dimanche, janvier 30, 2011

SENZA BERLUSCONI? SI PUO' VIVERE, MA NON PROVIAMOCI

Il Giornale - SENZA BERLUSCONI?
SI PUO' VIVERE,
MA NON PROVIAMOCI - n. 26 del 30-01-2011

SENZA BERLUSCONI? SI PUO' VIVERE, MA NON PROVIAMOCI

di Giuliano Ferrara  ilgiornale.it   20110130

Oggi inizia la collaborazione di Giuliano Ferrara con il nostro giornale. Il primo editoriale: "Siamo tutti un po' in mutande, ma il Cav ha ancora una risorsa che gli altri non hanno: il consenso dei cittadini"
La destra può fare a meno di Berlusconi. Per quanto amico della nipote, il Cav non è Mubarak. Mi spiego. I nemici più accaniti del Cav godono, e si capisce perché, nel diffondere l’idea che dopo di lui sarà il diluvio, tutto si sfascerà, di questi anni non resterà pietra su pietra. È vero, come dice Luciano Violante, che mentre Craxi era figlio del sistema dei partiti firmatario della Costituzione del 1948, Berlusconi è il padre del sistema maggioritario nato nel 1994, del suo concreto modo di funzionare, della nuova Costituzione materiale in base alla quale oggi in Italia gli elettori scelgono il governo e chi lo guida, e hanno un rapporto diretto di mandato con i loro capi.
Però questo non vuol dire che il giocoliere galante di Arcore sia un caudillo sudamericano nelle mani di una plebe adorante e vociante, uno incapace di formare una classe dirigente se non di plastica. Le rancorose oligarchie di un certo giro mondano puntano su questa rappresentazione della realtà perché, se Berlusconi fosse soltanto un simbolo irrazionale, un idolo, invece che un uomo di Stato un po’ particolare, abbatterlo alla fine sarebbe più facile, specie con l’aiuto delle Procure militanti e dei media d’assalto. Una volta eliminato il simbolo, il nuovo potere ingrasserebbe nella desertificazione della destra italiana. Parlo di una destra riformatrice, antifiscale, antistatalista, popolare e liberale, ché la destra immobilista e illiberale è ben radicata nella foresta pietrificata della sinistra.
Tolto Berlusconi, in un modo o nell’altro, Letta, Tremonti, Alfano, la Gelmini, Maroni, e molti altri potrebbero benissimo formare una squadra, guidare un governo, formulare un programma, tenere insieme una coalizione politica, rappresentare il Paese. Non mancano esperienze collaudate, talenti, rigore e intelligenza, insieme a tanti e vistosi difetti, nell’armata civile messa insieme dall’imprenditore fattosi politico. Perfino la canzoncina pidiellina in stile nordcoreano, se non sbaglio, recita «meno male che Silvio c’è» e non «se Silvio non ci fosse tutti a casa».
Perché dico queste cose? Perché penso che Berlusconi è agli sgoccioli o perché auspico che si ritiri a vita privata? No. Siamo tutti un po’ in mutande, ma il presidente del Consiglio ha ancora risorse politiche, la principale delle quali è quella che scarseggia tra i suoi numerosi e agguerriti nemici: il consenso dei cittadini. Bisogna riconoscere, certo, che ci sono stati momenti più spensierati di questo. E allora? Deve imbarcarsi per Antigua? No, proprio no. Credo, al contrario, che debba impegnarsi fino in fondo anche in questa complicata battaglia, mostrando anche al suo popolo di sapere che una leadership carismatica non è un totem intorno a cui danzano orde selvagge. La brutale esposizione della vita privata del Cav da parte di un circo di guardoni travestiti da moralisti ha ferito lui e chiunque lo sostiene senza fanatismi devozionali. Ma alla fine quello è e resta un circo di guardoni, e il tipaccio che ha rivoluzionato venti o trent’anni della nostra storia democratica invece è, e deve dimostrare di essere, non il padrone solitario di una tifoseria ma l’espressione di un’altra Italia, di un’altra idea di società e di politica incarnata in una band of brothers senza complessi di inferiorità («We few, we happy few, we band of brothers», dall’Enrico V di William Shakespeare).
Berlusconi non ha bisogno della vita pubblica, d’altra parte. Non finirà mai in galera, quale che sia la sua posizione in futuro, se queste sono le risibili accuse che lo riguardano. I capi di imputazione rimbombano e sembrano materia esplosiva perché l’indagato o imputato è il conquistatore del Paese, l’ingombro da rimuovere per i sepolcri imbiancati dell’establishment, il sorridente e surreale decano del G20 con abitudini da produttore di Hollywood. Ma se fosse il cittadino Berlusconi, di quelle accuse riderebbe chiunque. Quel mattocchio liberale che i piacioni amano odiare la sua parabola l’ha già compiuta, e nei prossimi cinquant’anni leggende e libri di storia parleranno variamente di lui, non delle figure tremule che lo contrastano istericamente. Berlusconi deve resistere per impedire la vittoria del partito della patrimoniale e della restaurazione, che è insidiosamente trasversale; e anche per eleganza (non si può darla vinta ai guardoni, non è decente), ma non per rabbia, non per tigna, non per ritorsione. È la politica che sembrerebbe ancora aver bisogno di lui, non lui della politica.
P.S. Scalfari sull’Espresso civetta un po’ con me e poi mi dice che devo provare vergogna. Mi sono sforzato ma non ci riesco, mi spiace. Se però lui o il suo Peppe D’Avanzo volessero farsi una bella chiacchierata in televisione con me, evitando naturalmente postriboli televisivi e fumerie d’oppio, sono disponibile. Vediamo chi arrossisce e, se mi è permessa una innocente guasconata, glielo do io il bunga bunga.


Serve chiarezza. Non un monito

Il Tempo - Serve chiarezza. Non un monito
Serve chiarezza. Non un monito

Giorgio Napolitano entri nello scontro politico. E dica finalmente chi ha torto e chi ha ragione.

Francesco Damato   iltempo.it    20110130

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano Occhio al Quirinale. Dove il presidente della Repubblica, giustamente preoccupato per un marasma che non è più soltanto politico ma anche istituzionale, ha maturato la decisione di «dire e fare qualcosa», come hanno riferito ai giornali quanti lo frequentano abitualmente. Qualcuno si è anche avventurato ad anticipare date o circostanze dell'intervento del capo dello Stato incorrendo in una smentita: quella, per esempio, opposta ieri ad un quotidiano che aveva preannunciato per martedì prossimo una convocazione sul Colle dei presidenti dei due rami del Parlamento. Fra i quali peraltro si è appena consumato, sia pure a distanza, cioè per interposte persone, uno scontro durissimo per il maledetto affare finiano della casa di Montecarlo. Che nei giorni scorsi è approdato nell'aula di Palazzo Madama con una interrogazione parlamentare, assai scomoda per il presidente della Camera Gianfranco Fini, alla quale le opposizioni sostengono che il presidente del Senato Renato Schifani avesse concesso maliziosamente una corsia preferenziale non dovuta, con la complicità del ministro degli Esteri Franco Frattini. Ma, per non stare a ripetere cose ancora fresche di stampa, torniamo al Quirinale. Per fortuna Giorgio Napolitano era calvo già prima della sua elezione a capo dello Stato, il 10 maggio 2006. Sennò, i capelli gli sarebbero caduti in queste settimane per lo spavento procuratogli dalle cronache politiche e giudiziarie, che non risparmiano ormai niente e nessuno sull'accidentato terreno delle istituzioni.

Dove è comparsa la sigla internazionale che il direttore de Il Tempo Mario Sechi ha con ragione riproposto ai lettori mutuandola dal linguaggio termonucleare dei militari: Mad, che in italiano significa mutua distruzione assicurata. Abbiamo, fra l'altro, un presidente del Consiglio braccato contemporaneamente dal presidente della Camera, che ne reclama pubblicamente le dimissioni; dalle opposizioni parlamentari, che infornano mozioni di sfiducia come pane nel forno senza riuscire però a sfornarlo; dalla loro stampa fiancheggiatrice; da canali televisivi privati e pubblici, a dispetto della favola che gliene attribuisce un odioso controllo, e da una magistratura impegnata da anni a rivoltarne le aziende, gli affari e ora anche le lenzuola e le mutande. Abbiamo una Corte Costituzionale che prima accetta il ricorso ad una legge ordinaria, pur bocciandone il contenuto, per fornire al capo del governo ed altre fra le maggiori autorità dello Stato uno scudo giudiziario adatto non a cancellare ma a rinviare i processi a loro carico al momento in cui cesseranno dai loro incarichi, e poi boccia lo strumento della legge ordinaria quando le viene a tiro in un nuovo testo. Che il presidente della Repubblica non ha esitato a promulgare ritenendolo conforme, nei contenuti, alle indicazioni precedentemente espresse dagli stessi giudici costituzionali. Abbiamo un Consiglio Superiore della Magistratura, peraltro presieduto per norma costituzionale dallo stesso capo dello Stato, che con le cosiddette pratiche a tutela processa praticamente i politici che si permettono di criticare i magistrati ma non i magistrati che attaccano i politici, ne contestano le iniziative parlamentari e disattendono, con una interpretazione a dir poco fantasiosa, le leggi che il Parlamento osa approvare senza il consenso del sindacato delle toghe.

Abbiamo magistrati -sempre loro- che dovrebbero rispondere civilmente, cioè economicamente, dei loro errori per volontà espressa a stragrande maggioranza dal popolo in un referendum, ma che poi sono stati praticamente messi al riparo da una legge della quale non si può neppure ipotizzare, e tanto meno chiedere, una modifica senza essere tacciati di «eversione». Che è anche l'accusa mossa in questi giorni al presidente del Consiglio per avere contestato, come pure la legge gli consente, la competenza funzionale o territoriale, o entrambe, degli inquirenti milanesi che lo accusano di concussione, peraltro senza che vi sia un concusso dichiarato, e di prostituzione minorile, pur trattandosi di una minorenne, ora maggiorenne, che nega di aver fatto sesso con lui. A questo punto un intervento del capo dello Stato occorre veramente, e finalmente. Ma che non sia, per carità, l'ennesimo monito più o meno generico, che ormai non servirebbe più neppure a placare la sua coscienza. Ci vuole un intervento preciso, in cui si capisca chiaramente chi ha più torto o ragione.

