mardi, novembre 23, 2004

Se Tremonti capisse che far politica non è come vincere una cattedra

Se Tremonti capisse che far politica non è come vincere una cattedra
Una notevole carriera accademica. Al lavoro con Formica. La rivolta antifiscale. Due volte ministro
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Milano. Giulio Tremonti è un accademico. Dopo avere studiato Giurisprudenza, allievo di uno dei selezionatissimi collegi pavesi, ha iniziato una carriera che lo ha portato giovanissimo alla cattedra di Scienze delle Finanze. Un imprenditore ricorda come il Tremonti studioso di Finanza sia uno dei cervelli più innovativi su scala europea. Un collega universitario osserva, invece, come proprio la formazione universitaria segni le caratteristiche del suo fare politica: l’orgoglio nella propria intelligenza e lo stile da rissa di facoltà che sostituisce le complicate mediazioni della politica.
Eppure alle cose di governo Tremonti è abituato. All’inizio degli anni 80 affiancò Rino Formica, ministro delle Finanze, sperimentando sin d’allora un’inesauribile capacità inventiva. Poi dalle frequentazioni con Franco Reviglio, nacque anche una consuetudine con l’Eni. E grazie alle connessioni petrolifere costituì un quartetto di amici che ha lasciato qualche segno nelle vicende economiche e politiche. I quattro moschettieri erano, con Tremonti, Carlo Scognamiglio, Alberto Meomartini, Domenico Siniscalco. Con la crisi degli anni 90 Tremonti si lancia nella “rivolta fiscale” e si avvicina agli ambienti del Patto Segni, con l’obiettivo di costruire un asse con la Lega lombarda. Arriva quasi all’obiettivo, quando Umberto Bossi sconfessa l’accordo firmato da Roberto Maroni. Tremonti è sconcertato, si presenta comunque alla Camera con il Patto Segni, che lui dà per vincente. Invece la maggioranza va a Silvio Berlusconi e Tremonti diventa ministro delle Finanze. In pochi mesi riesce a varare un piano di defiscalizzazione degli investimenti che rilancia l’economia e prepara un’eccezionale proposta di riforma delle tasse che rimarrà inattuata. All’opposizione svolge un ruolo prezioso nella ricucitura tra Lega e Forza Italia, contribuisce così alla vittoria elettorale del 2001. Diventato ministro dell’Economia, Tremonti è di fatto il ministro più potente del governo. Inizia il suo incarico denunciando il buco del centrosinistra, senza però indicare un piano di risanamento: confida nella ripresa dell’economia, che invece è ulteriormente scoraggiata dall’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. Nonostante l’emergenza mantiene la sua linea di rapporti prudenti sia con il Quirinale sia con la Commissione europea, preferendo affrontare le scadenze urgenti con previsioni rosee (avallate da Bankitalia) e con geniali invenzioni (dallo scudo fiscale alle cartolarizzazioni), presto imitate in tutta Europa.

Lo scontro con le fondazioni bancarie
Quando dall’impostazione della politica economica passa a questioni concrete dell’amministrazione, apre uno scontro con tutte le Fondazioni bancarie. Il suo obiettivo è la Fondazione Cariplo. Investe invece tutto il sistema finendo per scontrarsi con il governatore di Bankitalia, anche perché nel frattempo si apre la guerra su Mediobanca. Mentre continua con geniali espedienti finanziari a evitare che gli italiani siano tartassati nonostante la stagnazione, Tremonti accumula nemici, innanzi tutto tra gli alleati. E non è più in grado d’impostare una politica basata su tagli della spesa e tagli fiscali. S’inventa così il neocolbertismo e la lotta alle importazioni cinesi, logorando così la sua credibilità. Nel frattempo la gestione del ministero è impeccabile: ottimo lo staff, ottime le nomine nelle società controllate dal Tesoro. In campo europeo acquisisce un prestigio personale e aiuta a risolvere in modo forse un po’ troppo furbo le crisi legate ai deficit francese e tedesco.
Con le crisi Cirio e Parmalat, Tremonti è convinto che si aprirà un nuovo scenario e che si dimetteranno Cesare Geronzi e Antonio Fazio. Così conquista interlocutori anche a sinistra ma continua a logorare i rapporti con le forze politiche con cui dovrebbe governare. Trascura il fondamentale insegnamento machiavelliano che gli avversari si deve “spengerli o vezzeggiarli”. La sua linea è “minacciarli e tenerli in vita”. In una notte del luglio 2004 è costretto alle dimissioni. Che cosa farà ora? Conta sulla Lega: ma furono proprio Maroni e Calderoli che chiusero gli occhi quando Fini ottenne la sua testa. E’ utilizzato da tutti i cinici per logorare Berlusconi, ma ben difficilmente costruirà qualcosa in alleanza con costoro. Parafrasando Giuseppe Stalin, non si vedono le divisioni di cui Tremonti può disporre. Riflettendo sulle sue esperienze dovrebbe ripassare la lezione sulle alleanze necessarie per fare politica (e non per vincere una cattedra), esaminare in concreto quelle per lui possibili e perseguirle senza rancore, sentimento che in politica porta alla sicura sconfitta.

