mercredi, septembre 29, 2010

Donne pazze una volta al mese Che scoperta, chiedete ai mariti


Donne pazze una volta al mese Che scoperta, chiedete ai mariti
Donne pazze una volta al mese Che scoperta, chiedete ai mariti

di Gabriele Villa  ilgiornale.it   20100929




Per i medici americani che aggiornano il manuale delle malattie mentali la sindrome premestruale è una patologia da curare

Quando esagerano, ammettiamolo, esagerano. Le donne? No, gli psichiatri. E peggio ancora gli psichiatri che parlano di donne, che pretendono di capire e interpretare il più ininterpretabile universo. Quello femminile.

Veniamo al dunque. Le donne ci infastidiscono? Ci irritano e si irritano sistematicamente? E quel «sistematicamente» è legato, una volta al mese, a «quei giorni»? Alzi la mano chi non l’ha, pensato, constatato e, magari, anche apertamente rinfacciato alla sua compagna mostrando, certo, mancanza di tatto, di sensibilità e ovviamente anche di tolleranza.

Ma che ora gli psichiatri arrivino a considerare «quei giorni», cioè scientificamente parlando, la sindrome premestruale, come l’anticamera della pazzia, beh, francamente, ci pare una bella panzana. Una panzana però catalogata, certificata ed entrocontenuta nella prossima edizione, la numero 5 per l’esattezza, del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, il fondamentale tomo redatto dall’American Psychiatric Association, considerato uno degli strumenti diagnostici più utilizzati da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo per inquadrare il problema di cui soffre il paziente che si trovano di fronte. Bene, la revisione di questo manuale, prevista per il 2013, potrebbe catalogare come malattie psichiatriche alcuni dei comportamenti ritenuti, fino ad ora, normali o, comunque, non così gravi da giustificare una terapia farmacologia.

Tanto che, preoccupati, alcuni senatori del Pdl hanno preannunciato un’interrogazione al ministro della Salute Ferruccio Fazio per chiedere che «l’Italia si adoperi affinché la prossima pubblicazione del Dsm V prevista per maggio 2013, non contenga elementi di patologia che a prima vista sembrano assurdi come appunto la sindrome premestruale, che è una condizione fisiologica e comune forse al 100 per cento delle donne e che nel nuovo manuale verrà invece equiparata a patologia psichiatrica». In verità sono anche molti gli psichiatri che si sono mostrati perplessi per certe «catalogazioni». E queste perplessità sono motivate dal fatto che il Dsm infatti non è solo un volume in cui si definiscono i nomi e le caratteristiche delle malattie ma dove anche le patologie affibbiate ai pazienti possono avere ripercussioni non solo sulla terapia, ma sulla possibilità di avere un lavoro o di stipulare un'assicurazione, e, cosa ancor più delicata, di condizionare i giudizi nei tribunali.

Se è vero che il termine «sindrome premestruale», introdotto per la prima volta negli anni Sessanta, dai professori Greene e Dalton, sarebbe, in buona sostanza, una sorta di reazione autoallergica, dovuta a un’eccessiva produzione di ormoni da parte dell’ipofisi nella fase post-ovulatoria, è anche vero che ci sono parecchie donne (non è una constatazione maschilista, è solo una constatazione) in cui la differenza fra «quei giorni» e gli altri giorni del mese non si nota affatto. Nel senso che molte, non tutte per carità, delle nostre compagne, fidanzate o mogli sono e restano isteriche, irritabili e irritanti per 365 giorni all’anno. O quasi. Allora dov’è la differenza? Dov’è la sorprendente e un po’ sospetta patologia clinica individuata dall’American Psychiatric Association? Non sarà che qualche marito, magari psichiatra e magari stanco di subire soprusi in famiglia, stia cercando un appiglio scientifico per far internare la moglie? Confermando così la tesi di Woody Allen: «Lo psichiatra è un tizio che vi fa un sacco di domande costose che vostra moglie vi fa gratis». E se così non fosse, se fossero in buona fede, non sarebbe meglio che i dottori della mente mettessero una buona volta il loro cervello al servizio del genere maschile per indicarci antidoti e contromisure per sopportare pazientemente i decibel femminili? Ma sempre, non soltanto in «quei giorni».


mardi, septembre 28, 2010

L'ingenuità non si addice al presidente della Camera

L'ingenuità non si addice al presidente della Camera
L'ingenuità non si addice al presidente della Camera
di Sergio Luciano italiaoggi.it  20100927