«I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato» hanno certamente il loro giudice nella Corte Costituzionale, come dice l'articolo 134 della Carta della Repubblica, ma il loro arbitro politico nel capo dello Stato. Che si trova nella singolare situazione di gestire un capitolo forse ancora più drammatico e confuso di quello vissuto come presidente della Camera fra il 1992 e il 1994. Allora la magistratura -sempre lei- ghigliottinò la Prima Repubblica, non immaginando uno sbocco elettorale vinto da un incomodo chiamato Berlusconi: proprio lui, il Cavaliere.






vendredi, janvier 28, 2011

Negli Stati Uniti fu dalla lotta alla patrimoniale che nacque il reaganismo

Negli Stati Uniti fu dalla lotta alla patrimoniale che nacque il reaganismo - [ Il Foglio.it › La giornata ]
Negli Stati Uniti fu dalla lotta alla patrimoniale che nacque il reaganismo


di Antonio Martino, economista  ilfoglio.it   20110128

La proposta di Pellegrino Capaldo di tassare le plusvalenze immobiliari con aliquote comprese fra il 5 e il 20 per cento mi ha fatto ringiovanire di oltre trent’anni. Sono tornato con la mente a una stagione gloriosa per noi liberali: la fine degli anni Settanta e l’inizio del più formidabile trentennio di liberalizzazione, crescita economica e civile nella storia millenaria dell’umanità. Ad accendere la miccia di quella straordinaria “rivoluzione conservatrice” fu proprio la ribellione a un’imposta sugli incrementi di valore immobiliare. La California negli anni Settanta era afflitta dall’imposta cara a Capaldo e, dal momento che il valore delle case aumentava costantemente, molti proprietari, non riuscendo a pagare il balzello, erano costretti a vendere le proprie case. Nacque così un’iniziativa per un emendamento costituzionale, nota come “Proposition 13”, che per rimediare ai danni prodotti dal tributo finì anche per innescare la grande rivolta antistatalista degli anni Ottanta. Approvato per referendum nel giugno 1978, l’emendamento bloccava i valori immobiliari rilevanti a scopi fiscali al livello medio del 1975-76, fissava l’aliquota all’uno per cento di quel valore, poneva un tetto agli aumenti futuri e fissava in due terzi degli aventi diritto le maggioranze necessarie a decidere aumenti d’imposizione. Era il preludio all’avvento di Ronald Reagan e Margaret Thatcher!

Non m’illudo: so bene che, ove il suggerimento capaldesco fosse accolto, le conseguenze sarebbero solo negative, perché in questo momento storico non mi sembra che esistano in Italia le condizioni necessarie a una rivolta fiscale preludio di una rivoluzione liberale. Suggerirei ugualmente a chi di dovere molta prudenza in questo campo: le rivolte fiscali si sa come cominciano ma non come finiscono. Giorgio III e Luigi XVI sarebbero d’accordo: per una rivolta fiscale il primo perse la sua migliore colonia, il secondo la testa.

Sorvolo sull’ovvia considerazione che l’edilizia è già in crisi nel nostro paese, dove la scarsa presenza di un mercato delle locazioni è causa non secondaria della scarsa mobilità del lavoro, e che gravarla di un altro balzello darebbe il colpo di grazia agli investimenti immobiliari. Ma temo che le argomentazioni economiche non faranno presa su chi fa delle spese pubbliche e delle tasse un articolo di fede: sono variabili indipendenti, sacre, incomprimibili; se poi lo stato s’indebita la colpa è di chi gli ha fatto credito, i privati, che vanno esemplarmente puniti con ulteriori oneri tributari. Sappiano però che la loro cieca statolatria finirà inevitabilmente con l’uccidere la gallina dalle uova d’oro; se non ci credono, cerchino di spiegarci perché l’Italia non cresce più da quasi due decenni.


Ora solo il Cav. contro il club della sinistra “ideologica” e della destra “contabile"

Ora solo il Cav. contro il club della sinistra “ideologica” e della destra “contabile" - [ Il Foglio.it › La giornata ]


di Francesco Giavazzi, economista  ilfoglio.it   20110128

Qualcuno a favore, ma l’intelligenza economica non ama l’esproprio una tantum e senza riforme. Girotondo fogliante di idee

Giuliano Amato, Walter Veltroni, Susanna Camusso, Pellegrino Capaldo e altri ancora: il coro pro imposta patrimoniale si amplia, non soltanto sulle colonne dei giornali. Siamo di fronte a un caso di coincidenza tra una certa ideologia a sinistra e una lettura distorta della realtà economica di una fetta della destra.
A sinistra le mozioni favorevoli vengono da chi ha un pregiudizio ideologico contro la ricchezza. Per carità, queste sono preferenze, ognuno è libero di pensare che i ricchi siano cattivi. Allora però occorrerebbe tassare il reddito che produce la ricchezza, non la ricchezza una volta che è accumulata. A destra, invece, c’è una visione contabile molto pericolosa che porta a sostenere la fattibilità di una imposta patrimoniale: l’idea, sostenuta anche dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, è che si può sommare debito pubblico e ricchezza privata. In realtà il debito pubblico non è detenuto da chi ha la ricchezza e quindi per fare quella operazione bisogna espropriare la ricchezza privata.
L’impatto negativo però è assicurato. Se le famiglie hanno un certo target di ricchezza privata, ovvero un livello di ricchezza che ritengono necessario raggiungere per godere di maggiore tranquillità nel corso della propria vita, se si toglie una parte di questa ricchezza alle famiglie, queste cosa faranno? Ricomincerebbero a risparmiare per raggiungere quell’obiettivo di ricchezza che si erano poste. E non bisogna essere keynesiani per sapere che un aumento del tasso di risparmio, determinando un’ulteriore caduta dei consumi, spingerebbe l’economia a scendere a picco. Quindi qui si prova l’incapacità della visione contabile di interpretare la situazione macroeconomica.

Penso che il motivo per cui, nonostante tutto quello che si legge sui giornali, il presidente del Consiglio sia ancora in cima alle preferenze degli italiani, è che i cittadini, i quali non vogliono una patrimoniale, hanno capito che – tolto di mezzo lui – la patrimoniale si farebbe. Per Berlusconi, fortunatamente, vale infatti il motto inglese: “Over my dead body!”, “dovrete passare sul mio cadavere”, che ci siano pressioni europee o meno.
E comunque, se l’obiettivo è quello di diminuire il fardello del debito pubblico, perché bisogna espropriare la ricchezza privata? Iniziamo a vendere il patrimonio pubblico; sono anni che parliamo del patrimonio dello stato. Alla fine degli anni Novanta abbiamo abbattuto il debito pubblico in misura pari a circa 15 punti percentuali del pil in un decennio con un po’ di privatizzazioni. Rifacciamo quell’operazione: quanto vale il Poligrafico dello stato, le partecipazioni in Enel, Eni, e tutto il patrimonio immobiliare? L’alienazione del patrimonio pubblico darebbe credibilità al paese e non avrebbe l’effetto depressivo di una espropriazione. Poi, quando lo stato dimostrerà di aver venduto tutto, io resterò pur sempre contrario ma almeno a quel punto si potrà legittimamente porre il problema. Dopo, non prima.


jeudi, janvier 27, 2011

Piccoli Torquemada, io vi lascio

Piccoli Torquemada, io vi lascio | The Frontpage
Piccoli Torquemada, io vi lascio


Ai compagni del “Riformista”

Ai compagni del “Riformista” | The Frontpage
Ai compagni del “Riformista”

DI Massimo Micucci http://www.thefrontpage.it/2011/01/27/ai-compagni-del-riformista/

Caro compagno Cappellini e caro compagno Caldarola, le critiche mosse all’appello firmato da Velardi, Rondolino e Sansonetti, cui ho contribuito, mi toccano personalmente e spiacciono perchè vengono da una testata di cui mi considero uno dei “padrini” putativi. Non è la prima volta. In passato mi toccò una reprimenda dell’allora vicedirettore Cingolani, per aver difeso Chicco Testa dal reato di “connivenza in Cda” nella terribile “Spectre” della Carlyle, assieme a Letizia Moratti. Mi sembrava una presunzione di colpevolezza infondata.

Tornando all’appello e alla morale che ci fate. Non possiamo dire “noi” solo perchè c’erano a sinistra posizioni diverse? O non possiamo dire compagni perchè non siamo di sinistra? Chi ha fatto parte di una comunità politica fa le sue battaglie, ma ne assume in parte la responsabilità di ciò che la sua comunità ha fatto. Ed essere comunità, al tempo in cui abbiamo fatto politica noi, era la parte migliore. Proprio quello che oggi manca del tutto. Ma non può andar bene solo per compiacersi nelle mostre rievocative con sofisticati distinguo. A meno di non avere ognuno una specie di “posizione previdenziale”, basata su un Curriculum politico certificato dall’ufficio quadri “ma-io-non-ero-d’accordo”. La notazione ad personam sulle campagne per la Polverini, poi, riguarda anche me: il bene della sinistra non si fa se si lavora da professionisti per una candidata di destra?

Evidentemente al Riformista hanno fatto breccia i “teologi” in crisi con Mondadori. Quelli che facevano le pulci a Saviano (problema risolto), ma non a Scalfari. Forse non bisognerebbe scrivere sul Foglio, come il bravissimo compagno Cundari, pena non poter poi apostrofare accoratamente la sinistra, da sinistra, su Left Wing? Il Riformista ha sempre respinto (ed io con voi) l’idea assurda secondo cui lavorare per un editore di centro destra, come il vostro, non darebbe il diritto di definirvi riformisti. E allora? O i giornalisti sono una categoria “eticamente indiscutibile” mentre i consulenti di comunicazione debbono una coerenza di fede politica?

