jeudi, octobre 31, 2013

Alla Camera stipendi allineati. Verso l’alto

IL BILANCIO ANNUALE DELLE SPESE DI MONTECITORIO
136mila agli elettricisti, 358 mila ai consiglieri 
Alla Camera stipendi allineati. Verso l’alto
Indennità e rivalutazioni. Diminuisce la distanza tra dirigenti e base 
http://www.corriere.it/foto-gallery/politica/13_ottobre_31/quanto-si-guadagna-camera-ada3df8c-41f8-11e3-8636-110cb2716567.shtml

I conti li ha fatti «United for a fair economy», organizzazione che da Boston si batte contro la diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza. Dice una loro ricerca che se nel 1940 un amministratore delegato guadagnava 14 volte un lavoratore medio, oggi la proporzione è salita a 531 contro 1. E ci sono casi dove la distanza tra la base e il vertice di un’azienda è ancora maggiore: come per la Fiat, dove Sergio Marchionne guadagna 1.037 volte il suo dipendente medio. Un’esagerazione, la naturale evoluzione del capitalismo, oppure la giusta distanza? In ogni caso l’esatto opposto di quello che viene fuori sfogliando le tabelle allegate al bilancio della Camera dei deputati, in questi giorni all’esame dall’Aula. La distanza fra base e vertice è minima, la piramide delle busta paga si schiaccia come nemmeno negli Stati Uniti del 1940. E non perché la retribuzione dei vertici sia bassa, ma perché quella della base è molto elevata.
Il vertice di Montecitorio, il segretario generale, ha stipendio e responsabilità analoghe a quelle dell’amministratore delegato di una grande azienda: entra con uno stipendio di poco superiore ai 400 mila euro lordi l’anno, ai quali si aggiunge l’indennità di funzione. Ma è scendendo verso la base nella piramide che cresce vertiginosamente la distanza delle retribuzioni dal mercato. Gli operatori tecnici - categoria nella quale rientrano i centralinisti, gli elettricisti e pure il barbiere di Montecitorio - vengono assunti con uno stipendio che supera di poco i 30 mila euro lordi l’anno. Ma già dopo 10 anni la loro busta paga è quasi raddoppiata, superando quota 50 mila, e a fine carriera può arrivare a 136 mila euro l’anno. Tradotto: un elettricista, un centralinista e un barbiere della Camera, anche se a fine carriera, messi insieme guadagnano quanto il segretario generale, che è pur sempre a capo di 1.500 persone.
Quanto si guadagna alla Camera
Una piramide schiacciata verso l’alto, appunto. E una fotografia che ha davvero poco a che fare con le busta paga del resto dei lavoratori, sia del settore privato che di quello pubblico. Per capire: il reddito medio degli italiani, al netto della nostra evasione fiscale record, si ferma di poco sotto i 20 mila euro lordi l’anno. Quasi la metà di un centralinista della Camera dei deputati ad inizio carriera. E di esempi possibili ce ne sono altri ancora. Gli oltre 400 assistenti parlamentari, cioè i commessi di Montecitorio, guadagnano in media come il direttore di una filiale di banca, eppure in generale non svolgono compiti molto diversi dagli uscieri di altri simili uffici pubblici. Inoltre, sono numerosissimi: 0,7 per ogni deputato, dopo il taglio voluto dall’attuale segretario generale, mentre dieci anni fa il rapporto era addirittura 1 a 1. La busta paga degli oltre 170 «consiglieri parlamentari» ha in media lo stesso peso di quella di un primario ospedaliero, ma a fine carriera supera i 350 mila euro l’anno. Mentre il primario ha la responsabilità di un reparto, i consiglieri si limitano a svolgere attività di studio e ricerca, o di assistenza giuridico legale e amministrativa. Tutto bene così?
In realtà a complicare i conteggi c’è anche quella selva di indennità che si aggiungono allo stipendio minimo e che riguardano tutti i livelli dell’amministrazione: dai 662 euro netti mensili riservati al segretario generale giù fino ai 108,97 euro, sempre netti e al mese, per gli autisti parcheggiatori, passando per gli 85 riservati a chi lavora in cucina e per i 108 incassati dagli addetti al recapito della corrispondenza.
Ma, pur con la sua piramide schiacciata verso l’alto, la Camera almeno un merito ce l’ha. L’approvazione del bilancio arriva dopo che già quest’estate i dati sugli stipendi dei dipendenti erano stati resi pubblici: un file scaricabile direttamente dal sito internet conferma quelli che per anni erano stati solo sussurri e pettegolezzi. Un’operazione trasparenza, che al Senato non si è ancora vista. Da settimane si dice che gli stessi dati dovrebbero essere pubblicati a breve da Palazzo Madama. Anche quella è una piramide schiacciata, anche quella verso l’alto, probabilmente un po’ più in alto rispetto alla Camera. Ma per il momento bisogna accontentarsi di qualche vecchio dato e di qualche nuovo sussurro.