Silvio Berlusconi senza vie di mezzo IL FOGLIO 23/11/2004

Silvio Berlusconi senza vie di mezzo IL FOGLIO 23/11/2004

Giù le tasse, non è una promessa ma una strategia e un mandato del popolo
Un programma sottoscritto dai leader della Cdl o lo si attua o la parola torna al paese
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Il mio partito ed io non siamo disposti a voltafaccia
Gentile direttore - Questo che la prego di ospitare non è un articolo, è quasi un manifesto. E’ una postilla al contratto con gli italiani, ma decisiva perché ne riassume il significato e il valore politico ed etico. Infatti quel contratto non era un espediente elettorale, secondo la versione banale che ne danno i soliti increduli e qualche praticone della politica politicante. Quel contratto esprimeva il senso stesso del mio ingresso nella politica italiana, dieci anni fa. Era l’unica legittima giustificazione, dopo sette anni di inganni seguiti al ribaltone del ’94, della perseveranza e perfino dell’ostinazione con cui un imprenditore aveva cambiato vita e mestiere per compiere una “missione politica” nel senso più alto e necessario di questa espressione.
Il cuore del contratto con gli italiani è che questo paese può fare meglio, può diventare più libero e più responsabile. E che questa nuova libertà responsabile è possibile ottenerla solo ed esclusivamente riducendo la dipendenza del cittadino, e in primo luogo del lavoratore, del contribuente, dallo Stato, che è fatto per servirlo e non per esserne servito. La riduzione del carico fiscale sul reddito individuale e sull’impresa grande e piccola non è né un regalo né una promessa: è bensì una strategia di cambiamento del nostro modo di vita, è un nuovo orizzonte, è una nuova frontiera della politica. Il cuore del cuore del contratto era la chiara e libera volontà, affermata testualmente e chiaramente, di vincolare alla realizzazione di questo programma la sorte del mio impegno personale e di quello del partito di maggioranza relativa che ho avuto l’onore di fondare dieci anni fa. Se le imposte si riducono in modo consistente e visibile, la corsa continua. Altrimenti, la parola deve tornare agli italiani perché siano loro a decidere del proprio destino.