Poi c’è la obiezione, secondo voi, più grave: manca all’appello il “premesso che Berlusconi se ne deve andare”. Il compagno Caldarola aggiunge “che i vizi privati del potere vanno sorvegliati”. Cioè: possiamo fare certe affermazioni semprechè facciamo “giurin giurella”, contestualmente, contro Berlusconi. Ma è proprio la priorità assoluta dell’anti-berlusconismo giudiziario uno dei danni che denunciamo nella sinistra: che hanno spinto Veltroni a “preferire Di Pietro ai socialisti”, D’Alema a chiedere l’ingerenza del Vaticano, Bersani a temere Vendola. Così ha vinto, a sinistra, l’icona e la speranza nelle manette. Senza parlare di tante altre mostruosità di cui la sinistra stessa è stata vittima. In parte lo avete detto con forza (anche) voi e adesso.

Perchè allora dovremmo preliminarmente parlar male di Berlusconi se il tema è così ampio e devastante? Vorreste un mantra da gesuiti per riconoscere il diritto a chiamare in causa la sinistra? Come quando, per poter sostenere una politica riformista nel Pci bisognava prima attaccare il capitalismo e gli Stati Uniti. Oppure vengono in mente le accuse che vennero rivolte ad Emanuele Macaluso di avere rotto il “fronte della fermezza” quando si adoperò, ottenendola, per la grazia a Fiora Pirri Ardizzone in carcere per reati di terrorismo.

Capellini conosce meglio di me la terribile storia del Pci e del terrorismo e Caldarola non si può appellare neanche al fatto generazionale. Gli schematismi sul tema giudiziario, poi diventato mediatico, hanno paralizzato spesso la sinistra (e anche la destra, ma sono affari suoi). Lo spiegano molto bene Pellegrino e Fasanella nel libro Il morbo del giustizialismo, che si chiama così nonostante Berlusconi. Un appello è un appello e serve a lanciare un allarme, una preoccupazione o una proposta e si rivolge ad una comunità, ed insieme è pubblico. Molti non lo condivideranno, ma si fa sentire e lo hanno letto sul nostro sito più di 30.000 persone. Tra questi anche diversi dei numerosi lettori del Riformista, giornale che, una volta, queste campagne se le inventava.


Vittime: un minuto di silenzio

Vittime: un minuto di silenzio | The Frontpage
Vittime: un minuto di silenzio


Marx? Uno di destra

Mark starebbe con la Lega e scaricherebbe la Fiom - Lettera43
Marx? Uno di destra

Per i filosofi starebbe con la Lega e lascerebbe la Fiom.

di Bruno Giurato lettera43.it   20110125

http://www.lettera43.it/attualita/7090/marx-uno-di-destra.htm

Statua di Karl Marx a Mosca (foto Getty Images)

Tra crisi economica e caduta delle ideologie torna lui. Se Marx non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Non è una battuta. Karl Marx (1818-1883), il filosofo di Treviri, colui che ha traghettato la visione del materialismo antico in chiave di analisi economica e disincanto ontologico (ed è stato usato e abusato per navigare tra i marosi del secolo breve) allo stato attuale serve tanto a destra quanto a sinistra. Anzi, forse più a destra che a sinistra.
UNA FIORITURA DI TESTI. L'ultima interessante ripresa è un'intervista allo storico Eric Hobsbawm uscita il 16 gennaio 2011 sull'Observer, in occasione dell'ultimo libro del grande vecchio del marxismo europeo, How to change the world. Tales of Marx and Marxism. Dal libro di Hobsbawm, 93 anni, viene fuori un Marx liberato dagli eccessi ideologici dei decenni precedenti, analista lucido del mondo globalizzato (merito accordatogli anche da papa Benedetto XVI), fortemente anti-utopista. Il cui pensiero sarebbe un correttivo agli eccessi del capitalismo che avrebbero portato alla crisi economica. Il libro ha provocato reazioni e dibattito, in particolare una polemica recensione di James Purnell su Prospect Magazine.
Ma anche in Italia il rinascimento marxiano è un dato di fatto, da qualche anno. Tra gli ultimi testi editi ricordiamo il volume di Nicolao Merker, Karl Marx. Vita e opere (Laterza), la traduzione di Francis Wheen, Karl Marx. Una vita (Isbn edizioni); Karl Marx di Stefano Petrucciani (Carocci), e Karl Marx. Il capitalismo e la crisi, curato da Vladimiro Giacchè (Derive Approdi). E su un versante quasi pop-philosophie riocordiamo anche Bentornato Marx! del giovanissimo Diego Fusaro (Bompiani).
Marx serve anche alla destra

Corrado Ocone.

Uno dei primi attori dell'ondata marxiana è Corrado Ocone, filosofo socialista liberale, crociano, docente all'università Luiss di Roma e autore di Marx visto da Corrado Ocone (Luiss University press), fortunato testo del 2007. Ocone è anche l'organizzatore del Seminario permanente di studi marxiani, sempre nell'ambito dell'ateneo confindustriale.
A Ocone abbiamo chiesto il motivo delle riprese marxiane di questi anni. «Marx è semplicemente un autore classico da cui non si può prescindere, i suoi sono insegnamenti universalmente umani. Ha pensato in profondità, anche se, come diceva Hegel, «grande pensatore, grande errore». Ha dato gli strumenti fondamentali per capire «il modo di produzione capitalistico» (Marx non ha mai usato il sostantivo capitalismo). I presupposti e i meccanismi della società attuale sono stati messi in luce per la prima volta da lui. Da questo non può prescindere anche chi marxista non è».
IL MONDO RIDOTTO A MERCE. Secondo Ocone, Marx oggi è necessario anche a destra. Storicamente i pensatori liberali si sono da sempre confrontati con il loro 'miglior nemico', e lo ha fatto in maniera approfondita lo stesso Benedetto Croce, ma oggi le analisi disincantate di Marx sono un ingrediente essenziale per capire l'economia e la società.
«Il mondo di produzione di oggi assume caratteristiche di globalizzazione, con il predominio totale della finanza, il predominio del capitale per il capitale. È un mondo ridotto a merce, come ne il Manifesto. Quello che Jacques Derrida, che è stato un grande studioso di Marx, definisce 'il mondo degli spettri'», continua Ocone.
In questa prospettiva Marx è un ottimo correttivo rispetto al capitalismo puro: «Marx ha capito che il modo di produzione capitalistico è il migliore finora conosciuto (e infatti nessuno come lui ha messo in luce l'aspetto positivo della borghesia), ma tende, se lasciato libero, a occupare spazi non suoi e infine a contraddire le sue premesse. Il compito della politica è proprio limitare le conseguenza negative del capitalismo: un compito di regolazione e controllo, dunque. La politica da sempre è un mix di rapporti di forze e idealità», conclude il docente della Luiss.
Umberto Curi: La Lega? È marxista

Umberto Curi.

Umberto Curi, ordinario di storia della filosofia contemporanea all'università di Padova, e storico interprete di Marx, mette in luce un paradosso produttivo nella reinassance marxiana: «La ragione di forndo del ritorno di Marx», ha dichiarato a Lettera43.it «è la caduta del marxismo stesso, che ha fatto emergere l'intrinseco rilievo teorico del suo pensiero. Marx è stato maltrattato perché travisato dalle ideologie. Uno dei non molti aspetti positivi della caduta del muro di Berlino è stato sottrarre Marx all'identificazione con le ideologie di partito».
Secondo Curi bisogna anche chiarire i legami tra Marx e la filosofia antica: «Nello scritto giovanile sugli atomisti sono significative le ultime frasi, quelle che parlano di Prometeo come 'grande santo e martire del calandario filosofico'. Quindi non è tanto importante la sua vicinanza al materialismo antico, quanto il riconoscimento della grandezza di Prometeo, figura tutta umana, simbolo di affrancamento della ragione da qualsiasi tutela. Marx resta un indisciplinato. È un aspetto che oggi i giovani sanno cogliere benissimo: il tratto distintivo dell'antidogmatismo. Nella corrispondenza con Engels, per esempio, si vede bene l'aspetto corrosivo, caustico, di Marx».
Ma quali sono, secondo Curi, i testi da cui partire? «Forse il testo chiave è il primo libro del Capitale, in particolare la IV sezione, in cui riesce a svelare il meccanismo oggettivo del funzionamento del capitalismo. È un momento di grandiosa tragicità prometeica. C'è un punto, proprio nel carteggio con Engels, in cui Marx indica i meriti del lavoro fatto (cosa strana in lui, che andava ripetendo: 'io non sono un marxista'). Secondo lui il meglio del suo lavoro era la scoperta del lavoro come valore concreto/astratto e la scoperta dell'origine del plusvalore»
CONTRO LA RETORICA PACIFISTA. Ma, un secolo e passa di distanza e dopo intere biblioteche scritte su di lui, può un pensatore come Marx essere usato come profeta politico per gli anni a venire? Secondo Curi «è impossibile tirare Marx per la giacca come profeta di scenari futuri. Proprio questa tendenza ha portato prima ad osannarlo e poi a dimenticarlo. Ma lui l'aveva detto: “Mi rifiuto di fornire ricette per le osterie dell'avvenire”. Fu un maestro dell'analisi. Non tanto nelle dispute astratte sul metodo, quanto nella capacità di usare gli strumenti necessari (filosofici, sociologici, economici, letterari) e di individuare le linee di tendenza. Da questo punto di vista è un nostro contemporeaneo, non un profeta».
E il primo merito di Marx, secondo Curi è quello di aver riconosciuto la base conflittuale della politica: «Quella di Eraclito-Platone-Karl Schmitt è la linea filosofica secondo cui Polemos, il Conflitto, è il re di tutte le cose, e questo vale contro ogni retorica fiaccamente pacifista. Il vero problema politico è come disciplinare il conflitto. Già Platone riconosce la “strutturalità” e l'ineluttabilità del conflitto. Infatti i teorici comunisti dicevano che la rivoluzione e l'affrancamento delle classi oppresse sarebbero avvenute in concomitanza con una guerra mondiale. Non a caso la rivoluzione russa avvenne durante la prima guerra mondiale. Alla base, quindi c'è la consapevolezza dell'incancellabilità della guerra, della crisi, dall'orizzone umano. D'altra parte il compito della politica è proprio questo, quello di incanalare le energie del polemos».
Oggi, secondo Curi, la forza politica che in Italia incarna meglio una politica basata sui reali rapporti di forza e non solo sulle idealità potrebbe essere la Lega: «Oggi il leghista è marxiano nel senso della difesa degli interessi. La Lega è marxista sia perché è rimasta l'ultima organizzazione politica leninista, sia perché i militanti sono mossi da un forte afflato ideale. Ma c'è qualcosa di più. Il tema del federalismo trova fondamento concettuale nel fatto che è il tentativo di valorizzare i poteri originari, quelli del territorio. Il radicamento territoriale. Gianfranco Miglio, il principale teorico leghista, sosteneva posizioni di questa natura».
Karl avrebbe scaricato la Fiom

Massimo Cacciari.

Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia, filosofo formatosi con l'operaismo e approdato a una rilettura sentita della filosofia dell'esistenza e della krisis, è una federalista convinto, da tempo. Notevoli le sue discussioni sul federalismo con Gianfranco Miglio. Cacciari precisa la differenza tra il suo concetto di federalismo e quello attuale della Lega bossiana. «Il federalismo di Miglio andava oltre lo stato, mirava e presupponeva una riorganizzazione federalistica dell'Unione Europea», ha detto Cacciari a Lettera43.it, «quello della Lega attuale è anacronistico, fatto di una serie di piccoli staterelli che si tengono stretto il loro capitale, che rassicurano cittadini malati di xenofobia».
Anche per Cacciari la forza di Marx è avere scoperto lo stato di perenne conflittualità, strutturale all'economia, anzi all'uomo. Di più: la forza marxiana è sempre il riferimento alla dialettica di Hegel, cioè la scoperta della 'produttività del negativo'. E ovviamente, secondo Cacciari, non si tratta di una produttività semplicemente analitica.
«L'importanza di M.», ha spiegato Cacciari, «è sia nella forza analitica, sia nel discorso politico. Se fosse stato solo un economista politico non si ricorderebbe. La sua forza è proprio nel fatto che, in base all'analisi scientifica si possono prevedere crisi e fine del capitalismo. Dal punto di vista dell'economia ha compreso che per il sistema capitalistico è in crisi fisiologica. È pieno di salti, rotture, mutamenti di stato legati a cambiamenti tecnologici. Ora ci troviamo proprio a quel punto, a partire dal grande salto tecnologico degli anni 80/90: un eccesso di danaro che non si riesce a trasformare in merce. Un'invasione di beni che immobilizza il mercato».
I CONTRATTI SONO SUPERATI. E come conciliare, quindi, il fatto che il mercato si evolve con la salvaguardia dei diritti dei lavoratori? Il conflitto è in corso e un esempio anche drammatico è nella vicenda del referendum di Mirafiori, che ha contrapposto la dirigenza Fiat alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici. «Anche Marx aveva chiaro che il capitalismo mondiale sarebbe fuoriuscito da ogni forma di contrattazione nazionale. Queste ormai sono forme luddistiche», sostiene Cacciari, «le regole di contrattazione nazionale possono sognarsele solo il vecchio sindacalista della Fiom ed Emma Marcegaglia. Bisogna prendere atto dell'impotenza di certe battaglie. È legittimo che l'operaio si difenda, ma è ovvio che a questo punto non c'è niente da fare», conclude.
E a questo punto sorge spontanea, per restare in tema, la domanda di Lenin: «Che fare?» di fronte alla crisi economica globale? Cacciari ha una risposta che andrebbe oltre: «L'unica novità che Marx non aveva previsto è la possibilità che l'intervento pubblico internazionale potesse salvare il sistema. Aveva ben chiaro, come del resto gli economisti liberisti, il carattere globale del capitalismo, ma non poteva prevedere la possibilità di un intervento pubblico coordinato, a livello sovranazionale. A mio parere è l'unica strada attualmente percorribile».

Martedì, 25 Gennaio 2011


mardi, janvier 25, 2011

Solare: la rivoluzione è vicina

Solare: la rivoluzione è vicina I pannelli che funzionano di notte - Corriere della Sera
Grazie alle microantenne di nanotubuli al carbonio

di Paolo Virtuani  corriere.it   20110125

Solare: la rivoluzione è vicina.  I pannelli che funzionano di notte

Sfruttano gli infrarossi rilasciati dal terreno nelle ore notturne. Efficienza superiore al fotovoltaico tradizionale

MILANO – Un pannello solare che funziona di notte è una contraddizione di termini. In una parola: impossibile. Ma Steven Novack, dell’Idaho National Laboratory del dipartimento americano dell’Energia, ha sviluppato un nuovo concetto di pannelli solari destinato a creare una vera rivoluzione nel settore. E soprattutto superare il grande limite dei pannelli solari: senza sole, quindi di notte, non producono energia, con le evidenti limitazioni che ciò comporta.

INFRAROSSI - Novack parte da una constatazione di fatto: circa la metà dell’energia disponibile dello spettro solare arriva sulla Terra nella banda degli infrarossi (Ir). E parte di questa viene riemessa sottoforma di calore dal terreno durante la notte. Se la notte è nuvolosa, in parte gli infrarossi vengono riflessi verso il suolo. Ecco perché nei deserti, dove la copertura nuvolosa è assente, di notte la temperatura si abbassa notevolmente e fa freddo: il calore attraversa l’atmosfera e si disperde nello spazio come radiazione Ir.

MICROANTENNE - Realizzando un sistema di microantenne della lunghezza d’onda degli infrarossi (sotto i 700 nanometri), test di laboratorio hanno verificato la possibilità di raccogliere l’84% dei fotoni riemessi dal terreno. Un sistema operativo reale utilizzabile su larga scala potrebbe arrivare al 46%. È comunque un’efficienza di gran lunga maggiore di quella dei migliori pannelli fotovoltaici attuali, le cui celle al silicio non oltrepassano il 20% nelle migliori condizioni. In realtà i pannelli tradizionali hanno efficienza ancora minore, perché se le celle non sono posizionate con un’angolatura precisa rispetto all’angolo di incidenza dei raggi solari oppure se si riscaldano troppo oltrepassando la temperatura ottimale di esercizio, la produzione di corrente elettrica crolla a frazioni di quella nominale. Le microantenne, invece, sono in grado di assorbire infrarossi in un ampio ventaglio angolare.

DIODI - A differenza delle celle fotovoltaiche, che assorbono fotoni per liberare elettroni e generare energia, le microantenne funzionano in altro modo. Entrano in risonanza con la lunghezza d’onda degli Ir generando una corrente alternata, ma a una frequenza troppo alta per essere utilizzata. La corrente alternata (Ac) deve quindi essere trasformata in corrente continua (Dc), ma qui sorge un problema. I diodi semiconduttori al silicio che convertono la Ac in Dc non funzionano alle alte frequenze generate, spiega Aimin Song, ingegnere nanoelettronico dell’Università di Manchester. Inoltre quando vengono rimpiccioliti alle dimensioni delle microantenne, i diodi diventano meno conduttivi. Ma Song e, indipendentemente, Garret Moddel dell’Università del Colorado a Boulder, stanno risolvendo questo decisivo inconveniente con la creazione di un diodo di nuova concezione capace di utilizzare alte frequenze ottiche.

MULTISTRATO - Una volta superato il problema dei diodi, l’ideale sarebbe realizzare un pannello multistrato capace di funzionare a differenti frequenze. Capace quindi di assorbire sia la luce solare diurna, sia gli infrarossi emessi di notte dal terreno e anche quelli rispediti a terra dalle nuvole. Quindi un pannello che funzioni sia di giorno che di notte. In pratica la quadratura del cerchio.

NANOMETRI - Oltre ai diodi, il problema consiste nel produrre microantenne delle dimensioni della radiazione infrarossa: alcune centinaia di nanometri (un nanometro è un milionesimo di millimetro). Al momento il gruppo di ricerca di Novack ad Idaho Falls ha creato microantenne capaci però di operare solo nell’infrarosso lontano, ma ritiene possibile realizzare entro pochi mesi microantenne in grado di lavorare anche nello spettro infrarosso medio e vicino.

NANOTUBULI – Un grosso impulso a questa tecnologia che potrebbe rivoluzionare il mondo dell’energia solare, può arrivare dai nanotubuli in carbonio, messi a punto da Michael Strano, Han Jae-hee e Geraldine Paulus del Mit di Boston. Il gruppo, su Nature Materials dello scorso 12 settembre, ha reso noto di aver trovato il modo di realizzare le microantenne di Novack utilizzando i nanotubuli in carbonio. Strano e colleghi hanno realizzato una sorta di fibra lunga mille nanometri e spessa 400 nanometri composta da circa 30 milioni di nanotubuli. I costi dei nanotubuli al carbonio negli ultimi anni si sono dimezzati più volte e, secondo Strano, nel prossimo futuro scenderanno ad alcuni centesimi di dollaro alla libbra (poco meno di mezzo chilo). I nanotubuli finora realizzati hanno un’efficienza dell’87% nel rapporto tra energia prodotta rispetto a quella assorbita, ma il gruppo di ricerca sta lavorando a una versione avanzata con un’efficienza del 99 per cento.

DANIMARCA - I nanotubuli si stanno dimostrando molto promettenti e vengono studiati anche al Centro di nanoscienze dell’Università di Copenaghen. In particolare Peter Krogstrup dell’Istituto Niels Bohr, in collaborazione con altri ricercatori finanziati dalla società SunFlake, si sta concentrando sulla purezza delle nanofibre, in cui la struttura elettronica è perfettamente uniforme in tutto il materiale. Un aspetto importante, in quanto più il nanotubulo è puro, maggiore è l’efficienza. In Danimarca però la ricerca, apparsa sul numero di novembre 2010 di Nano Letters, si concentra su nanofibre diverse, non di carbonio ma di gallio e arsenico.