Ho due cognate e un cognato. Una circostanza, che non considero né un merito né una colpa: sono cose che non si scelgono! Ottime persone, che stimo, cui voglio bene. Ma, come dire, con tutte le cose che sia io - nel mio piccolo - che loro abbiamo da fare, non è che stiamo lì a sentirci ogni giorno, a chiacchierare, a fare convenevoli. Quando capita è nelle occasioni di famiglia, dove è raro che si parli di lavoro. E quando, una volta ogni tre anni, alla fine di una cena capita una conversazione che lambisce il lavoro di uno di noi, la cosa si ferma sempre alla superfice. Fanno tutti e tre i medici, tanto per dire, ma non mi sono mai sognato di andare a chiedere consigli proprio a loro. Oltretutto, viviamo in quattro città diverse. Ebbene, anche Gianfranco Fini ha almeno un cognato. Il quale non solo s'interessa del suo lavoro (questo è più che normale, visto che stiamo parlando della terza carica dello Stato!) ma si ritrova ad apprenderne un elemento di dettaglio, estremamente specifico. Uno potrebbe immaginarsi che, parlando col presidente della camera, suo cognato gli chieda, che so, che ne è del federalismo, se Mara Carfagna è davvero così carina anche dal vivo, se Antonio Di Pietro i congiuntivi li sbaglia per vezzo o proprio per ignoranza. Nossignore: parlando tra cognati, Gianfranco (Fini) e Giancarlo (Tulliani) si mettono a chiacchierare, non di come va l'integrazione della ex An nel Pdl, non se Ignazio La Russa è così aggressivo come sembra e se Maurizio Gasparri ci fa o ci è, ma di un appartamento, cespite nemmeno unico di un cospicuo lascito ideologico, a Montecarlo. E del modo migliore per realizzarlo. Ora, se Tulliani di mestiere avesse fatto l'agente immobiliare, se fosse stato il titolare di un'agenzia a Montecarlo, magari la più importante, o comunque tra le migliori: e vabbè, ci poteva anche stare che Fini, parlandogli, gli avesse chiesto di occuparsi della casa; antiestetico, magari, inopportuno ma comprensibile. Invece, niente di tutto questo: Tulliani era semplicemente uno che frequentava Montecarlo, senza occuparsi di immobili più di un Carneade qualsiasi. Eppure quando propone al cognato un acquirente, ovvero una società anonima residente in un paradiso fiscale, questi (che pure, di mestiere, da politico, è pro-tempore presidente della Camera e sta armando un fuoco di fila di critiche contro il suo leader Berlusconi) ebbene questo supercognato non si stupisce, non si fa minimamente venire in mente l'idea che magari, per il suo partito, vendere a una controparte residente in un paradiso fiscale poteva far pensare a un intrallazzo: macchè. Acconsente e vende. Al prezzo giusto? Vattelapesca; si direbbe di no, ma il prezzo giusto non esiste, come sa chi durante l'ultima guerra ha potuto acquistare a due lire, ad esempio, quadri di valore inestimabile che nessuno, in quel momento, avrebbe potuto pagare di più. Fini ha parlato di ingenuità, ma per lui, esattamente come per Claudio Scajola, sarebbe difficile, volendo essergli amico, scegliere cosa augurargli: se alla fine a suo carico emergerà un intrallazzo, cioè una truffa, con lui, come minimo, silente e quindi consenziente, ma allora colpevole; o si rivelerà come i garantisti sperano, una bolla di sapone, ma allora tanto più resterà, anzi giganteggerà, negli annali italiani, la traccia di questa monumentale asserita ingenuità, un puro eufemismo per non autoflagellarsi troppo, una pura metafora per non beccarci una querela. In generale, siamo tutti d'accordo che non è il caso di farsi governare dai delinquenti (salvo che siano colleghi e appartengano alla nostra stessa cosca) e la storia italiana dimostra che, in passato, questo è successo frequentemente, mentre tuttora, secondo molti magistrati, continua ad accadere, stando alle loro ancora indimostrate accuse. Ma se non è assolutamente il caso di farsi governare dai delinquenti, non si vede perchè dovrebbe essere preferibile farsi governare dai deficienti o, attenuiamo pure, dagli ingenui. Diciamo cosi, e senza la minima allusione: nella vita, meglio un delinquente che un deficiente. Col delinquente ti puoi difendere, quanto meno puoi trattare: «O la Borsa o la vita». Questa, in fondo, è pur sempre, per estrema che sia, una proposta commerciale. Ma con un deficiente non hai ripari, non hai argomenti, non hai speranze.