Quelle Corti esplosive

Quelle Corti esplosive

Da Karlsruhe a Roma. Come nasce e come si spiega la grande guerra tra i giudici e l’Europa

di Claudio Cerasa      @claudiocerasa     ilfoglio.it      31 ottobre 2013 - ore 06:59
Tic tac tic tac. Mentre in Italia buona parte dell’opinione pubblica è impegnata a versare tonnellate d’inchiostro per definire se sia Matteo Renzi ad assomigliare a Virna Lisi o se non sia invece Massimo D’Alema a somigliare a Nilla Pizzi, a poche centinaia di chilometri dai palazzi romani sta andando in scena una silenziosa e micidiale guerra nucleare che nelle prossime ore sarà destinata a emergere come la punta di un iceberg nell’istante in cui i giudici della Corte costituzionale tedesca si esprimeranno sulla legittimità delle politiche monetarie della Banca centrale europea e in particolare sul programma Omt (Outright Monetary Transactions) presentato il 26 luglio dello scorso anno da Mario Draghi e perfettamente sintetizzato dal presidente della Bce con il suo famoso “whatever it takes”.
La decisione della Consulta tedesca, che è attesa entro la fine della settimana, avrà delle ripercussioni importanti sulla futura architettura dell’Europa, se non altro perché il piano anti spread ha aiutato i famosi paesi periferici a dimezzare il differenziale dei propri titoli di stato con quelli dei Bund tedeschi, ma al contrario di quello che si potrebbe credere la battaglia in questione non è solo l’ultimo e appassionante capitolo dello storico conflitto combattuto a colpi di cannonate tra i teorici del rigore assoluto (i tedeschi, tendenza Bundesbank) e i teorici del rigore cum juicio (la Bce, tendenza Draghi) ma fa parte di un gioco più grande in cui i protagonisti della partita sono da un lato i giudici e dall’altro l’Europa. Una partita le cui dimensioni spesso sfuggono agli osservatori italiani ma che nel giro di un anno e mezzo ha portato le massime autorità europee a sospettare che alcune delle corti costituzionali dei paesi membri si siano trasformate in cellule militanti dell’anti europeismo chiodato. Massime autorità europee che in questo caso corrispondono al profilo di un gruppo di funzionari della Commissione europea che in un paper riservato, intercettato giovedì scorso dal Financial Times, ha denunciato “l’eccessivo attivismo politico” mostrato, clamorosamente, da alcuni corti costituzionali. Un caso isolato? Seguite il filo.
Il caso in questione riguarda la sentenza di quella che è la più attiva tra le corti costituzionali europee, la Corte portoghese, che la scorsa settimana ha inferto un duro colpo alla Troika bocciando la riforma del lavoro approvata dal governo conservatore guidato da Pedro Passos Coelho. Il colpo alla Troika, che nel maggio del 2011 aveva concesso al Portogallo un prestito di 78 miliardi di euro, non arriva come un fulmine a ciel sereno ma arriva sull’onda di altre due clamorose sentenze della Consulta. La prima, datata aprile 2013, è quella che ha annullato la soppressione della tredicesima per i dipendenti pubblici e i pensionati portoghesi (sentenza che ha obbligato il governo a riscrivere la legge finanziaria). La seconda, datata agosto 2013, è quella che ha bocciato la misura governativa che creava un nuovo regime di “mobilità speciale” per i lavoratori del settore pubblico, che rendeva più facile il trasferimento dei dipendenti in vista del loro licenziamento. Solo un caso isolato? Solo una noiosissima storia di ricorsi e controricorsi di un paese alla periferia dell’Europa? Sentite cosa dice al Foglio il costituzionalista Luciano Violante. “C’è poco da fare. L’Europa di oggi è arrivata a toccare una terra incognita in cui le istituzioni continentali hanno fatto dei passi più lunghi della gamba e hanno creato delle zone opache che non potevano che essere presidiate dai magistrati. In tutta Europa, in effetti, tra ricorsi alla Corte costituzionale, appelli inoltrati alla Corte di giustizia, referendum minacciati contro le decisioni della Commissione europea, è presente un notevole attivismo giudiziario che alle prossime elezioni potrebbe essere cavalcato dai populisti europei e che ha origine da una rivoluzione culturale che da anni influenza molta giurisprudenza europea e che in qualche modo è cominciata ai tempi del processo di Norimberga. Da Norimberga in poi, infatti, la figura del giudice si è trasformata una sorta di garante non solo della legge ma anche dei diritti umani e quando si creano cortocircuiti tra le istituzioni qualche volta capita che i giudici decidano di svolgere un ruolo simile a quello di un supplente della politica”.
Il caso portoghese e il caso tedesco non sono infatti casi isolati ma si inseriscono in un contesto ancora più ampio in cui sono coinvolti molti dei principali paesi finiti sotto l’occhio spietato dei tecnocrati europei. Paesi come Cipro, per esempio, dove l’associazione nazionale dei giuristi aveva promesso di avviare una class-action alla Corte europea di Giustizia contro il prelievo forzoso sui conti correnti imposto la scorsa estate dalla Troika al governo cipriota (e poi, però, bocciato in Parlamento). Paesi come l’Irlanda (che nel 2011 ha ricevuto 85 miliardi euro di prestito dalla Troika) dove a svolgere in un certo senso le funzioni di giudice costituzionale è stato un referendum che lo scorso quattro ottobre ha respinto la proposta del governo di abolire la camera alta del Parlamento. E infine, naturalmente, paesi come l’Italia. Dove non solo esistono giudici che in alcuni casi considerano legittimo non pagare l’Iva (ricordate la storia dell’imprenditore milanese assolto per non aver pagato l’Iva a causa della difficile situazione economica dell’impresa?). Ma dove esiste, anche qui, una Corte costituzionale che sfidando il governo (e sfidando anche gli estensori della famosa lettera della Bce) ha bocciato prima la richiesta di privatizzazione dei servizi pubblici locali (30 agosto 2012), poi il taglio dello stipendio dei dipendenti pubblici (11 ottobre 2012), infine la famosa e tanto acclamata abolizione delle province (6 giugno 2013). “Quella che vedremo nei prossimi giorni in Europa – dice al Foglio l’europarlamentare del Pd Roberto Gualtieri – rappresenta una specie di via giudiziaria alla sovranità nazionale e in un certo senso i casi tedeschi, italiani e portoghesi si tengono insieme perché rappresentano episodi in cui, per varie ragioni, si cerca di proteggere un paese dagli artigli, diciamo così, dei tecnocrati europei. Qui non si tratta di dare dei giudizi di merito. Si tratta solo di riconoscere un fenomeno che potrebbe diventare esplosivo. E se i grandi e piccoli paesi dell’Unione europea non troveranno un modo per correggere dall’interno delle istituzioni i difetti dell’Europa da qui alle prossime elezioni europee aspettiamoci pure di ritrovarci una nutrita platea di elettori indignati pronti a tifare affinché i giudici dei paesi membri si trasformino sempre di più nelle costole giudiziarie dei populismi europei”.