Ridimensionare la spesa pubblica
Lo stolto dice che sono prigioniero delle promesse elettorali. Non è così. Io sono volontariamente prigioniero solo della mia idea di libertà, in economia e in politica. Io sono convinto che l’azione di governo deve fondarsi su un mandato, e che il mandato degli elettori sovrani è il fondamento, è la legittimazione dell’esistenza di un governo e della sua effettiva capacità di agire. Il resto è professionismo politico senza contenuto e senza legittimità democratica. Se sulle nostre spalle pesa uno dei debiti di Stato più colossali del mondo, la colpa è di governi che hanno governato senza tenere in alcun conto il mandato elettorale. Se la benedetta introduzione della moneta unica europea ha fino ad ora prodotto un risultato che è l’esatto contrario dello scopo per cui l’euro nacque, e cioè un’economia asfittica e una crescita zoppicante sotto il fardello del vincolismo “stupido” invece che una liberazione delle grandi energie dell’Unione, lo si deve di nuovo al clamoroso abbaglio di una politica senza mandato. Le burocrazie e i partiti sono l’ossatura costituzionale dello Stato e i necessari protagonisti della vita pubblica, ma il protagonista più grande e indiscusso è il cittadino elettore, è lui il padrone costituzionale delle decisioni che lo riguardano.
La riduzione strutturale delle imposte, combinata con un intelligente ridimensionamento e cambiamento qualitativo della spesa pubblica e con un duttile ricorso al deficit di bilancio, è la leva che ha permesso i più grandi risultati nella storia dell’economia occidentale. Senza sviluppo non c’è risanamento, ma stagnazione. E senza maggiore libertà economica, lo sviluppo non arriverà mai. Attivare la leva fiscale è la politica di questo governo, concordata con la maggioranza che lo ha eletto e presentata nella massima chiarezza agli italiani e sottoscritta con parole inequivoche dai leader e dai candidati dei partiti della coalizione di governo. Impossibile anche solo pensare che a questo programma si possa rinunciare, aggiustando in qualche modo le cose a seconda di nuove convenienze e rinnegando un esplicito mandato con argomenti contingenti e di facciata. Il mio partito ed io non siamo a disposizione per questo voltafaccia. Il presidente del Consiglio non è a disposizione per questo rovesciamento del senso stesso di una missione di cambiamento e di sviluppo del paese.
Sono orgoglioso della stabilità assicurata all’Italia. Dei progressi nel campo dell’occupazione e del mercato del lavoro. Della nostra capacità di introdurre riforme decisive nei campi dell’educazione, del vivere civile, del sistema pensionistico, dell’organizzazione federale dello Stato. Sono fiero della severità con cui abbiamo tenuto in ordine i conti pubblici in un tempo di stagnazione e sotto gli effetti della guerra contro il terrorismo all’indomani dell’11 settembre. La copertura delle riduzioni fiscali c’è anche in virtù di questa azione responsabile di politica economica.
Sono convinto che l’Italia abbia speso nel modo migliore la sua influenza nel mondo per espandere la democrazia contro le tentazioni neototalitarie coltivate dai fanatici della guerra santa. So che con la firma a Roma del nuovo Trattato costituzionale l’Europa ha fatto un passo avanti molto significativo sul piano politico, e sono impegnato alla più solerte ratifica di questo passo avanti. Abbiamo fatto tutto quel che dovevamo per integrare e rilanciare sul piano mondiale le due grandi tradizioni politiche italiane, quella atlantica e quella europeista. Ma non sono per nulla soddisfatto dell’evidente povertà dei tassi di crescita delle economie europee e di quella italiana, specie se comparate all’energia mostrata dall’economia americana, rilanciata dal più consistente taglio fiscale della storia di quel paese. Non sono per niente soddisfatto del tasso troppo basso di innovazione, di ricerca, di investimento e consumo delle economie europee e della nostra.
Senza una radicale immissione di libertà e di responsabilità, senza un appello e una scossa alla società, ai cittadini e alle imprese, il rischio da tutti percepito è quello di un declino strategico. Una costante della storia dice che meno i popoli sono liberi, meno sono ricchi. E che la prosperità vera è un modo di vita dignitoso per tutti, in cui a ciascuno sia lasciata una quota di responsabilità, pari alla sua libertà, per crescere e competere con gli altri. La solidarietà sociale e le regole pubbliche, elementi indispensabili in ogni economia di mercato, possono e devono correggere gli squilibri, ma non devono mai diventare una filosofia della rinuncia, una limitazione delle libertà individuali e imprenditoriali, una filosofia della miseria.
Spero e credo che sia possibile usare i diciotto mesi che ci separano dalla fine della legislatura per andare fino in fondo. In Europa è fortissima la spinta a rivedere gli aspetti di vincolismo rigido del Trattato di Maastricht, quei fattori perversi che hanno incrementato il valore della nostra moneta oltre il necessario e artificialmente penalizzato la competitività delle nostre industrie e dei nostri servizi. Il nostro modello produttivo e di consumo deve tornare a credere in un orizzonte economico più libero e competitivo. Chi produce reddito individuale e profitto d’impresa deve tornare a credere nella possibilità di spenderlo e di investirlo in piena autonomia e indipendenza da uno Stato mangiatutto.
E’ per questo che sono entrato in politica. E’ per questo che ho formato una coalizione di governo. E’ per questo che ho firmato un contratto con gli italiani a nome di questa coalizione. E’ per questo che disponiamo di una maggioranza elettorale chiara e stabile nel paese e in Parlamento. E’ per questo che ho detto e confermo, senza arroganza, ma anche senza cedere a quello spirito rinunciatario che è il male oscuro della politica italiana: o si attua il programma fino in fondo oppure la missione è finita e la parola torna al paese.
Silvio Berlusconi