lundi, septembre 27, 2010

Ecco perché il Cav non deve essere stappato

Ecco perché il Cav non deve essere stappato -
Ecco perché il Cav non deve essere stappato
di Marcello Veneziani  ilgiornale.it    20100927


Lo accusano di frenare il sistema politico e ostacolare la Terza Repubblica. Ma se Berlusconi lascia, il bipolarismo salta e il Paese verrà sommerso dai liquami della vecchia casta. Governicchi e moltiplicazione dei partiti sarebbero assicurati

Sì è vero, Berlusconi è il tappo del sistema politico italiano che blocca o fre­na il suo pieno manifestarsi. Berlusconi è il tappo che impedisce la fuoriuscita dei liquami della partitocrazia. Se salta il tappo, salta quello straccio di demo­crazia bipolare su cui ha retto la Secon­da Repubblica, garantendo almeno l’al­ternanza. Si passa alla Terza Repubbli­ca, che magari non sarà la Prima, ma con lei farà rima. Se salta il tappo, che per molti politici e politologi è la causa di tutti i mali presenti e della caduta così in basso della nostra politica, si dispie­gherà finalmente la politica come voi de­siderate. E allora verrà il bello: il centrodestra si farà in quattro, e il centrosini­stra pure. Più un paio di terzi­ni della politica che preten­deranno di giocare al centro. Insomma verrà raddoppiato il quadro politico presente che nato bipolare con ten­denza al bipartitismo, si è già convertito al bipolarismo con tendenza al quadriparti­tismo, più Casini al centro. Ora i cinque soggetti si prepa­rano a diventare dieci. Risor­geranno sinistre radicali e de­stre sociali o dissociate, i cen­trini saranno almeno due, uno cattolico e l’altro laico, salterà il patto con la Lega e dall’altro versante con Di Pie­tro, mancando il tappo che coagula i due poli, e non escludo affatto per la stessa ragione il divorzio tra cattoli­ci democratici e sinistra de­mocratica. Se salta il tappo si verseran­no i liquami della partitocra­zia e il Paese tornerà ingover­nabile, con governi piccoli e deboli, a tempo, gioia dei po­teri forti e dei mediatori con ricattino annesso. Non che adesso siano rose e fiori, tut­t’altro; di liquami è investito anche il Pdl, ragazzi, e ci so­no affaristi e mezze tacche ma si preferisce tacere nel no­me dello schemino amico­nemico su cui regge il bipola­rismo. Non esprimo dunque un giudizio morale dicendo che poi verrà la fogna men­tre ora navighiamo in chiare fresche e dolci acque; no, la fogna c’è già, eccome. Solo che con la svolta partitocrati­ca, con il salto del tappo, la fogna non verrà più convo­gliata in due collettori, non sarà subordinata all’esigen­za di garantire la governabili­tà e la stabilità, ma diventerà il quadro del sistema. Non prospererà più dentro il siste­ma, accovacciata tra le sue pieghe, ma coinciderà con il sistema, sarà la più coerente rappresentazione del qua­dro politico. Se salta il tappo, il futuro che ci aspetta sarà una demo­crazia decapitata, acefala. Abbiamo deprecato, anzi hanno deprecato per anni, la democrazia con la leader­ship, accusandola di cesari­smo e di populismo; avremo la democrazia senza leader ma oligarchica, con tanti ca­petti di passaggio e populi­smi da passeggio. Non han­no capito lorsignori che il ve­ro problema della nostra de­mocrazia non è la leadership forte, semmai l’assenza di una leadership alternativa. E non hanno poi capito che il guaio del nostro sistema poli­tico non è la presenza di un leader troppo forte ma di una politica troppo debole, debole di proposte, di classe dirigente e contenuti. Non è la leadership a generare il vuoto di progetti e di élite , ma è il vuoto di progetti e di élite a essere riempito da una leadership forte. Il partito personale non nasce dall’im­posizione demagogico- auto­ritaria di Berlusconi, ma na­sce quando la politica non ha più niente da trasmettere e allora si lega a un leader: non è solo il caso di Berlusco­ni. Scomparsa la Dc c’è Casi­ni, scomparsa la sinistra c’è Vendola o c’era Veltroni, scomparsa la destra c’era Fi­ni. La Lega è il nome colletti­vo per dire Bossi, L’Italia dei valori è la metafora per non dire solo Di Pietro. La politica fa schifo, dice Sergio Romano sul Corsera , e subito concordo. Ma poi mi guardo intorno e vedo che cos’è oggi la magistratu­ra, cosa sono i giornali, cos’è la cultura, cos’è l’imprendi­toria signora Marcegaglia, cosa sono le élite e allora ho l’impressione che la politica sia ancora una volta, demo­craticamente, lo specchio del Paese e delle sue classi di­rigenti. Ma vi pare normale che si possa leggere a pochi centimetri dalla disamina di Romano una difesa di Fini considerato in buona fede: anche per lui, come per Scajola, fu dato a sua insapu­ta l’appartamento del suo partito al cognato e a una mi­­steriosa società con sede nei Caraibi, fu dato il contratto Rai alla suocera, e via dicen­do? Via, offendete la vostra intelligenza e la vostra digni­tà a parlare di buona fede. E a quegli altri di Repubblica che piangono la morte del dissenso in Italia, avete mai detto una sola parola quan­do i leader che voi difendete, o voi stessi, condannavate al­la morte civile il dissenso di destra? Ma con che faccia, con che stomaco venite a di­re queste cose? E il linciaggio verso il Giornale e Libero per aver fatto giornalismo d’in­chiesta e aver pubblicato ciò che è stato poi confermato, dove lo mettete? Concludo: se la politica è scesa così in basso, i giornali, e non solo loro, si sono collocati alla stessa altezza. Ma se salta il tappo, brinderemo finalmen­te coi liquami.