RICERCA E VOLONTÀ DI INVESTIMENTI - Circa 2 miliardi di persone non hanno accesso all’energia elettrica, quasi tutte in Paesi del Terzo mondo. Le rinnovabili, e in particolare il solare, potrebbero soddisfare il fabbisogno di almeno la metà delle popolazioni senza corrente elettrica, secondo le stime dello studio Bernoni ed Efrem realizzato per la seconda edizione di Good Energy Award. Lo sviluppo della nuova generazione del fotovoltaico notturno sembra destinato proprio a chiudere questo gap. E senza aggravare le emissioni di gas serra. È solo un problema di volontà di investire risorse nella ricerca in questa direzione.


Pinocchio e la vera impunità

Il Tempo - Politica - Pinocchio e la vera impunità
Pinocchio e la vera impunità

Con l’ennesimo processo imbastito contro di lui il presidente del Consiglio rischia tutto. Ma i suoi implacabili accusatori che cosa rischiano? Nulla, né sul piano della carriera né sul piano economico.

Francesco Damato  iltempo.it  20110125


Silvio Berlusconi Con l’ennesimo processo imbastito contro di lui, stavolta brandendo i reati addirittura di prostituzione minorile e di concussione, il presidente del Consiglio rischia tutto. Ma i suoi implacabili accusatori che cosa rischiano? Nulla, né sul piano della carriera né sul piano economico, come non hanno perso nulla gli implacabili accusatori del povero Enzo Tortora e poi quelli, fra gli altri, dell'ex ministro democristiano Calogero Mannino, assolto dopo 17 anni di autentica persecuzione giudiziaria. Sorvolo sui processi di Giulio Andreotti per non dare l'estro a Giancarlo Caselli, il più famoso ed ancora attivo dei suoi accusatori, di imbastire l'ennesima polemica, sempre rintuzzata dai legali del senatore, sull'assoluzione «parziale» dell'imputato. Al quale è stata applicata la prescrizione per i rapporti con esponenti di mafia sino al 1980. L'impunità degli inquirenti, anche di quelli più disinvolti, e dei giudici che li assecondano, è garantita sul piano della carriera da una troppo generosa gestione dei procedimenti disciplinari da parte dell'organo di «autogoverno» della Magistratura, che è il Consiglio Superiore, e sul piano economico da una legge del 1988. Che ha vanificato il risultato del referendum sulla responsabilità civile delle toghe svoltosi l'8 novembre 1987.

Da quel referendum abrogativo di tre articoli del codice civile, promosso dai radicali con l'appoggio dell'allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, che si guadagnò proprio per questo un'ostilità della corporazione giudiziaria destinata a costargli moltissimo, la campagna del «no» reclamato dai magistrati uscì con le ossa letteralmente rotte. Votò contro il privilegio vantato dai magistrati l'80,20 per cento degli elettori, scossi dal supplizio giudiziario appena subìto da Tortora. Che era stato in fondo la molla dell'iniziativa referendaria assunta dai radicali. Craxi da pochi mesi non era più capo del governo, rimosso bruscamente dalla Dc di Ciriaco De Mita con il ricorso alle elezioni anticipate, ma si godette lo stesso il risultato di quel referendum con Marco Pannella. Egli tuttavia, diversamente dal leader radicale, che protestò a gran voce, accettò di subire in silenzio, senza per questo recuperarne la fiducia, una rivincita della consorteria giudiziaria. Che, sostenuta fortemente dai comunisti, strappò a tamburo battente al governo del democristiano Giovanni Goria, di cui pur era guardasigilli il socialista Giuliano Vassalli, una legge che grida semplicemente vendetta.

Con l'aria di voler disciplinare il diritto del cittadino di far pagare i danni economici ai magistrati che glieli avessero a torto procurati, essa di fatto glielo precluse. L'azione di risarcimento è consentita solo «contro lo Stato», che può rivalersi sul magistrato in misura non superiore ad un terzo di un'annualità di stipendio, al netto delle trattenute fiscali. Le procedure comunque sono tali che le toghe sono rimaste sostanzialmente indenni, per quanto coperte peraltro da una polizza che ha fatto la fortuna delle compagnie d'assicurazione, vista la pratica assenza di rischio. Così stando le cose, è semplicemente grottesco che Fini e gli altri avversari di Berlusconi difendano gli inquirenti milanesi sostenendo che in caso di errore, cioè in caso di assoluzione del Cavaliere, essi pagherebbero come «capita a tutti». In questo povero Paese, dove è di moda ormai il rovescio, le bugie riescono ad avere le gambe lunghe, e i nasi cortissimi. Pinocchio ringrazia.


Ecco perché gli italiani non si fidano più della giustizia

Ecco perché gli italiani non si fidano più della giustizia - [ Il Foglio.it › La giornata ]

di Arnaldo Ferrari Nasi  ilfoglio.it   20110124

Solo il 43 per cento dei cittadini europei ripone fiducia nel lavoro dei giudici, e in Italia il dato scende al 37 per cento. Segno che qualcosa da cambiare c'è eccome

“Fu nelle notti insonni,
vegliate al lume del rancore
che preparai gli esami
diventai procuratore”
per imboccar la strada
che dalle panche d’una cattedrale
porta alla sacrestia
quindi alla cattedra d’un tribunale
giudice finalmente
arbitro in terra del bene e del male

E allora la mia statura
non dispensò più buonumore
a chi alla sbarra in piedi
mi diceva Vostro Onore
e di affidarli al boia
fu un piacere del tutto mio
prima di genuflettermi
nell’ora dell’addio
non conoscendo affatto
la statura di Dio”

Fabrizio De André, in “Un giudice” del 1971, cantava di un nano che, da tutti deriso, studia e diventa magistrato. E diventa carogna, perché è nel timore che incute agli imputati che trova vendetta, cioè la cura al suo disagio. Trovarsi davanti una persona del genere in un contenzioso non renderebbe certo tranquilli, e, anche se questo è solo un caso limite e di fantasia, un certo riscontro con la realtà lo si può intravedere.

L’Eurobarometro, il consorzio interuniversitario della Commissione europea, riporta che solo il 37 per cento degli italiani ha fiducia nella giustizia del nostro paese e che negli ultimi dieci anni il valore ha oscillato tra il 31 per cento il 47 per cento. Ma non ci si stupisca, il dato anche in Europa è lo stesso: 43 per cento in media. In paesi come Francia, Inghilterra e Spagna, il numero delle persone che confidano nella giustizia si attesta attorno al 39 per cento, al 48 per cento e al 40 per cento. Solo la Germania, tra i grandi, è sopra la metà: il 58 tedeschi si fida dei giudici.

AnalisiPolitica ha realizzato diversi sondaggi sull’argomento ed è possibile approfondire la prospettiva con cui gli italiani guardano i propri magistrati. I temi sono molti e sono anche oggetto di proposte politiche recenti o meno recenti. Per esempio, il tema della responsabilità civile dei magistrati fu una grande battaglia vinta dai Radicali nel 1987 con un referendum che portò all’approvazione della legge Vassalli, da molti tutt’ora ritenuta eludente. L’86 per cento degli italiani è d’accordo sul fatto che “un magistrato che sbagli, deve essere responsabile della propria azione”. O come quello della riforma del Csm: per il 68 per cento degli intervistati “i giudici dovrebbero essere controllati da un organo indipendente, non composto da altri magistrati come loro”. Non è un dato trascurabile, soprattutto quando il 56 per cento cioè la maggioranza, pensa che “sovente i magistrati agiscano con fini politici” e infatti per due cittadini su tre “spesso, in Italia, la magistratura non è imparziale come dovrebbe essere”.

Anche questioni più vicine al cittadino. Per l’85 per cento degli italiani, “se i condannati scontassero sempre la pena per intero, ci sarebbero molti meno reati” e “spesso le forze dell’ordine catturano i criminali, ma la magistratura li rilascia con troppa facilità” (62 per cento). In qualche modo viene pure invocata una riforma della legge Gozzini: per i tre quarti delle persone “spesso i permessi e gli sconti di pena ai carcerati, vengono dati senza che essi se lo meritino veramente”, rendendosi necessario un cambiamento di tale prassi (76 per cento).

Nell’opinione pubblica, neanche il sistema giudiziario è immune alla corruzione. Il 39 per cento degli italiani ritiene che vi sia diffusa la pratica delle tangenti. E se il 17 per cento afferma che nell’ultimo anno gli sia stato richiesta la bustarella, un quarto di essi dice che quelle pressioni venivano proprio dell’apparato della giustizia.

Concludendo, è fuor di dubbio che l’istituto della magistratura sia e debba essere uno dei capisaldi di qualsiasi sistema democratico, ma è altrettanto chiaro che in Italia la maggior parte della gente pensa che ci sia più di un ambito da riformare. Quel che sottolineava De André e che probabilmente in molti altri pensano, è che un giudice sia pur sempre un uomo e che come tutti gli uomini possa sbagliare.

Leggi la raccolta completa dei sondaggi





© - FOGLIO QUOTIDIANO

di Arnaldo Ferrari Nasi


Scolorina partenopea

Scolorina partenopea | The Frontpage
Scolorina partenopea



Ho letto anche io il libro di Antonio Bassolino e – come altri – non vi ho trovato ancora quelle riflessioni critiche che era lecito aspettarsi dal leader indiscusso dell’ultimo quindicennio napoletano. Ma diamo tempo al tempo. Sarà necessaria una lenta e progressiva decantazione degli avvenimenti per capire cosa è stato il bassolinismo, nel bene e nel male (per usare una sua classica espressione).

Nel frattempo possiamo procedere per indizi, omissioni, decrittazioni. E io sono andato a sfogliare – come faccio sempre – l’indice dei nomi: un modo spesso fruttuoso per cogliere importanti dettagli che nella lettura si smarriscono.