mardi, octobre 15, 2013

La (s)correttezza di Santoro

La (s)correttezza di Santoro




Nella puntata di Servizio pubblico di giovedì scorso è andata in onda un’intervista a una giovane di Chioggia che lamentava di essere stata abbandonata dai servizi sociali del comune. Il padre aveva perso il lavoro per la crisi, la banca li ha sfrattati perché non pagavano il mutuo e la famiglia per protesta ha dormito in auto davanti al comune per alcune notti. A questo link si può vedere l’intervista (dura meno di 5 minuti).
La notizia data dalla stampa locale era stata ripresa dai social network e soprattutto dal blog di Beppe Grillo, che probabilmente è la vera fonte di Michele Santoro. Il quale ha fatto eco alla vicenda senza effettuare le doverose verifiche e senza contraddittorio, cioè non ha dato voce al comune di Chioggia.
Come stanno le cose in realtà? Il padre della giovane ha dovuto chiudere l’impresa edile perché arrestato nel 2010 – con altre 11 persone – in un’operazione contro il traffico di cocaina con Spagna e Colombia; è stato in cella per 15 mesi e quindi ai domiciliari, essendo anche legato al clan dei Madonia di Gela, città di origine della famiglia emigrata in Veneto nel 2000. Il comune di Chioggia eroga alla famiglia un sussidio di 307 euro mensili dal 1° settembre 2012 e si è detto disponibile a rimborsare le spese di affitto per un certo periodo; tuttavia la moglie dell’arrestato ha sempre rifiutato chiedendo l’assegnazione di un alloggio popolare in deroga alla graduatoria, cioè scavalcando i 340 nuclei in attesa che ne avevano diritto avendo presentato regolare domanda.

Una storia drammatica. Che Servizio pubblico e il blog di Grillo hanno presentato in modo parziale e scorretto.

dimanche, octobre 13, 2013

L’Africa e la Corte penale internazionale: un rapporto ambiguo

L’Africa e la Corte penale internazionale: un rapporto ambiguo


Si è aperto oggi ad Addis Abeba il summit straordinario dell’Unione Africana dedicato a rivedere i rapporti con la Corte penale internazionale (Cpi).