dimanche, septembre 26, 2010

Profumo avrebbe le doti per fare il primo ministro?

Profumo avrebbe le doti per fare il primo ministro?
Profumo avrebbe le doti per fare il primo ministro?
di Pierluigi Magnaschi italiaoggi.it   20100926

Quos Deus vult perdere, prius dementat (Dio fa prima impazzire chi vuol perdere). Questa massima latina si attaglia perfettamente alle proposte che carambolano incessantemente nello psichedelico dibattito politico italiano. Ognuna più demente dell'altra. E tutte, apparentemente, legittimate a essere prese in considerazione. Del resto, quando non ci sono più degli ancoraggi credibili, tutto diventa possibile. Appena l'amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, è stato disarcionato dall'istituto di credito che ha guidato negli ultimi 15 anni, la Repubblica ha lanciato l'idea, peregrina, di candidare questo ingombrante boss bancario alla segreteria del Pd e quindi, attraverso questa, al ruolo di premier della futura coalizione di governo se le elezioni politiche dovessero tenersi anticipatamente e se il centro sinistra dovesse vincere le elezioni. Ipotizzare Profumo alla guida di un governo in Italia, nella permanenza delle regole di governance previste dalla Costituzione in vigore (che il centrosinistra insiste nel considerarla intoccabile come se fosse una reliquia) sarebbe come voler schierare un cavallo belga, da tiro pesante lento, in una corsa da galoppo all'ippodromo delle Capannelle. Non c'entra. Profumo infatti (pur con i suoi molti errori che, alla fine, gli si sono rivoltati contro) ha costruito d'impeto e a tappe forzate l'impero bancario di Unicredit. Il soprannome che gli è stato affibbiato in questi anni (quello di mister Arrogance, il signor Arroganza) non è un epiteto ma una puntuale descrizione che raffigura il suo modo di procedere, alla bulldozer. Profumo, in nome della «costruzione di valore» ha arrotato tutti i dubbiosi, scartato chi faceva riserve sulle sue scelte, divelto chi gli ostacolava il cammino. Aveva una missione: la creazione di valore. In nome di quella, Profumo ha fatto ciò che voleva. Infatti il suo ruolo di Mr Arrogance si è sgonfiato quando il valore creato si è ridotto. La domanda che gli azionisti (sino a poco tempo fa appiattiti dietro Profumo) gli rivolgevano con sempre minore timidezza era: tanta arrogance per così pochi utili? E, a un certo punto, gli azionisti che hanno subito l'arrogance di Profumo gliel'hanno usata contro. Profumo in politica sarebbe come Laocoonte, bloccato da decine di Fini, discusso da decine di Veltroni, braccato da centinaia di pm. Nella politica italiana possono sopravvivere solo gli amebici, gli invertebrati. Un gigante muscoloso, volitivo e autoreferente come Profumo ne uscirebbe polverizzato.