(23/11/2004)

America e l'aborto IL FOGLIO 23/11/2004

America e l’aborto IL FOGLIO 23/11/2004

Bush si adegua alla legge 194 eppure in Italia è accusato di “umiliare il corpo femminile”
Milano. L’America è pronta a vietare l’aborto e, come ha scritto Ritanna Armeni su Liberazione, a “umiliare il corpo femminile”? Leggendo i giornali italiani sembra proprio di sì. La destra religiosa avrebbe chiesto il conto a George W. Bush, il quale ora è pronto a ripagarla rendendo illegale il diritto di scelta della donna. La caricatura è evidente e non tiene conto che rendere illegale l’aborto è difficilissimo, se non impossibile.
In America non c’è una legge sull’aborto, esiste dal 1973 una sentenza della Corte Suprema, la “Roe contro Wade”, che ha liberalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza. L’aborto non è regolamentato come in Italia, ma libero sempre e comunque. La destra americana non è mai riuscita a ribaltare la sentenza, nonostante la Corte sia a maggioranza conservatrice. Repubblica ha scritto che Bush vuole nominare giudici “di provata fede antiabortista”, ma è noto come il presidente abbia sempre detto, anche nei dibattiti, che non sceglierà i giudici supremi facendogli un test sull’aborto. E’ stato John Kerry, invece, a dire che l’aborto sarebbe stato decisivo per le sue nomine. La strada sarebbe difficoltosa anche se non si volesse credere a Bush, anche se riuscisse a nominare tre nuovi giudici antiabortisti. Il Senato dovrebbe confermarli, anche con il voto dei democratici; poi i giudici dovrebbero cancellare la “Roe contro Wade”. Ma anche in questo caso estremo, l’aborto non diventerebbe illegale, sarebbe rimandato alla legislazione dei singoli Stati sovrani.
Sì è detto, anche, che la prova della presa di potere degli evangelici si può rintracciare nell’opposizione alla nomina di Arlen Specter alla presidenza della Commissione Giustizia del Senato. Specter è un repubblicano favorevole all’aborto, come molti altri nel partito (Giuliani, Schwarzenegger, cioè le star che alla Convention hanno oscurato la destra religiosa). Quella poltrona è fondamentale per la procedura di conferma dei nuovi giudici. Gli antiabortisti hanno chiesto di bloccare la nomina di Specter, ma i repubblicani lo hanno eletto regolarmente. Nel frattempo sono stati i democratici a scegliersi come leader al Senato, Harry Reid, cioè un senatore contrario all’aborto.
Spuntata la prima prova del complotto degli evangelici, eccone pronta un’altra: la disposizione nella legge di bilancio che impedisce alle istituzioni che finanziano gli ospedali di forzare le strutture sanitarie a fornire i servizi di aborto. Scandalo, in Italia. Ma non si sono accorti che, il giorno dopo, i democratici hanno deciso di non fare ostruzionismo, dopo aver ottenuto la promessa di discutere una proposta di legge contro il provvedimento. Nei primi quattro anni di Bush gli unici interventi riguardanti l’aborto sono stati il riconoscimento come reato federale del danneggiamento del feto in caso di aggressione a donne incinte e il divieto della “nascita parziale” o “aborto tardivo”, brutale pratica vietata in Italia dalla legge 194.