È ormai da tempo che stiamo assistendo ad un drammatico cambiamento nelle relazioni tra i paesi del continente africano e la Corte dell’Aia. L’iniziale entusiasmo di molti paesi africani si è trasformato in crescente frustrazione, critiche serrate e, in tempi più recenti, ad una aperta battaglia contro l’operato della Corte. Ora l’Unione Africana minaccia addirittura dimissioni di massa, una prospettiva davvero tragica per la Cpi: basti pensare che dei 54 Stati dell’Unione Africana ben 34 hanno ratificato lo Statuto di Roma, il che rappresenta oltre un quarto del totale degli Stati membri della Corte (122 attualmente).
Ma quale è il motivo di tanto malcontento?
Detto brevemente, come le parole del ministro degli esteri etiope che ha aperto il summit di oggi: la Cpi sarebbe divenuta uno “strumento politico”.
Non a caso è il Kenya a guidare la campagna contro la Corte: due processi riguardanti la leadership politica keniota si trovano al momento in fase di dibattimento all’Aia. Il primo vede imputato l’attuale presidente Uhuru Kenyatta; il secondo, il suo vice William Ruto. Entrambi sono accusati di crimini contro l’umanità per avere giocato un ruolo decisivo nelle gravissime violenze post-elettorali avvenute in Kenya del 2007-2008 (omicidi, stupri e persecuzioni). I processi si celebrano all’Aia, sebbene il Kenya avesse fatto istanza per il trasferimento degli stessi sul proprio territorio (ufficialmente per facilitare la presenza degli imputati) e stanno avanzando a rilento e tra mille difficoltà. In particolare l’accusa si sta trovando a fronteggiare una vera e propria emergenza riguardo ai testimoni, molti dei quali si sono ritirati dopo essere stati pesantemente minacciati nel loro paese. La Procuratrice della Corte, Fatou Bensouda, lo scorso 11 marzo ha annunciato di avere deciso di chiudere il procedimento nei confronti del co-imputato del presidente Kenyatta, Francis Kirimi Muthauara, per sopravvenuta mancanza di prove, poiché i pochi testimoni sui quali si basava la tesi accusatoria, essendo minacciati, se non addirittura morti, non sono più in grado di testimoniare.
Il Kenya sta ovviamente facendo di tutto per bloccare i processi all’Aia, ma non è solo questo caso specifico a rendere i rapporti tra Stati africani e Corte così tesi.
È da tempo che i paesi africani, e non solo, lamentano un’eccessiva attenzione della Cpi nei confronti dell’Africa. Si parla ormai in modo ironico di Corte penale africana, la African Criminal Court, al posto della International Criminal Court.
Innegabilmente, a dieci anni dall’entrata in funzione della Corte, tutte e otto le situazioni oggetto d’indagine sono relative a paesi africani: Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Darfur (Sudan), Kenya, Libia, Costa d’Avorio e Mali.
Tra queste si trova anche il procedimento nei confronti del Presidente sudanese Omar Al-Bashir, nei confronti del quale pende un mandato di arresto dal febbraio del 2007 per crimini contro l’umanità e genocidio ma che non è mai stato arrestato perché la Corte non è riuscita ad assicurarsi la cooperazione degli Stati a tal fine. Quanto alle indagini in Uganda, Joseph Kony e gli altri leader del Lord’s Resistance Army, una milizia che si contrappone alle forze ugandesi in una sanguinosa guerra che va avanti da oltre venticinque anni, sono ufficialmente ricercati dalla Corte da ben otto anni. Nei loro confronti pendono mandati di arresto emessi a luglio del 2005 e che si dubita verranno mai eseguiti. Il procedimento nei confronti di Saif Gheddafi, il figlio dell’ex rais libico nei cui confronti pende un mandato di arresto dal giugno del 2011, è anch’esso bloccato a causa del rifiuto delle autorità libiche di procedere alla sua consegna all’Aia. Il governo libico è impegnato in un duro braccio di ferro con la Corte volendo procedere direttamente al processo di Gheddafi e altri, mentre la Corte ritiene non vi siano sufficienti garanzie per un processo a livello domestico.
Il fatto è che se, da un lato, la Corte ha indubbiamente una componente politica nel suo operato, specie a livello di selezione dei casi (e purtroppo si è mostrata fino ad oggi forte coi deboli e debole coi forti), gli Stati africani stessi hanno talvolta fatto un uso politico della Corte.
È vero che in due casi si è trattato di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – Darfur e Libia (entrambe, come si è detto, impantanate) – ma occorre ricordare che la maggior parte dei procedimenti sotto indagine all’Aia sono stati iniziati proprio da una denuncia degli Stati interessati, che hanno in questo modo attivato la giurisdizione della Corte chiedendone l’intervento. Perché i paesi africani hanno fatto questo? In molti casi per tirarsi fuori da situazioni altrimenti ingestibili a livello interno (come nel caso del Congo o dell’Uganda) o a seguito di un cambio di regime (come nel caso della Costa d’Avorio).
Il loro atteggiamento oggi appare tuttavia ambiguo. Il genuino interesse degli Stati africani ad una composizione per via giudiziaria delle loro problematiche interne è quanto meno dubbio.
In attesa di vedere cosa uscirà dal summit in corso, varie campagne sono state lanciate sui social network per fare pressione sui rappresentanti degli Stati africani a non boicottare la Corte penale internazionale: tra queste spicca l’appello lanciato da Desmond Tutu tramite una petizione di Avaaz.

Quel che è certo è che la Cpi è in forte bisogno di nuova credibilità e di maggiore consenso. L’auspicio è che, comunque vada, l’iniziativa dell’Unione Africana, serva alla Corte per mettere in discussione alcune delle politiche che, in particolare l’organo dell’accusa, ha seguito in questi dieci anni passati e che si sono rivelate devastanti in termini di credibilità di questa importante istituzione.

mardi, octobre 08, 2013

L'Italia? Il Paese più affidabile d'Europa se nel debito finiscono le pensioni. Il rebus del calcolo

L'Italia? Il Paese più affidabile d'Europa se nel debito finiscono le pensioni. Il rebus del calcolo
di Vito Lops08 ottobre 2013   ilsole24ore.it