Travaglio ad Annozero preferisce nascondere il fatto

Travaglio ad Annozero preferisce nascondere il fatto
Travaglio ad Annozero preferisce nascondere il fatto
di Diego Gabutti italiaoggi.it  20100925

Marco Travaglio, l'altra sera ad Annozero, mentre il parterre antiberlusconiano straparlava di documenti falsi e di trame dei servizi segreti, sapeva oppure non sapeva dell'intervista che il ministro della giustizia di Santa Lucia, L. Rudolph Francis, aveva rilasciato poche ore prima al Fatto quotidiano, il suo giornale? Un'intervista importante per la trasmissione: Francis attestava l'autenticità del documento che tutti i convenuti, escluso soltanto Roberto Castelli, definivano fasullo. Difficile credere che Travaglio non lo sapesse. Ma ammettiamo che non ne sapesse niente (tutto può essere, anche che esista la Befana, o che Akupara, la tartaruga gigante del mito induista, regga la terra sulla propria schiena). Ma allora perché nessuno, dalla redazione del Fatto quotidiano, lo ha chiamato o ha chiamato Santoro per consigliare prudenza rivelando loro che il ministro caraibico, con un intervento telefonico dalla lontana laguna blu fiscale, aveva appena dichiarato che la firma sul documento era proprio la sua? Travaglio in persona, oppure il suo giornale, tacendo la notizia che il documento era autentico a milioni di telespettatori, hanno reso un pessimo servizio, oltre che alla platea televisiva, anche a Michele Santoro, che ha messo in piedi una puntata d'Annozero ancora più dadaista del solito, basata su premesse persino più false del normale. In pratica Travaglio, il Fatto quotidiano e Santoro hanno diffuso (tacendo per l'intera serata una notizia vera) un documento televisivo falso. Che ci siano dietro i servizi segreti?


samedi, septembre 25, 2010

Quel che i giornalisti non scrivono perché corrono come criceti nella ruota

Quel che i giornalisti non scrivono perché corrono come criceti nella ruota


di Marco Valerio Lo Prete   ilfoglio.it   20100925
L'inchiesta della Columbia sui reporter americani
Quel che i giornalisti non scrivono perché corrono come criceti nella ruota
Si raccolgono notizie in tempi sempre più stretti e grazie a reporter sempre meno esperti; notizie controllate da un numero di redattori e correttori sempre più esiguo e con minore esperienza

“Corriamo tutti come forsennati, come dei ratti”. Così un importante giornalista del Wall Street Journal, il quotidiano edito da Rupert Murdoch, descrive i ritmi di una tipica giornata in redazione. E la sua è solo una delle numerose testimonianze raccolte da Dean Starkman per l’ultima inchiesta di copertina della Columbia Journalism Review, intitolata “La ruota del criceto”, ovvero “perché correre il più possibile non ci sta portando da nessuna parte”. Il bimestrale della blasonata Columbia School of Journalism ha dedicato un lungo reportage a un’allarmante tendenza che interesserebbe i media americani, i quali “raccolgono notizie in tempi sempre più stretti e grazie a reporter sempre meno esperti; notizie che prima di essere pubblicate vengono passate con rapidità da un numero di redattori e correttori sempre più esiguo e con minore esperienza”.

A sostegno della tesi, si prenda per esempio la routine di Chuck Todd, capo dei corrispondenti alla Casa Bianca per la rete Nbc: “In una giornata normale registra tra le otto e le sedici interviste per Nbc o Msnbc; conduce il suo nuovo programma, ‘The Daily Rundown’; interviene regolarmente su ‘Today’ e ‘Morning Joe’; scrive tra gli 8 e i 10 interventi quotidiani per Twitter e Facebook; compone tra i tre e i cinque post per il suo blog”. Il tempio del giornalismo (liberal) non si schiera a priori contro la velocità e la rapidità necessarie a confezionare un buon prodotto editoriale: “D’altronde è il motivo per il quale il termine giornalismo inizia per ‘giorn-’”. Né l’inchiesta mette in discussione il totem della produttività dei giornalisti: “Sono anch’io un editor – scrive Starkman – conosco i redattori e il loro bla-bla del tipo: ‘Ho bisogno di più tempo per addentrarmi nella storia’”.

Allora, dov’è il problema? E’ quasi tutto in un grafico il quale dimostra che “la ruota per criceti – nel mondo dei media – esiste veramente”: dieci anni fa la redazione del Wall Street Journal, ammiraglia dell’informazione finanziaria a livello planetario, “produceva” circa 22.000 articoli all’anno; nel 2010 i giornalisti dello stesso quotidiano di storie ne hanno scritte 21.000, ma il conteggio si ferma ai primi sei mesi dell’anno. Altri sei mesi e il risultato del 2000 sarà probabilmente doppiato, senza contare l’aumento esponenziale di contenuti editoriali prodotti esclusivamente per il Web. “Nel frattempo il numero degli autori di queste storie è diminuito” e oltreoceano i giornalisti stanno “facendo di più con meno”. Non vale solo per il Wall Street Journal (tra il 2000 e il 2008 Murdoch avrebbe ridotto lo staff del 13 per cento): mentre il 75 per cento dei direttori giura che negli ultimi tre anni il numero di storie messe in pagina è rimasto stabile o aumentato, contemporaneamente – rivela il Pew Research Center – il numero di giornalisti si è ridotto di un quarto.

