne e riesce a condizionare gli acquisti anche a distanza di tempo. Un gruppo di ricercatori olandesi dell' Erasmus University ha "fotografato", con la risonanza magnetica, la corteccia cerebrale di 24 signore, mentre osservavano fotografie sia di personalità famose sia di donne attraenti, ma sconosciute, che sfoggiavano vari modelli di scarpe. Nel primo caso, ma non nel secondo, hanno visto "accendersi" una parte della corteccia frontale: in altre parole, il legame celebrità-prodotto viene memorizzato in un' area legata a sensazioni affettive e questo legame può essere facilmente richiamato alla mente, accompagnato da un senso di soddisfazione. Ciò non vuol dire che basta guardare la pubblicità per correre subito in un negozio, ma i ricercatori pensano che possa condizionare gli acquisti a distanza di tempo. Non a caso hanno pubblicato la ricerca sul Journal of Economic Psychology, che leggono anche gli esperti di marketing. Seguire la moda può essere particolarmente dannoso per le donne in gravidanza che spesso soffrono di problemi ai piedi, dovuti alle variazioni ormonali e all' aumento di peso. Nonostante questo, si ostinano, secondo un' indagine condotta in Gran Bretagna, a indossare ballerine, infradito e tacchi a spillo, quando sarebbero indicate, secondo i podologi, calzature con supporti speciali e a suola larga. Adriana Bazzi abazzi@corriere.it **** Il disagio Il muscolo Nel passaggio dal tacco alto alla scarpa bassa si rischia la perdita di elasticità del tendine con dolori al polpaccio Il test Nelle donne abituate al tacco le fibre muscolari sono accorciate Rimedi Alternare tacco alto e basso

Bazzi Adriana

Pagina 24
(17 luglio 2010) - Corriere della Sera

lundi, juillet 12, 2010

Maurizio Crozza: "i doveri degli studenti"

Maurizio Crozza: siamo un paese di fenomeni

Crozza a Ballaro': I magnifi Quattro

Crozza a Ballaro' - Brunetta si è pers.....

Brunetta vs Crozza: "La sua satira si mette dal....

Crozza - Brunetta e il Governo

Fuffas soppalca Napoli

Crozza - Bersani e l'operazione Santoro

"Da quando è segretario, Bersani..."

IL Sogno di Bersani raccontato da Crozza

Mouseless - an invisible mouse

jeudi, juillet 01, 2010

Pékin fait son nid en Grèce

Pékin fait son nid en Grèce
http://bruxelles.blogs.liberation.fr/coulisses/2010/06/p%C3%A9kin-fait-son-nid-en-gr%C3%A8ce.html
La Chine, au secours de la Grèce ? En quelques mois, Pékin est devenu le troisième partenaire commercial de la Grèce, devant la France et derrière l’Allemagne et l’Italie, alors qu’en 2006, elle n’occupait que la huitième place. Surtout, elle y multiplie les investissements stratégique, manifestement attirée par un pays que les marchés financiers ont mis à genoux. La Grèce est désormais prête à vendre ses bijoux de famille au plus offrant, comme en témoigne le gigantesque programme de privatisation annoncé le 2 juin, et elle sait que l’investissement étranger est le seul moyen de sortir rapidement de la récession.
La principale cible de la Chine? Les ports grecs. En novembre 2008, Cosco Pacific, la filiale de gestion portuaire du groupe chinois, a décroché la concession pour 35 ans de deux terminaux de conteneurs du port d’Athènes, Le Pirée, et l’autorisation d’en construire un troisième, pour un investissement total de 4,35 milliards d’euros. Il ne s’agit que d’un premier pas : « les Chinois cherchent une porte d’entrée en Europe du Sud-est », explique un diplomate européen. « Leurs bateaux sont énormes et ne peuvent pas entrer dans la plupart des ports européens. Ils veulent donc créer un “hub” au Pirée afin de redistribuer leurs marchandises en Europe. Cela va aussi développer l’activité de location de bateaux en Grèce ». Il ne s’agit là que d’une simple mise en bouche. Tous les ports grecs suscitent l’appétit chinois que ce soit le port de Thessalonique, qui assure plus de la moitié des exportations du pays, mais aussi celui de Volos (Pélion) et d’Alexandropouli, terminus de l’oléoduc en projet qui arrivera de Bulgarie… Pékin veut aussi faire main basse sur une partie de la chaine de transport, chemins de fer (OSE), dont la privatisation à hauteur de 49 % est en cours, et transport routier, dont la libéralisation est annoncée, afin d’assurer la circulation de leurs marchandises. La Chine a aussi mis un pied dans la téléphonie grecque, la télévision, la construction (avec un projet d’un complexe hôtelier au Pirée qui en est dramatiquement dépourvu) et même… l’exportation d’huile d’olive.
Les Grecs sont évidemment ravis de cet intérêt et ils souhaitent que la Chine s’engage davantage. Louka Katselli, la ministre de l’Économie, s’est ainsi rendue à Shanghai la semaine dernière pour inaugurer le pavillon grec de l’exposition universelle et proposer d’organiser un salon avec les régions chinoises. Les Grecs espèrent attirer les touristes chinois, le secteur du tourisme enregistrant cette année une chute de fréquentation de 15 à 20 % : « imaginez qu’ils nous envoient deux millions de touristes », se prend à rêver un investisseur grec…Les Grecs ne sont pas particulièrement préoccupés par cette déferlante. « Ils n’ont pas peur de la Chine. Ce sont deux vieilles civilisations qui se renvoient une image positive de leur histoire, bien éloignée de celle que les médias occidentaux donnent actuellement du pays », analyse un diplomate européen. « Ils sont très ouverts à l’international, ils n’ont pas le même rapport au territoire qu’en France ». On imagine, effectivement, les réactions françaises à la déclaration du PDG de Cosco, Wei Jiafu, lors de son séjour à Athènes, en mai dernier : « En Chine, on a un proverbe qui dit : “construisez le nid de l’aigle et l’aigle viendra”. Nous allons construire un nid dans votre pays pour attirer des aigles chinois