Mentre gli Usa sono tecnicamente a rischio default (entro il 17 ottobre repubblicani e democratici dovranno decidere sull'aumento del detto al debito) torna alla ribalta il tema della sostenibilità del debito dei Paesi. Per l'Italia spesso si dice che il tallone d'achille sono quei 2000 miliardi di debito che, rapportati a un Pil calante (ha perso 8 punti dal 2008 ed è sceso sotto 1.600 miliardi) proiettano il rapporto debito/Pil intorno a quota 130%. Un parametro lontano da quanto previsto da Maastricht (i Paesi dovrebbero tendere al 60%) e dal Fiscal compact (che impone il pareggio di bilancio a partire dal 2015).
Resta il fatto che si tratta pur sempre di parametri e di calcoli che rischiano di non rispettare fedelmente e in modo ponderato le caratteristiche di un Paese. Se si prova a cambiare punto di vista si scopre che le cose possono essere profondamente diverse. Ce lo dice la stessa commissione europea nel Fiscal sustainability report 2012. Bruxelles ha elaborato un altro parametro, l'indicatore di sostenibilità S2. Non si ferma al calcolo dell'ammontare del debito ma tiene anche conto del flusso degli avanzi primari futuri (e l'Italia è maestra in fatto di avanzi primari dato che è da 10 anni che, non considerando gli interessi sul debito, è in avanzo), degli interessi attesi e delle spese legate alla demografia. In parole povere questo indice fa riferimento alla sostenibilità dei conti pubblici anche in relazione alle spese previste su pensioni e sanità. E quindi va un po' più in profondita passando dal debito esplicito a quello implicito (mettendo a budget i costi che verranno).
http://i.res.24o.it/images2010/SoleOnLine5/_Immagini/Oggetti_Correlati/Grafici_Statici/Finanza%20e%20Mercati/2013/10/indicatore-sostenibilita-S2--154x81.jpg?uuid=a85e2b88-3008-11e3-a05d-2438b6994a22
Quale è il risultato? L'Italia è il Paese fiscalmente più sostenibile nel lungo periodo fra tutti i Paesi dell'Unione europea (come si evince da questo grafico). «Solo l'Italia ha una posizione di bilancio iniziale sufficiente ad assorbire il previsto aumento dei costi correlati all'età della popolazione», si legge nel documento della Commissione. Questo «grazie agli sforzi di risanamento degli anni precedenti».

Il paradosso c'è tutto: la Commissione europea, nel momento in cui va più in profondità ed amplia il concetto di debito pubblico rispetto a quanto previsto dai trattati di Maastricht e seguenti, promuove l'Italia. Studi come questi stridono però con politiche di consolidamento fiscale richieste dalla stessa Europa in fasi di recessione, da cui è scaturito, last but non least, il recente aumento dell'Iva al 22%.

lundi, octobre 07, 2013

Decadenza, l'Annunziata difende Berlusconi: "Non va espulso dal Senato"



Decadenza, l'Annunziata difende Berlusconi: "Non va espulso dal Senato"
In un editoriale, la direttrice dell'Huffingtonpost si mette dalla parate del Cav: "Scusate se lo dico, ma non si tratta così un grande leader politico"
05/10/2013 libero-quoditiano.it



Lucia Annunziata sta con Silvio Berlusconi: "Un leader politico come lui non può essere umilitao in questo modo". La difesa d'ufficio arriva proprio da chi meno te lo aspetti. E l'Annunziata lo sa. Così nel suo editoriale sull'Huffingtonpost pro-Silvio dal titolo "Non infierirò su Silvio Berlusconi. Perché non sono una fascista", L'Annunziata esordisce mettendo le mani avanti: "So che molti di voi, forse la maggior parte, non sarà d'accordo con quello che sto per scrivere, ma tant'è". Poi inizia la difesa di Silvio: "Il fascista più fascista di tutti è a mio parere quella pulsione interiore che ci fa infierire sui nemici vinti. Credo di non avere bisogno di patenti per dimostrare da che parte sono stata in questi venti anni, ma davanti alla conclusione giudiziaria e politica di questo periodo non mi metterò fra chi affonda la lama dell'insulto, della soddisfazione, e ancor meno della volgarità,contro Silvio Berlusconi. Non trarrò piacere dalla condanna di nessuno".

"Non va espulso dal Parlamento" - Ma al netto della condanna in Cassazione, la difesa dell'Annunziata è sul fronte politico e soprattutto sul fronte decadenza dopo il voto favorevole della Giunta per le elezioni: "Non mi sento nemmeno gratificata dal fatto che un leader politico che ho sempre considerato nemico della nostra democrazia - per i suoi conflitti di interesse e per il modo con cui ha trasformato la politica immettendovi il peso del denaro - abbia fatto questa fine politica in un modo così infamante. La giustizia ha trionfato ma quando un leader politico fa questo tipo di fine non sta bene l'intero paese".