“La ‘ruota per criceti’ non è sinonimo di velocità; è movimento per l’amore del movimento. E’ volume senza riflessione. E’ panico da notizia, mancanza di disciplina, incapacità di dire no”. Le ragioni di questa evoluzione sono tante e ancora dibattute: “Un modello al collasso, un nuovo paradigma in arrivo, una cacofonia di nuove voci. E in quest’oscurità s’intravede tra l’altro un modello d’informazione online che equipara il traffico Web ai dollari della pubblicità (anche se in realtà la connessione è meno lineare di quel che si creda)”. Quel che è certo è il risultato: prima il giornalista era “incentivato” a presentare storie il più approfondite possibile, ora l’impulso è a produrre articoli che possano essere aggiornati rapidamente e attrarre clic. Ovviamente, con meno tempo per raccogliere e analizzare le informazioni, tra le fonti giornalistiche diventano determinanti gli addetti alle pubbliche relazioni. Al punto che ormai, quando si contattano le fonti primarie, “tutto viene fatto di fretta. I reporter non vogliono avere una discussione, ma solo una risposta per i loro articoli”, spiega la direttrice della comunicazione della Casa Bianca. Con l’ulteriore conseguenza che spesso la stampa finisce per delegare ad altri soggetti ogni capacità di decidere le priorità dell’informazione. Il risultato non è, banalmente, una riduzione della qualità di quel che troviamo in edicola o sugli smartphone. Piuttosto “la ‘ruota per criceti’ sono tutte le inchieste che non leggerete più – spiegano dalla Columbia – tutto il buon lavoro incompiuto, il servizio pubblico non svolto”.

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Il peana (stonato) rivolto a Profumo spiegato da Giancarlo Galli
ilfoglio.it   di Ugo Bertone (Giancarlo Galli)  25 settembre 2010
Il peana (stonato) rivolto a Profumo spiegato da Giancarlo Galli

E adesso? Corre voce che Alessandro Profumo potrebbe scendere in campo, per la poltrona di sindaco di Milano, contro Letizia Moratti. “Davvero? Io dubito che trovi un correntista di Unicredit che lo voti. Di sicuro io avrei, in quel caso, la soddisfazione di non farlo. Parlo da cliente storico, fin dai tempi del Banco di Sicilia: la gestione Profumo non ha mai avuto alcuna attenzione per il retail”. Giancarlo Galli, saggista più che giornalista che ha dedicato una vita a ricostruire le storie dei grandi banchieri, è la classica “mosca bianca” che sfugge al coro dei peana nei confronti del banchiere estromesso, a stragrande maggioranza, dalla più importante poltrona di Unicredit. Eppure, a leggere i commenti, non si possono nutrire incertezze. S’indigna Francesco Giavazzi sul Corriere, recriminando su “un errore, grave”. Rincara la dose Massimo Giannini su Repubblica: “E’ l’ultima grande operazione del capitalismo di rito berlusconiano-geronziano”. Luca Cordero di Montezemolo parla di “un lavoro straordinario sempre al fianco delle imprese”, Emma Marcegaglia ringrazia “per quello che ha fatto in questi anni”, Romano Prodi loda il “manager di classe”. Per carità, non stupisce la solidarietà dei colleghi, come Corrado Passera (“il nostro settore perde un grandissimo professionista”) o il presidente dell’Abi e di Mps, Giuseppe Mussari (“le banche perdono un validissimo rappresentante”). Ma il coro è addirittura un peana, che richiede una spiegazione. “E’ una reazione strumentale – dice Galli al Foglio – Si fa un gran parlare dell’aumento della quota dei libici, e subito si pensa ad un’operazione di Berlusconi, il gran cattivo”. Di qui a trasformare Profumo in una vittima dei giochi politici, il passo è corto. “E’ un po’ quello che succede con Fini: anche lui è un beniamino da quando gioca contro il Cavaliere. Per carità, una scelta legittima: ma ci vorrebbe un po’ di silenzio in più”.