Nel libro di Antonio l’hit parade delle citazioni è abbastanza scontata: il grosso è per Berlusconi e Prodi, in seconda fila D’Alema e Veltroni, seguono De Mita, Iervolino, Rutelli, Marone, Mastella, il poco amato Napolitano. Poi tanti altri, in ordine sparso: Filangieri e Genovesi, Ugo e Marino, Kounellis e Niemeyer, assessori, vecchi dirigenti Pci… Oddio, deve essermi sfuggito qualcosa: ma dove sono finiti Andrea (Cozzolino), Antonio (Marciano), Nicola (Oddati)? Dov’è la classe dirigente cresciuta in quindici anni al suo fianco? E ‘o professore, quello che “beato lui, che sta ncopp’ a muntagna…”? Ah, eccolo Mauro (Calise), con una sola striminzita citazione… E Isaia (Sales), Massimo (Villone), Massimo (Paolucci), Eduardo (Cicelyn), Rachele (Furfaro) e tanti altri? Cancellati con la scolorina, come nei ritratti di epoca staliniana?

Nei mesi scorsi mi sono sciroppato le 800 pagine della biografia del mio politico contemporaneo preferito, Tony Blair. Nel libro manca l’indice dei nomi, ma in ogni pagina del suo racconto sono presenti Jonathan (Powell, il capostaff), Alastair (Campbell, l’uomo-media), Peter (Mandelson, lo strategist), Philip (Gould, il pollster), e naturalmente i politici dell’inner circle: Brown, Miliband e gli altri. E’ fortissima la sensazione di una squadra al lavoro per un obiettivo comune. Queste persone costruiscono l’agenda quotidiana del governo: incontri, ricerche, approfondimenti, analisi, mediazioni. Possono fare bene o sbagliare, sono scaltri e intelligenti, spesso in lotta tra loro per entrare nelle grazie del capo. E non sono yes-men: al capo chiedono e impongono un confronto continuo. Blair è solo il terminale di questo gruppo di persone instancabili e dedite alla causa. Certo decide, fa le scelte ultime, ma sempre sulla base del loro lavoro. Li bacchetta, li loda o li critica anche pubblicamente: in ogni caso, non ha timore di citarli, di nominarli. Un leader forte si circonda di persone forti. Non si vergogna dei suoi collaboratori.

Si dirà: palazzo San Giacomo non è Downing Street, e tantomeno lo è Santa Lucia. Beh, è vero il contrario. Meno forte e strutturata è l’istituzione, più è necessaria una squadra articolata e compatta a fianco del leader. Bassolino lo capì subito, nel 1994, e di squadre si è sempre circondato. All’inizio formando team con persone esterne, autorevoli, competenti. In una seconda fase, con risorse non meno valide, ma più interne alla politica e devote al leader. Il punto è che non ha mai voluto né saputo valorizzare, tanto gli uni che gli altri. Per quale motivo? Perché, insomma, Bassolino non ha mai costruito nessuna ipotesi di successione a se stesso, pur avendo a disposizione un quindicennio di potere assoluto per farlo?
Mi scuserai, direttore, se espongo una tesi radicale e certamente sommaria per spiegare l’arcano. Bassolino è un politico di solida e mai ripudiata formazione comunista. Non sarò certo io a negarne le qualità, ma per quella scuola la politica è stata teleologia, finalismo, mentre le competenze, le conoscenze specifiche sono accessorie, sono una funzione minore della politica, detengono tuttalpiù verità secondarie, parziali. Possono accompagnare un percorso, risultare più o meno utili di volta in volta, ma il leader gioca il confronto vero sui tavoli della politique d’abord, fatta di sinedri, caminetti, vertici: oggi surrogati di quella mitologica direzione del Pci, in cui il giovane Bassolino sedette al fianco di Terracini e Longo. In secondo luogo, il politico di formazione comunista è sempre diffidente, sospettoso nei confronti dell’altro da sé. Non investe sulla fiducia, perché non vede la parte di verità di cui ogni essere umano è portatore. E’ abituato a vedere intorno a sé nemici, non interlocutori. Non è laico, in una parola. Per questo non fa crescere nessuno al suo fianco.

E per questo, nella ricostruzione di un quindicennio fatto di ombre ma anche di molte luci (per usare sempre una sua espressione classica), può persino omettere di citare chi gli è stato a fianco per tanto tempo e usare la scolorina di Stalin per cancellare chi non è più di suo gradimento. Ecco, questo non mi è piaciuto del libro di Antonio, sia detto da uno che gli sarà sempre amico e che risulta anche citato (il giusto) nell’indice dei nomi.

Questa lettera è apparsa sul “Corriere del Mezzogiorno”.


Povere opposizioni, si consolano contro Bondi

Povere opposizioni, si consolano contro Bondi | The Frontpage
Povere opposizioni, si consolano contro Bondi

di redazione  thefrontpage.it   20110124

La mozione di sfiducia nei confronti di Bondi che si discuterà fra mercoledì e giovedì prossimi è semplicemente vergognosa e mette in rilievo, una volta di più, la pochezza delle opposizioni a Silvio Berlusconi. Non sono riuscite a far fuori il Cavaliere il 14 dicembre e ora cercano di prendersi piccole, misere vendette, accanendosi contro il ministro con una ferocia degna di miglior causa.

In realtà, però, ci sono ragioni profonde dietro questo accanimento. Il povero Bondi dà fastidio. E’ un ex comunista e non lo nasconde. Il suo profilo naif imbarazza pensose primedonne di set e palcoscenici. Irrita la sua rocciosa fedeltà a Berlusconi. E, soprattutto, Bondi regge un ministero nel quale è ancora imperante la subcultura elitaria e qualunquista della vecchia sinistra. Quella che si sciacqua quotidianamente la bocca per la “morte della cultura” e prende soldi per film che nelle sale fanno incassi zero. O che, in nome della sacra tutela dei nostri Beni Culturali, si arrocca in quei luoghi di morte che sono le Sovrintendenze, monumenti all’inefficienza e alla burocrazia.

Bondi ha tentato di smuovere le acque paludose del Ministero. Ha proposto l’ingresso dei privati nella gestione di Pompei e degli sterminati giacimenti di beni culturali italiani: l’unica, ovvia strategia possibile per evitare che vadano in malora. Con mossa non banale e provocatoria, ha preso un manager della Mc Donald’s e lo ha messo a capo del patrimonio culturale. A più riprese, ha mostrato fastidio e distanza per la malmostosa enclave dei cineasti italiani. Ha abolito qualche carrozzone, come l’Eti.

Il problema è che queste mosse sono state timide e poco concludenti. Nella gran parte dei casi, le sue sono rimaste dichiarazioni di intenti. Non ha dato respiro strategico alla sua mission. Non ha dato concretezza ai suoi enunciati. E si è mostrato piuttosto incline al classico spoil system berlusconiano: togli un vecchio burocrate (a volte finanche capace), lo sostituisci con la sua seconda fila, meno capace in quanto – appunto – seconda fila.

Queste sono le sue colpe vere, ma in fondo sono quelle del governo di cui fa parte, che è ancora in vita solo grazie alla sesquipedale incapacità delle opposizioni, e non perché stia facendo qualcosa di significativo. Sono responsabilità che non giustificano una mozione di sfiducia ad personam. Che, peraltro, le opposizioni non motivano con l’assenza di coerenza innovativa, ma con il suo opposto. Come sostiene senza vergogna il cosiddetto Terzo polo, Bondi avrebbe potuto evitare la gogna della mozione rimpolpando i fondi dell’inutile Fus, assumendo un po’ di gente in più al Ministero, eliminando i limiti di spesa per le mostre. Cioè continuando nella distribuzione delle mance che tengono in vita il circo assistito della cultura italiana.

Le opposizioni sperano di ottenere la testa di Bondi da una maggioranza preoccupata per altre, note ragioni. Anche per questo, la mozione di sfiducia si configura come una mossa vile. Da quaquaraquà, avrebbe detto un intellettuale vero.


Moralmente riprovevole

Moralmente riprovevole | The Frontpage
Moralmente riprovevole

di  Antonio Bruno   thefrontpage.it   20110124

Nell’Italia del diritto una nuova forma di condanna viene riservata a chi entra in contatto con il servizio giustizia: l’attesa. Aspettare che la giustizia faccia il suo corso.
Accade a chi, ritendendosi innocente, si trova a dover subire i tempi “indecenti” di un processo e giustificare all’opinione pubblica la propria posizione processuale. Sarà forse una distorsione delle garanzie costituzionali o una visione colpevolista dell’indagato/imputato, ma in Italia un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio provocano il capovolgimento di uno dei principi fondamentali dello stato di diritto: dalla non colpevolezza alla colpevolezza fino a sentenza definitiva.
Si dirà, chi è innocente non ha alcun problema a dimostrarlo nel processo, deve avere fiducia nella magistratura. Ma non ci sono soltanto le aule giudiziarie.

Quando un processo riguarda personaggi politici, la prassi istituzionale vorrebbe che chi ricopra incarichi pubblici di natura politica debba fare un passo indietro e aspettare l’esito del giudizio. Aspettare quindi anche un’ipotetica quanto probabile sentenza della Cassazione. In media l’attesa dura non meso di 5-6 anni, ma sono frequenti i processi la cui durata supera i 10 anni. Tempi che hanno un valore diverso a seconda della professione e dell’età dell’imputato. In politica 6 anni sono un secolo, bastano e avanzano a stroncare una carriera, a far mutare il corso degli eventi, a rendere inutile un’eventuale pronuncia assolutoria al termine dell’iter processuale.

Assistiamo in questi giorni alla tempesta mediatico-politica ribattezzata Rubygate e non ci sorprendiamo minimamente che la discussione politica verta su atti processuali che ancora devono essere dibattuti in giudizio. In quelle trascrizioni delle intercettazioni non si parla di politica, ma di comportamenti privati di Berlusconi. Che tali comportamenti abbiano o meno una rilevanza penale, non spetta nè al lettore nè ai giornalisti deciderlo. Certo, un comportamento moralmente riprovevole pur non essendo penalmente rilevante lo è politicamente. Questo è il ragionamento di chi muove contestazioni politiche al Presidente del Consiglio. Ma un’intercettazione che non attiene a responsabilità penali non deve e non può essere resa di dominio pubblico. E’ ragionevole pensare che non si istruiscano processi che indaghino sulla dubbia moralità di un individuo.