"Non sono fascista" - Poi il direttore dell'Huffingtonpost esce allo scoperto e sottolinea come sia sbagliato far fuori il Cav dal Parlamento: "Non infierirò sul destino di Berlusconi invece proprio perché non sono per nulla ottimista. Perché - ripeto - un paese i cui leader politici fanno questa fine (condannati per frode ed espulsi dai ranghi del senato) non è un paese che sta bene, comunque. Perché penso che il potere avuto da Silvio Berlusconi è un sintomo di qualcosa di sbagliato di cui tutti, cittadini e non solo politici, abbiamo una corresponsabilità - ed è guardare davvero dentro di noi e dentro questo periodo la via per uscire davvero da venti anni di Guerra civile fredda". Infine la confessione: "Ma soprattutto non infierirò su Silvio Berlusconi, perché non sono un maramaldo, non amo i bulli, non mi piacciono le feste sul corpo degli altri. Non sono una fascista, insomma". Peccato che per vent'anni l'Annunziata abbia "sparato" sul Cav spesso solo con le pallottole del pregiudizio, politico e personale...

samedi, octobre 05, 2013

La sinistra è innocente, purtroppo

La sinistra è innocente, purtroppo


Berlusconi è stato battuto dai democristiani, in nome dello status quo


  Va bene, Silvio Berlusconi è finito. E questo l’hanno detto o gridato più o meno tutti. Tutti l’abbiamo visto gonfio di dolore e di rassegnazione dichiarare la sua fiducia all’odiato governo. E la sinistra? La sinistra non l’abbiamo vista. Eppure avrebbe dovuto essere una protagonista degli ultimi giorni di Silvio. Avrebbe dovuto condizionarli, determinarli, almeno controllarli. E con la morte dell’arcinemico avrebbe dovuto acquistare spazio, visibilità, ruolo politico. Invece è scomparsa. E nella grande euforia per la fine dell’impero berlusconiano, nel susseguirsi di colpi di scena e sbigottimenti, nella disperazione di alcuni e nell’entusiasmo di altri nessuno finora se n’è accorto. Nessuno ha notato che non ha avuto alcun protagonismo nell’uccisione del suo grande avversario. Nessuno si è accorto che è rimasta silenziosa e defilata.
         Silvio Berlusconi non è stato battuto (alcuni dicono definitivamente, ma staremo a vedere) da coloro che sulla carta avrebbero dovuto essere i suoi maggiori nemici,gli oppositori della sua politica e delle sue proposte ma da una linea moderata e perbenista. Da coloro che non perdono occasione di inneggiare al rapporto corretto con le istituzioni (se poi non funzionano chi se frega), che vogliono una forte distinzione fra vita pubblica e vita privata (se poi in questa si commette qualche nefandezza, ancora chi se ne frega) che accomunano abilmente il cosiddetto bene del paese al loro rapporto con il potere. Silvio Berlusconi è stato battuto dalla affermazione di una cultura pervasiva e di un pensiero unico e dilagante le cui parole d’ordine sono stabilità e responsabilità, che certo hanno poco a che fare con lui, con la sua storia e il suo passato, ma – chiediamoci – quanto hanno a che fare con una proposta e una cultura di sinistra?
          Meno che niente. Il Cavaliere che aveva tanta paura del fantasma dei comunisti, che nelle sue fantasie e nella sua propaganda non erano mai morti, è stato fatto fuori invece da una risorta Democrazia cristiana. Da un fantasma che è tornato sia pure sotto spoglie diverse. Certo non è più una balena. Forse con i pesci vari che lo compongono si potrebbe fare un fritto misto. Ma appare guizzante e in forma . E’ proprio un caso che tutti o quasi i protagonisti della vicenda politica che ha portato alla sconfitta di Berlusconi provengano dalle file della Dc? Enrico Letta e Angelino Alfano. E poi Franceschini, Formigoni, Giovanardi. Certo c’è stato il soccorso di qualche ex socialista come Sacconi e Cicchitto. Proprio come ai bei tempi precedenti gli anni Novanta.
           Ma allora negli anni Novanta la sinistra c’era. Scombiccherata, pronta a mettere in azione una macchina da guerra senza accorgersi che era già a pezzi, sotto choc per il crollo del regime sovietico. Ma c’era. Oggi in tutte le sue componenti più meno moderate, più o meno estremiste, ha fatto fare ad altri, si è dileguata, si è nascosta. Ha evitato ogni parola, ogni discorso, ogni dichiarazione che potesse dare alla crisi del berlusconismo una connotazione che non fosse di moderatismo democristiano. Si è accodata alla parola d’ordine della stabilità che è diventata indistintamente di tutti coloro che volevano la resa berlusconiana. Trasformazione, innovazione, miglioramento, cambiamento, riforma, tutte quelle parole che dovrebbero far parte del suo vocabolario sono state prudentemente messe da parte. Sparite dal linguaggio della politica. Dimenticate. Berlusconi è stato battuto in nome dello status quo, del “meglio non muoversi”. Lui che voleva tornare al ’94 è stato ghermito da un mostro più antico, dall’immobilismo dei moderati. E la sinistra è stata soffocata con lui. Con una differenza: Berlusconi e i berlusconiani fino all’ultimo momento della battaglia sono stati capaci di usare l’arma della tattica, quella per cui si cercano alleanze, si fanno compromessi e se la sconfitta è inevitabile si cerca quella meno cocente. 
          La sinistra nel Pd, i vecchi Ds per intenderci, ai quali da un pezzo non si chiede una strategia, in queste ultime vicende hanno dimostrato di aver perduto anche la capacità di agire una tattica, di esercitare questa antica arma della cultura dei loro padri. Non hanno neppure fatto finta di esserci, di contare. Quieta non movere è stato il loro slogan, tutto fermo per non danneggiare un governo. O meglio l’apparenza di un governo. Perché si sa che quello effettivo non sta a palazzo Chigi.