Insomma, la simpatia per Profumo è inversamente proporzionale all’astio verso il premier. “E’ matematico: quello che piace in Profumo è l’ostilità nei confronti di Berlusconi o di Geronzi, che ha tutto per recitare la parte del personaggio misterioso e inquietante”. Per carità, Galli non è certo un tifoso del banchiere romano (“come faccio a dimenticare che la famiglia Maranghi non lo volle al funerale?”) ma rifugge dalle immagini manichee, così care a una certa agiografia: “Vorrei che Profumo mi spiegasse perché è entrato in Capitalia se tanto ci teneva a non mescolarsi con l’immagine di Geronzi”. E sulla scrivania tiene, in bella evidenza, un ritaglio del Financial Times del 22 marzo del 2007, prima dello scoppio della grande crisi, con un’intervista a Profumo dal titolo: “Noi siamo un player italiano ma non siamo una banca italiana”. “Mi spiegate – incalza Galli – il senso di queste parole poco prima di entrare in Capitalia? Chi gliel’ha fatto fare? E’ la stessa ingenuità con cui non si accorge che i libici stanno salendo?”.

Alt. Non entriamo nel merito della contesa. Sta di fatto che Profumo è il simbolo di un’epoca, quella in cui sono spuntati i delfini del dopo Cuccia. “Fu Lucio Rondelli a presentare Profumo a Cuccia – dice Galli, che al decollo della carriera dell’ex ad di Unicredit ha dedicato un capitolo del suo “La giungla degli gnomi” (Garzanti) – Penso che lui avrebbe gradito la sua scelta di uscire da Rcs. Non quella di farsi fotografare al gazebo per le primarie del Pd”. Ma non è questa la differenza che conta: semmai, conta dare uno sguardo alla busta paga: “Sa che cosa mi disse Cuccia? Io non vado più da Caraceni: con quei prezzi non me lo posso permettere. E Raffaele Mattioli viveva presso la foresteria della Comit in via Bigli. Pure Giordano Dell’Amore aveva una casa modesta. Siamo lontani anni luce da questi banchieri che pure non perdono occasione di dare lezioni sull’etica”. Non solo Profumo, per intenderci.

L’eccezione, agli occhi di Galli, resta quella di Giovanni Bazoli cui sta dedicando la sua ultima fatica (“una biografia non autorizzata, complessa com’è la figura di questo cattolico montiniano”) . E non solo per lo stipendio. “Lui ha una visione diversa della finanza, vicina all’uomo. L’esatto opposto della nidiata di McKinsey, di cui Profumo fa parte: gente che non attribuisce importanza all’aspetto delle relazioni umane, cosa che alla fine gli ha giocato contro”. E che, alla fine, peserà sul giudizio nei confronti del banchiere: così bravo agli occhi dei salotti, assai meno per i correntisti o le piccole e medie imprese che hanno subìto i diktat della banca, protesa all’espansione oltre frontiera. Come accusa la Lega. “Già, e non ci vedo nulla di male: non è stato detto in mille convegni che la banca deve tornare al territorio? La Lega si limita a tradurre in pratica questa richiesta”.

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di Ugo Bertone


Google Apps a quota 3 milioni e ora arriva l’autenticazione forte
Google Apps a quota 3 milioni e ora arriva l’autenticazione forte
http://www.pcprofessionale.it  20 Settembre 2010 di valeria.camagni




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google appsGoogle procede con la sua strategia di cloud computing legata alle Google Apps e nel corso della manifestazione dedicata al cloud in corso a Parigi in questi giorni annuncia un importante traguardo e una novità.
Tre milioni di aziende e organizzazioni in tutto il mondo utilizzano la suite di applicazioni on the cloud, per un totale di 30 milioni di utenti. E per rendere ancora più sicuro l’accesso ai servizi offerti dalle Google Apps è stata rilasciata una nuova opzione di autenticazione forte, completamente gratuita, per ora disponibile agli utenti della versione Premier (quella a pagamento per le aziende) ed Education, ma presto estesa anche agli utenti della versione standard gratuita.
Si tratta di un sistema di autenticazione a due fattori, basato su una combinazione di password e di un codice generato dal proprio cellulare e valido una sola volta, un po’ come avviene quando ci si collega ai servizi di home banking, con la differenza che questi ultimi richiedono l’uso di un apposito token che genera i codici, mentre nel caso delle Google Apps è richiesto un telefono cellulare che tutti posseggono. Google ha anche specificato che renderà disponibile in modalità open source l’applicazione di autenticazione, così che le aziende possano personalizzarla in base alle proprie esigenze.
Infine una novità per gli utenti di iPad: Google ha fatto una prima dimostrazione dell’editing di documenti Google Docs con l’iPad, la funzionalità sarà annunciata nelle prossime settimane agli utenti delle Google Apps e iPad.