(23/11/2004)

vendredi, novembre 12, 2004

Perché Berlusconi perde Il Foglio 12/11/2004

Come e perché Berlusconi ha perduto la battaglia delle tasse senza mai davvero combatterla
Il leader che era partito con il sogno liberale e si è arreso alla gestione dell’esistente
Roma. L’autodifesa del Cav. sulle tasse si è tenuta per una forma di nemesi al comando generale della guardia di finanza in occasione del 230° anniversario del corpo. Il Cav. ha usato i suoi argomenti: la riforma fiscale è fallita per le scarse risorse a disposizione, “a causa della gestione avventurosa della spesa pubblica fatta in passato”; poi ha rilanciato: “Se lo stato ti chiede più di un terzo di quello che guadagni hai la sensazione di essere vittima di un’ingiustizia”. Infine con quella berlusconiana eccentricità, che ne fa comunque un fuoriclasse, davanti ai finanzieri ha aggiunto: “Se lo stato chiede più di un terzo, il contribuente si sente autorizzato a trovare sistemi elusivi o evasivi che non lo fanno sentire colpevole”. Un passaggio con cui ha cercato di rimettersi in sintonia con l’opinione pubblica, dopo la malinconica sconfitta della giornata precedente. Il Cav. di mercoledì sera immalinconiva: “Avrei osato di più, ma non ho il 51 per cento dei consensi, e queste sono le mie truppe”, aveva detto. Eppure nessun leader italiano democraticamente eletto aveva mai contato su tante truppe, e per di più la forza politica di Silvio Berlusconi non era stata la truppa, ma l’entusiasmo rivoluzionario. L’abbondanza di truppa ne era stata la conseguenza. Immalinconiva il Cav., perché la decisione maturata mercoledì era la fine di una stagione: riduzione delle tasse sui redditi rinviate al 2006 (a tempo scaduto, ne sentiremo gli effetti sulla denuncia dei redditi 2007); in cambio via libera alle richieste concertative dei tre sindacati degli imprenditori – guidati dalla zazzeruta Confindustria di Luca di Montezemolo – e alle rivendicazioni postdemocristiane degli onorevoli Gianni Alemanno e Marco Follini. Qualcuno dice che era inevitabile. Ecco Tito Boeri, professore di economia alla Bocconi, animatore del sito lavoce.info: “Era una decisione obbligata. Con quella situazione finanziaria, non si poteva fare altrimenti. E’ stata una scelta di realismo”. Ma non era il realismo la posta iniziale con cui il Cav. si era seduto al tavolo della politica dieci anni fa. Berlusconi aveva vinto le elezioni del 1994 e poi quelle del 2001 con una carica eversiva di liberismo temperato da padano buonsenso. E oggi sono proprio i liberisti i più immalinconiti. Dice Alberto Mingardi, direttore della fondazione Bruno Leoni: “La fine del berlusconismo era già avvenuta. Mercoledì, però, abbiamo assistito al funerale solenne. E’ vero che il programma di governo del centrodestra era articolato su cinque punti, ma la riduzione della pressione fiscale era la cosa più importante, quella su cui Berlusconi aveva costruito il suo consenso”. Gli uomini del presidente cercano di attenuare l’effetto della ritirata. “Non è detto che tutto finisca qui – dice Luigi Casero, responsabile economico di Forza Italia – E’ solo un rinvio al 2006. La situazione economica questo ci consentiva, un intervento complessivo di 4 o 5 miliardi e la coalizione ha spinto sull’Irap”. Per il Cav. il problema oggi è capire quanto del suo ottimismo resti in circolazione. Questo spregiudicato Ronald Reagan brianzolo ha ancora un credito rivoluzionario? In dieci anni Berlusconi ha completamente ribaltato quasi tutte le nostre abitudini politiche e ha dato un ritmo alla vita pubblica nazionale che prima non aveva. Ha reso possibile la riforma del sistema politico in senso maggioritario, tenendo insieme tre o quattro anime diverse della costituenda destra italiana e costringendo il fronte opposto a fare lo stesso; ha realizzato una formidabile rivoluzione del linguaggio politico che si è spinta fino al limite di soluzioni spesso incomprensibili per lo snobismo politichese corrente, ma incredibilmente efficaci; in politica estera ha dato un peso nuovo al paese, lo ha sottratto