mercredi, octobre 02, 2013

Al Cav processo sprint ma sui veri evasori non indagano neppure




Al Cav processo sprint ma sui veri evasori non indagano neppure


A Milano la Procura generale esautora i pm su sette fascicoli destinati all'archiviazione. Bacchettata al pool: non avete fatto il vostro lavoro

Luca Fazzo - Mer, 02/10/2013 - 08:33      ilgiornale.it

La Procura generale ha riflettuto a lungo, prima di prendere di petto la questione: consapevole di muoversi su un terreno minato, dove è forte il rischio di dare ragione nei fatti a chi accusa i pm milanesi di usare due pesi, due misure, due velocità quando si tratta di Berlusconi o di imputati qualunque.


Ma alla fine il pg Manlio Minale e il suo vice, l'avvocato generale Laura Bertolè Viale (che pure ha sostenuto l'accusa nel processo al Cavaliere per i diritti tv) si sono resi conto di non avere altra scelta. Il codice penale prevede che, quando una Procura non fa il suo dovere, tocchi alla Procura generale intervenire per rimettere le cose a posto. E in questi sette casi c'era un dato costante: per sette volte un giudice preliminare, Vincenzo Salemme, aveva restituito al mittente le richieste di archiviazione firmate dal capo del pool reati finanziari, il procuratore aggiunto Francesco Greco. In quei sette casi, sosteneva Salemme, le indagini non erano state nemmeno fatte.
Come è stato possibile? In Procura si fa presente che sette inchieste sono poco più dell'uno per cento delle seimila notizie di reato che ogni anno vengono gestite dal pool reati finanziari; che le somme recuperate in questi anni grazie alle indagini sono straordinariamente ingenti; che la grande maggioranza delle inchieste viene portata a conclusione in meno di un anno; e che le richieste di archiviazione, spesso successive al risarcimento del danno, vengono regolarmente accolte dai giudici preliminari. Da tutti, tranne che da uno: il dottor Salemme, che bocciando le archiviazioni chieste dalla Procura ha innescato il caso. Così sono scattate le controinchieste. Tutte affidate a Carmen Manfredda, sostituto procuratore generale, un mastino dell'epoca del terrorismo e dei sequestri. Che è partita a testa bassa, incaricando la polizia giudiziaria di fare le indagini che i suoi colleghi del piano di sopra avevano ritenuto inutili.
«Non sono casi di insabbiamento ma semplici differenze di valutazione tra noi e un singolo giudice»: questa è, in sostanza, la linea su cui si attesta la linea della Procura della Repubblica ieri quando, dopo settimane di voci sempre più insistenti, la notizia prende forma compiuta e trova conferme. La sostanza qual è? Francesco Greco ha un curriculum - da Enimont a Antonveneta passando per Parmalat - che rende difficile considerarlo un insabbiatore. Ma che non a tutte le indagini a Milano si dedichino le risorse e la convinzione con cui si indaga su Berlusconi è un sospetto che già prima d'oggi erano in diversi a nutrire. E l'iniziativa della Procura generale suona come una autorevole conferma.

mardi, octobre 01, 2013

Un'intervista di Giovanni Minoli a Steve Pieczenik su Radio 24 riapre il caso Moro

Un'intervista di Giovanni Minoli a Steve Pieczenik su Radio 24 riapre il caso Moro



Élite locali e clientelismo selvaggio. Il (brutto) volto del federalismo

Élite locali e clientelismo selvaggio.  Il (brutto) volto del federalismo
Un'immagine dell'Italia attraverso le intercettazioni dell'ex governatrice Maria Rita Lorenzetti.
Ernesto Galli Della Loggia      Corriere.it  20131001
Che cosa sono diventate, all'ombra del federalismo dispiegato, le classi politiche locali che governano le regioni italiane? Che tipo di donne e uomini sono, qual è la loro carriera? E che cos'è il potere locale, il microcosmo delle sue relazioni? Uno squarcio dietro le quinte su tutto questo gli italiani lo hanno potuto avere, nei giorni scorsi grazie alle intercettazioni disposte a carico di Maria Rita Lorenzetti, ora imputata dalla Procura di Firenze di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e abuso d'ufficio nella sua qualità di presidente della Italferr, una società delle Ferrovie dello Stato. Carica ottenuta dalla Lorenzetti non già per qualche sua competenza o capacità particolare, ma semplicemente perché membro dell'alta nomenclatura del Partito democratico - a 22 anni assessore a Foligno, a 31 sindaco, a 35 deputata per quattro legislature, presidente della commissione per i Lavori pubblici della Camera, sottosegretaria e infine, dal 2000 al 2010, governatrice dell'Umbria - per giunta notoriamente sotto l'alto patronato di un Lord Protettore del calibro di Massimo D'Alema, al quale, pare, neppure il coriaceo ingegner Moretti se la sente di negare nulla durante le cene da Vissani - e pertanto avente diritto vita natural durante a un appannaggio della lottizzazione.