A questo punto, a me vien da porre una semplice domanda: su cosa si basano le contestazioni politiche? Berlusconi non governa l’Italia perchè distratto dalle sue feste private? Berlusconi fa una politica eterodiretta dal Vaticano sulle questioni etiche, difende la famiglia tradizionale (a parole) ma ha una vita privata in contrasto con la morale sostenuta politicamente? Non mi sembra siano queste le contestazioni. Il fuoco di fila avversario si sta concentrando sulle intercettazioni telefoniche, soprattutto sul contenuto moralmente esecrabile.

Scopriamo così, per l’ennesima volta, che l’intercettazione – strumento di ricerca della prova – serve anche da strumento d’ informazione giornalistico-politico. Il tutto in una fase in cui il processo non è nemmeno iniziato. Uno stravolgimento del fine dello strumento investigativo attraverso l’utilizzo di esso in un campo extraprocessuale. Di questo si tratta, ma se ciò è utile a far cadere Berlusconi, si può soprassedere su questa distorsione pericolosa. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Una condanna morale e politica in attesa del giudizio.

Bunga bunga, due, tre, dieci ragazze che danzano ai piedi del capo; cinquemila, diecimila euro, gioielli, tette e culi. Sesso e denaro, “politicamente parlando”.
Anche questa? Beato lui. Che schifo, è un malato. Queste sono le reazioni dei cittadini italiani leggendo gli aggiornamenti del Rubygate e i commenti dei politici. E’ l’immoralità del Cavaliere l’argomento politico. Si parla del contenuto degli atti processuali più che dei reati contestati a Berlusconi. E’ del contenuto che deve rispondere all’opinione pubblica il “drago” di Arcore. Quindi, perchè meravigliarsi se Silvio Berlusconi tenta di spostare la questione dal piano processuale al piano politico? Il comportamento moralmente riprovevole non ha nulla a che fare con il processo. E’ argomento politico. Non è stato Berlusconi a spostare la questione sul piano politico, lo hanno fatto le forze politiche di opposizione che hanno chiesto le sue dimissioni da Presidente del Consiglio sulla base degli atti processuali.

Questo è un cortocircuito politico-giudiziario che rafforza la difesa del Premier. Perchè la partita si sta giocando sul piano politico oltre che su quello processuale. Sul versante giudiziario Berlusconi sa benissimo che il percorso è pieno di insidie e potrebbe riservargli anche una eventuale condanna, quindi meglio prendere tempo.Sul fronte politico invece potrebbe giocare all’attacco chiedendo una rilegittimazione forte e dirompente attraverso il voto.

E così, ancora una volta, il condannato in attesa di giudizio potrebbe riproporre agli italiani il referendum sulla propria persona. Una campagna elettorale, l’ennesima, dove non si discuterebbe nè delle riforme necessarie al Paese nè del perchè non sono state fatte pur avendo una maggioranza unica nella storia repubblicana. Qualcuno vuole davvero bene a Berlusconi al punto da avergli regalato l’alibi per portare l’Italia allo scontro finale. La politica può aspettare. Ora c’è il bunga bunga.


Il Cav si salverebbe se dice che a lui piacciono i trans

Il Cav si salverebbe se dice che a lui piacciono i trans - PRIMO PIANO - Italiaoggi
Il Cav si salverebbe se dice che a lui piacciono i trans

di Serena Gana Cavallo   italiaoggi.it   20110125

Berlusconi ha una ottima via d'uscita dallo scandalo Ruby, ed è in una delle tante intercettazioni.

Ne uscirebbe accompagnato da un coro unanime e da alti proclami dell'inopportunità di sindacare i comportamenti sessuali, in specie se devianti, come già ad altri è capitato.

C'è una conversazione registrata tra Emilio Fede e Lele Mora in cui i due si scambiano commenti sulle ospiti di una serata e su due ragazze(?) russe il commento concorde è che «quelle sono travestiti».

Basta riandare alle cronache ed ai commenti sul caso Marrazzo per capire che se Berlusconi avvalora l'ipotesi, il gioco è fatto. Naturalmente Marrazzo si dimise, ma solo perché era stato oggetto dichiarato di un tentativo di ricatto, fotografato oltre che col trans, con della cocaina, che lui disse essere stata messa a bella posta dai due carabinieri, ma di cui ammise il massiccio uso. Tutti, ma proprio tutti, i giornali dabbene, dissero che speculare e fare sordide illazioni e ancor più battute ironiche o pecorecce sulla vicenda era squallido e inappropriato ed inoltre feriva la famiglia dell'incauto governatore della regione Lazio, i cui gusti sessuali erano comunque affar suo. Naturalmente Marrazzo si era recato ai suoi convegni con la macchina di servizio e con la stessa aveva fatto accompagnare un trans, quello con cui era stato sorpreso dagli aspiranti ricattatori in divisa, ma questi erano molto evidentemente peccati veniali.

La storia è contornata da tre morti sospette, una delle vittime disse che Marrazzo le aveva dato ventimila euro per farsi operare, ma vai a credere a quello che si dice, per sentito dire, in certi ambienti!

E poi la sua più strenua difesa fu quella del trans Natalie, che disse che il loro rapporto era anche un forte legame affettivo che durava da anni e che i soldi che le dava erano più che altro regali perché lui era generoso. Marrazzo scelse con intima riflessione e pubblici annunci di rifugiarsi in un convento e così si mise in pace con Dio e con il giudizio dei cattolici, che, ovviamente, ne furono commossi.

Ecco, Berlusconi non deve dimettersi, in assenza di prove manifeste e inequivocabili, ma potrebbe dire che le ragazze erano solo uno schermo perché a lui piacciono i trans, infatti due suoi ospiti ne notarono un paio. Potrebbe poi decidere anche lui per un ritiro spirituale, uscendo solo una volta a settimana per il consiglio dei ministri. Oltre tutto, più legittimo impedimento di così!


lundi, janvier 24, 2011

Cari compagni, per il nostro bene, fermatevi

Cari compagni, per il nostro bene, fermatevi | The Frontpage



Così furono nascoste le prove nell’inchiesta sul pool di Milano

Il Giornale - Così furono nascoste le prove nell’inchiesta sul pool di Milano - n. 4 del 24-01-2011
Così furono nascoste le prove nell’inchiesta sul pool di Milano

di Giancarlo Lehner*        ilgiornale.it   20110124

Nel ’96 la procura di Brescia ordinò per tre volte alla Digos di recuperare i tabulati dei cellulari dei pm di Mani pulite. Ma sui telefonini di Di Pietro e compagni non fu mai fatto nessun controllo
L’articolo tre della Costituzione riguarda tutti i cittadini italiani, salvo i magistrati di Milano. La mia non è l’opinione di parte di un berlusconiano, perché, in qualche modo, di questo privilegio sono rimasto vittima: avvenne nel corso di uno dei procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa intentati contro di me proprio dai magistrati del pool di Mani Pulite.
Al fine di difendermi io stesso e i miei avvocati avevamo fotocopiato gli atti dell’inchiesta che la procura di Brescia aveva condotto sulla fuga di notizie che il 21 novembre del 1994 permise al Corriere della Sera di ricevere dalla procura di Milano, in tempo reale e in copia cartacea, due delle tre pagine dell’invito a comparire dei magistrati milanesi a Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, all’epoca alla guida del suo primo governo, si trovava a Napoli per partecipare da «padrone di casa» a un convegno internazionale sulla criminalità organizzata. Fotocopiando dunque il faldone «Buccini - Di Feo» (dal nome dei giornalisti del Corriere che grazie alla fuga di notizie misero a segno lo scoop, Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo) mi era capitato tra le mani un fascicolo vuoto. Il frontespizio recitava: «Tabulati utenze cellulari magistrati milanesi». Il pm bresciano che indagava sulla fuga di notizie aveva insomma ordinato alla polizia giudiziaria di raccogliere i tabulati dei cellulari dei pm del pool per verificare date, orari, periodicità delle eventuali telefonate intercorse tra le toghe milanesi ed i cronisti del Corsera. Ma, nei faldoni dell’inchiesta, questi dati non c’erano: la polizia giudiziaria aveva, dunque, disatteso l’ordine del magistrato. Senza, peraltro, esserne chiamata mai a rispondere.
Il 6 ottobre 2000 il mio avvocato, Pietro Federico, pone la questione in tribunale, dicendo: «Su nostra istanza la Procura della Repubblica di Brescia, ha scritto al dottor Mariconda (dirigente della Digos alla questura di Brescia, ndr) chiedendo chiarimenti sulla mancanza di questi atti». Il dottor Mariconda, il 29 giugno 2000, aveva risposto: «In riferimento alla delega del 13 marzo 1996, a firma del dottor Salamone e dottor Bonfigli (i pm che indagavano sulla fuga di notizie, ndr), l’ufficio aveva rappresentato al pubblico ministero l’oggettiva difficoltà ad acquisire presso la Procura di Milano le utenze dei cellulari dei magistrati di quel capoluogo, in particolare il dottor Borrelli, D’Ambrosio, Colombo, Greco, Davigo e Di Pietro. Con ulteriore delega del 13 giugno 1996 il dottor Bonfigli richiedeva l’acquisizione presso il Comune di Milano dell’elenco delle utenze cellulari assegnate dal Comune alla Procura di Milano nel periodo settembre-dicembre 1994. L’ufficio, con nota del 9 ottobre 1996, forniva l’elenco delle utenze fornite dal Comune senza poter indicare a quali magistrati fossero assegnate. In data 11 novembre 1996, il dottor Bonfigli conferiva all’ufficio ulteriore delega per verificare se dalle utenze in uso ad alcuni giornalisti erano state effettuate o ricevute chiamate presso utenze in uso ai magistrati della Procura di Milano. Alla delega veniva allegata una nota dell’allora procuratore di Milano, dottor Borrelli, con l’elenco dei magistrati e delle utenze a loro assegnate. È doveroso precisare - aveva dichiarato l’uomo della Digos - che l’ufficio ha esaminato esclusivamente i tabulati relativi ai giornalisti segnalati, mentre nessuna attività di riscontro è stata svolta riguardo ai tabulati delle utenze dei magistrati».
L’avvocato Federico prima a Cles, quindi in appello a Trento e, di nuovo, nella reiterazione dell’appello a Bolzano, chiese che fosse ascoltato il dirigente Digos Mariconda perché rispondesse alla seguente domanda: «È vero che mai nessun controllo venne da lei effettuato sulle utenze in entrata, in uscita, in partenza dai cellulari dei magistrati del pool di Milano querelanti, e comunque implicati e interessati ai procedimenti oggetto di causa, pur essendo stato disposto un accertamento dal dottor Bonfigli di Brescia?». Ma Mariconda non si degnò mai di venire in processo, nessuno lo costrinse a testimoniare e, alla fine il tribunale, specificamente quello di Bolzano, ritenne irrilevante ai fini dell’accertamento della verità la presenza del Mariconda.
Io, naturalmente, fui condannato.
*Deputato Pdl