alla sudditanza psicologica all’asse franco–tedesco e lo ha spostato verso un sistema di rapporti più congeniale ai cambiamenti in atto nel mondo. Dice Mingardi: “Ha fatto un’altra cosa per la quale bisogna essergli grati. Anche se domani scomparisse in una nuovola di fumo, è soprattutto grazie a lui se il dibattito politico si è enormemente ampliato: tornando al tema della sconfitta di due giorni fa, è grazie a lui che oggi in Italia è possibile parlare di riduzione delle tasse senza essere presi per matti. Prima di Berlusconi non esisteva un diritto di cittadinanza per questi argomenti”. Ma Berlusconi è stato anche l’uomo che da un certo momento in poi ha attenuato la sua carica. Che cosa gli rimproverano gli appassionati di com’era una volta? In politica economica ha consentito che i suoi ministri galleggiassero, ha abbandonato la battaglia sull’alleggerimento dei vincoli di bilancio imposti dalle regole europee. (D’altra parte, anche in politica estera ha abbassato un po’ la guardia, rendendosi disponibile a condividere con il Quirinale una attitudine di rapporti che non perdesse di vista una più tradizionale diplomazia internazionale). Sulle questioni sociali si è fatto intrappolare da una visione solidarista portata da cattolici, aennisti, forze sindacali di complemento che cercano di dare una risposta di maniera ai problemi del paese. Nell’assestamento dei rapporti di forza nel sistema politico, finanziario e industriale, è sembrato abdicare al suo ruolo di outsider preferendo una specie di integrazione che molti suoi sostenitori vorrebbero scoraggiare: pensano che oggi Berlusconi faccia parte del sistema. Dice Mingardi: “E’ facile individuare il primo errore. Ha vanificato il suo momento d’oro nei primi cento giorni. Era allora che poteva fare tutto. Invece è sembrato concentrarsi su una scaletta il cui ordine di priorità non era l’economia, ma quelle difficoltà personali che riteneva gli fossero d’ostacolo per ben governare. Ma è da lì che è cominciata la lenta agonia del suo governo”. Troppi annunci Casero non condivide questa analisi: “Durante i cento giorni si poteva accelerare – ammette – ma ricordiamoci che subito è venuto fuori il conto delle spese elettorali ereditato dal governo Amato, e poi è arrivato l’11 settembre”. L’11 settembre è una tappa decisiva nella storia del secondo gabinetto del Cav. La prima occasione perduta. Spiega Boeri: “Uno degli errori fatti dal governo è stato insistere su annunci che avevano come obiettivo incoraggiare psicologicamente l’opinione pubblica, ma che hanno ottenuto il risultato contrario. Non si può dire che le cose vanno bene, se la gente è in grado di misurare autonomamente un peggioramento della vita quotidiana. Non è solo un errore politico, ma anche un errore in politica economica, perché quegli annunci hanno generato incertezza”. Altra occasione perduta, articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Due anni di scontro con il sindacato su una questione poi abbandonata. Mingardi: “La verità è che Berlusconi sul terreno economico ha giocato solo battaglie che ha perduto”. Replica Casero: “L’articolo 18 non era una battaglia sua, e la battaglia sulle tasse è più difficile di quanto sembra. Non è in gioco solo la riduzione del carico fiscale, ma la diminuzione della quantità di ricchezza che lo stato deve ridistribuire. E’ una battaglia culturale: tagliare le tasse vuol dire prima o poi tagliare la spesa. Tre mesi di discussione ci hanno insegnato che non c’è solo un problema di rappresentanza politica (dove e quanto tagliare), ma una diffidenza ideologica nei confronti della riduzione del potere dello stato”. “Ma anche questo – osserva Boeri – forse sarebbe stato preferibile dirlo apertamente”. Certamente dunque, molti errori e qualche duro colpo subìto (come questo sulle tasse), ma non bisogna sottovalutare la capacità di reazione del Cav. Ieri con i finanzieri non è stato capace di risparmiarsi una battuta del suo repertorio allegro, felicitandosi per essere stato lui a fare una visita a casa loro e non il contrario.