La spregiudicatezza, la consuetudine con l'arbitrio, la ricerca di una familiarità compiacente con chi è un gradino più su di lei (per esempio la senatrice Finocchiaro, ahimè sua grande amica, si direbbe) e viceversa il disprezzo arrogante per chi non si piega («stronzo», «terrorista», «bastardo», «mascalzone», sono gli epiteti di cui gratifica l'architetto della Regione Toscana, Fabio Zita, colpevole di opporsi alle sue presunte malefatte, ma che il solerte governatore della stessa Regione, Enrico Rossi, anche lui del Pd, provvederà obbedientemente a rimuovere subito): molte di queste cose sono agli atti e su di esse giudicherà la magistratura.
Ma è nell'Umbria natìa - dove ha governato guadagnandosi il titolo di «zarina» - che a suo modo la Lorenzetti continua a dare il meglio di sé. È lì che debitamente intercettata ci mostra che cosa è il potere locale e, diciamo pure, che cosa è l'Italia delle cento città e delle sue élite urbane. Sul versante del potere politico, l'impressione è quella di un'oligarchia plebea assurta agli agi e alle opportunità del potere senza avere la minima educazione o cultura necessarie per non restarne ebbra. Sul versante dei notabili locali, si assiste invece allo spettacolo di un'accondiscendenza servile verso la politica. S'indovina in complesso una società legata a filo doppio alla politica locale in un intreccio e uno scambio continuo, pronta a dire sempre di sì, sicura di ottenere domani in cambio qualcosa. L'occasione della telefonata è miserabile ma significativa: una raccomandazione che la Lorenzetti chiede al rettore dell'Università (per il tramite di una professoressa sua ex assessore, naturalmente del Pd anche lei): nientedimeno che per far promuovere a un esame di medicina uno studente figlio di un «compagno». Come sempre l'elemento più rivelatore è il linguaggio. La prof alla Lorenzetti: «Ho capito, ha bisogno di non essere fermato ingiustamente, diciamo così per qualche finezza accademica» (chi parla, si ricordi, è una docente universitaria...); Lorenzetti: «Ecco hai capito perfettamente Gaia mia. Noi siamo concrete e pratiche senza tante seghe»; la prof (a raccomandazione inoltrata): «Il rettore si è prosternato perché gli ho detto da chi viene: a disposizione!» (ride); la Lorenzetti (a cose fatte): «Sei grande»; la prof: «Come si dice, a noi chi ci ammazza?»; l'altra, più tardi: «Grazie pischella mia. Noi della vecchia guardia siamo sempre dalla parte del più debole» (leggi: di chi ha in tasca la tessera del suo partito).
In quanti casi, mi chiedo, il localismo italiano è questa roba qui? Certo, ogni luogo è diverso e ogni persona fa storia a sé. Certo, l'Umbria è una piccola regione che non ha mai conosciuto altro governo che quello della sinistra: dominata da sessant'anni da un blocco egemonico al cui centro c'è un vasto circuito massonico che fa da ponte e integra a meraviglia il ferreo potere amministrativo-clientelare del Pd da un lato, e gli interessi del notabilato economico-professionale dall'altro. Risultandone la virtuale assenza di qualunque opposizione e una straordinaria situazione d'immobilismo sociale e di stagnazione culturale. L'Umbria, dicevo, rappresenta queste specificità, ma pare di capire che anche in altre vaste parti della Penisola la qualità delle élite politiche locali stia conoscendo da tempo un progressivo scadimento, dando luogo ad altrettante «belle squadre», all'opera, più o meno, sul modello che suscita il compiacimento della Lorenzetti.
Parecchi fattori spingono in questa direzione negativa: la disintegrazione degli apparati centrali dei partiti insieme al venir meno di ogni loro reale funzione di indirizzo e di controllo: sicché quel che resta dei partiti è ormai solo una serie di autonomi potentati locali; il rafforzamento che ciò ha prodotto dell'antica, inestirpabile tradizione oligarchica a base di famiglie, clan, conventicole, vera anima e peste della dimensione locale italiana, generalmente sempre peggiore di quella nazionale; la sempre maggiore diserzione dalla cosa pubblica, locale in specie, di personalità indipendenti non impegnate a costruirsi una propria, personale, carriera politica; e infine l'aumento di competenze e di risorse piovute a livello locale per effetto dell'allargamento dei poteri specie dell'ente regionale, le quali, soprattutto in tempo di crisi, hanno accresciuto di molto l'influenza di quest'ultimo. Nel nostro Paese, in un gran numero di casi è fatto di queste cose qui, consiste in questo ormai il tanto decantato federalismo: è l'ennesimo capitolo di quell'autentico cimitero delle illusioni che sta diventando l'Italia.