dimanche, janvier 23, 2011

“Volevamo un nero incazzato ma non c’è”. F.to Seymour Hersh

“Volevamo un nero incazzato ma non c’è”. F.to Seymour Hersh - [ Il Foglio.it › La giornata ]
“Volevamo un nero incazzato ma non c’è”. F.to Seymour Hersh

di Mattia Ferraresi  ilfoglio.it  20110123

Negli ultimi anni il governo americano ha tenuto nascosto al pubblico dettagli scabrosi sulla guerra in Afghanistan e sulle operazioni antiterrorismo, ha seppellito la verità sulle forze segrete che hanno spinto George Bush e Dick Cheney a dichiarare la guerra globale al terrore, ha omesso di raccontare che questi eterodiretti manipolatori della realtà si sono infiltrati anche nelle stanze del più ripulito Barack Obama. La verità? Il metodista Bush è la mente di una crociata globale per difendere la chiesa cattolica, il generale McChrystal (licenziato da Obama, ma attualmente rappresentato in pectore nella gerarchia militare dal suo figlioccio William McRaven) è un Cavaliere di Malta, le forze speciali dell’esercito sono dell’Opus Dei; tutti muovono le pedine dello scacchiere globale con il preciso scopo di sconfiggere i musulmani e difendere il cristianesimo dagli attacchi dell’odiato saraceno.

Meno male che a raccontare tutto questo c’è Seymour Hersh, leggendario giornalista del New Yorker, quello che in Vietnam ha scoperto e raccontato il massacro di My Lai insabbiato dagli americani, quello che ha svelato i dettagli della prigione di Abu Ghraib; ma anche lo stesso che sostiene che Kennedy avesse una moglie segreta, che trattasse con la mafia, che gli ebrei abbiano pagato Hillary Clinton per andare giù pesante con l’Iran, quello che era certo che Bush avrebbe attaccato Teheran e che l’America oggi lasci al Pakistan libertà di armeggiare con il suo arsenale nucleare in cambio di un’alleanza di ferro anti iraniana. Nei salotti del giornalismo perbene, il sacerdote delle fonti anonime Hersh brilla per scomodità, si distingue per l’animosità con cui conduce la sua battaglia titanica contro il potere costituito, ma per lo storico Arthur Schlesinger Jr., che di giornalisti nella vita ne ha incontrati molti, Hersh era “il più cialtrone di tutti”.

Quando scrive per il New Yorker, magazine serissimo, il linguaggio di Hersh è sempre sorvegliato, le fonti credibili e i fatti verificabili, ché il pezzo dovrà passare fra le mani dell’ufficio di fact-checking, che non ammette appelli: le parti che non possiamo verificare saranno censurate. Quando parla, invece, Hersh rivela la sua natura complottifera e può lasciare che il giornalista mannaro che è in lui si goda il plenilunio. Lunedì ha parlato in una conferenza a Doha, in Qatar, nel distaccamento mediorientale della Georgetown University e lì ha srotolato la sua ultima teoria, quella a sfondo crociato.

L’attitudine data da Cheney ai conflitti era quella di “convertire le moschee in cattedrali e la maggioranza del comando delle forze speciali coltiva ancora questo proposito”. McChrystal e l’ammiraglio McRaven sono “Cavalieri di Malta”, ma non nel senso dell’organizzazione di solidarietà verso i poveri; “molti nell’esercito sono membri dell’Opus Dei. Il loro atteggiamento non è un’eccezione nei ranghi militari: stanno facendo una crociata, letteralmente. Si considerano i difensori della cristianità dai musulmani, come nel tredicesimo secolo. Questa è la loro funzione”. Giustamente sbigottito, il pubblico potrebbe chiedersi com’è possibile che un’organizzazione trasversale controlli gli sforzi di una nazione, chi sono i suoi membri, come si riconoscano fra loro. Il vecchio Seymour ha una risposta per tutti: “Hanno delle insegne di riconoscimento, dei piccoli medaglioni che si passano a vicenda. Quelle sono le medaglie dei crociati”. E che dire della Tunisia? Potrebbe la caduta di Ben Ali non rientrare nello schema? “Era un ottimo alleato”, dice Hersh, convinto che con la rivolta orchestrata a Tunisi i crociati abbiano ottenuto una vittoria che “farà paura a un sacco di gente”. E la colpa di tutto questo non è solo del cattivo, Bush, quello che un giornalista italiano altrettanto ben informato chiamava non a caso “Goffredo di Buglione”; anche Obama è connivente: “Proprio quando avevamo bisogno di un nero incazzato, non l’abbiamo trovato”, ha detto in segno di insoddisfazione per la direzione presa dalla Casa Bianca in politica estera, sapendo che nessun giornale serio gli permetterebbe di scriverlo.


Il Walter marchionnizzato

Il Riformista
Il Walter marchionnizzato

di Ritanna Armeni  ilriformista.it   20110123

Ieri al Lingotto Veltroni ha ucciso il veltronismo. Ha operato lo strappo con decisione, senza mediazioni e compromessi, senza rituali “ma anche”. Ha detto di volere un partito autosufficiente, che non si perda in coalizioni etorogenee e in inutili frontismi, che ritrovi dentro, solo dentro se stesso, la sua forza. Il resto - se mai - seguirà. Apparentemente può apparire una riproposizione dell’autosufficienza e dell’idea maggioritaria che già venne usata per rompere con la sinistra prima delle ultime elezioni, ma non è così.
Ciò che Veltroni ieri ha buttato via è ogni idea di rinnovamento del partito e di rapporto con ciò che anche nella società emerge a sinistra. Quella del Lingotto due è una proposta di partito assai diverso da quello “americano” che la stagione felice del veltronismo aveva fatto intravedere e al quale, anche chi non era d’accordo, doveva riconoscere una certa capacità di fascinazione. Si voleva un’organizzazione senza correnti, ma con gruppi, linee politiche anche lobby che si incrociavano e si scontravano. Un crogiolo di idee, magari confuse, capaci di convivere perché erano idee, appunto, e non ideologie. Un partito che rompeva con il passato perché si adeguava ai nuovi tempi, lo criticava, ma non lo rinnegava. E che, nella sua indeterminatezza conteneva un elemento di forza: l’apertura al nuovo, la scoperta di diverse frontiere, il rispetto per le idee degli altri, una disposizione al rischio. E un dichiarato, anche se non completamente sincero, antiburocratismo.
Forse ha ragione Giorgio Guazzaloca che ieri in una lettera al Foglio ha scritto lapidariamente: «Veltroni va a Lingotto. Non si dovrebbe mai tornare dove si è stati felici». La felicità di quella stagione politica appare, infatti, definitivamente sepolta. Il veltronismo scompare ufficialmente dalla vita politica italiana. Al suo posto vi è ormai un’altra proposta. Quanto felice? O, almeno, quanto efficace?
Veltroni nel suo discorso, ha letto pienamente (anche perché questo permette la critica più aspra alla segreteria di Bersani) l’incapacità del Pd di rispondere alla crisi del berlusconismo, ha sottolineato il paradosso tutto italiano per cui alla caduta verticale della credibilità del premier e del suo governo non corrisponde un ampliamento dei consensi del maggior partito di opposizione. Ma pensa di superare questa contraddizione in due modi. Il primo riguarda proprio il partito. Che immagina possa uscire dalla sua crisi chiudendo porte e finestre, divenendo una monade che si rifiuta di guardare quello che c’è fuori di sé e quindi ogni ipotesi di contaminazione e di critica. Anche le esperienze dell’Ulivo e dell’Unione appaiono evidentemente troppo rischiose per chi non vuole mettersi in discussione. L’ex segretario sa bene che oggi nel Pd c’è una forte tensione di sinistra, una tendenza alla radicalizzazione, una critica ai gruppi dirigenti difficilmente contenibile. L’unico modo per bloccarla è appunto la chiusura. Ogni apertura, anche piccola, potrebbe avere un effetto valanga e potrebbe portare il Pd da un’altra parte. Il dibattito tutto interno e l’autosufficienza garantiscono contro questo rischio.
Il secondo modo individuato da Walter Veltroni per rispondere alla crisi dei consensi riguarda i contenuti di quel partito che si vuole chiuso e fuori da ogni rinnovamento. L’ex segretario si è pronunciato sulla madre di tutte le questioni, la Fiat, per sposare completamente la posizione di Sergio Marchionne, per definire l’operazione Fiat Chrysler «di importanza strategica per il futuro del paese», per ribadire il pieno consenso agli accordi di Pomigliano e Mirafiori e «il rispetto l’ammirazione e la gratitudine per chi ha votato sì». Parole chiare, non si può negare, che contribuiscono a dipingere il partito voluto dall’ex segretario: chiuso e marchionnizzato nei contenuti e nel metodo. Il metodo Marchionne non ricorda, infatti, la rottura con ogni continuità con la storia e la cultura del suo partito di provenienza, il Pci, e la chiusura alla Cgil ai lavoratori della Fiom ai quali nel suo discorso la massima concessione di Veltroni è quella del dialogo?
Se al Lingotto due il veltronismo è morto è indubbiamente nata una nuova corrente del Pd. Non sappiamo quanto forte. Sicuramente moderata nei contenuti. Che darà battaglia su quello che qualcuno ha felicemente definito il marchionnismo di sinistra. Finché rimarrà nel Pd. Fino a quando?