Gianfranco traditore e ladro di sogni

Gianfranco traditore e ladro di sogni

ilgiornale.i   20100925   di Marcello Veneziani
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Risultato

Lo confesso: il mandante delle accuse a Fini sono io. Io e tutti quei ragazzi che hanno creduto nella destra, investendoci la vita. Noi, che possiamo comprendere i trasformismi, ma che non gli perdoneremo mai di aver svenduto i nostri sacrifici al "cognato"

Io so chi c’è dietro le carte che accusano Fini. So chi le ispira, conosco bene il mandante. Non c’entra affatto con Palazzo Chigi, i servizi segreti, il governo di Santa Lucia. È un ragazzo di quindici anni che si iscrisse alla Giovane Italia. Sognava un’Italia migliore, amava la tradizione quanto la ribellione, detestava l’arroganza dei contestatori almeno quanto la viltà dei moderati, e si sedette dalla parte del torto, per gusto aspro di libertà. Portava in piazza la bandiera tricolore, si emozionava per storie antiche e comizi infiammati, pensava che solo i maledetti potessero dire la verità.

Quel ragazzo insieme ad altri coetanei fondò una sezione e ogni mese facevano la colletta per pagare tredicimila lire di affitto, più le spese di luce, acqua e attività. Si tassavano dalla loro paghetta ma era solo un acconto, erano disposti a dare la vita. Il ragazzo aveva vinto una ricca borsa di studio di ben 150mila lire all’anno e decise di spenderla tutta per comprare alla sezione un torchio e così esercitare la sua passione politica e anche di stampa. Passò giorni interi da militante, a scrivere, a stampare e diffondere volantini. E con lui i suoi inseparabili camerati, Precco, Martimeo, il Canemorto, e altri. Scuola politica di pomeriggio, volantini di sera, manifesti di notte, rischi di botte e ogni tanto pellegrinaggi in cerca di purezza con tricolori e fazzoletti al collo. Erano migliaia i ragazzi come lui. Ce ne furono alcuni che persero la vita, una trentina mi pare, ma non vuol ricordare i loro nomi; lo infastidiva il richiamo ai loro nomi nei comizi per strappare l’applauso o, peggio, alle elezioni per strappare voti. Perciò non li cita. Sa solo che uno di quei ragazzi poteva essere lui.
È lui, il ragazzo di quindici anni, il vero mandante e ispiratore delle accuse a Fini. Non rivuole indietro i soldi che spese per il torchio, per mantenere la sezione, per comprare la colla. Furono ben spesi, ne va fiero. Non rivuole nemmeno gli anni perduti che nessuno del resto può restituirgli, le passioni bruciate di quel tempo. E nemmeno chiede che gli venga riconosciuto lo spreco di pensieri, energie, parole, opere e missioni che dedicò poi negli anni a quella «visione del mondo». Le idee furono buttate al vento ma è giusto così; è al vento che le idee si devono dare. Quell’etichetta gli restò addosso per tutta la vita, e gli costò non poco, ma seppe anche costruirvi sopra qualcosa. No, non chiede indietro giorni, giornali, libri, occasioni e tanto tanto altro ancora.
Però quel che non sopporta è pensare che qualcuno, dopo aver buttato a mare le sue idee e i loro testimoni, dopo aver gettato nel cesso quelle bandiere e quei sacrifici, dopo aver dimenticato facce, vite, morti, storie, culture e pensieri, possa usare quel che resta di un patrimonio di fede e passione per i porci comodi suoi e del suo clan famigliare. Capisce tutto, cambiare idee, adeguarsi al proprio tempo, abiurare, rinnegare, perfino tradire. Non giustifica, ma capisce; non rispetta, ma accetta. È la politica, bellezza. E figuratevi se pensa che dovesse restare inchiodato alla fiamma su cui pure ha campato per tanto tempo. Però quel che non gli va giù è vedere quelle paghette di ragazzi che alla politica dettero solo e non ebbero niente, quei soldi arrotolati di poveracci che li sottraevano alle loro famiglie e venivano a dirlo orgogliosi, quelle pietose collette tra gente umile e onesta, per tenere in vita sezioni, finire in quel modo. Gente che risparmiava sulla benzina della propria Seicento per dare due soldi al partito che col tempo finirono inghiottiti in una Ferrari. Gente che ha lasciato alla Buona Causa il suo appartamento. Gente che sperava di vedere un giorno trionfare l’Idea, come diceva con fede grottesca e verace. E invece, Montecarlo, i Caraibi, due, tre partiti sciolti nel nulla, gioventù dissolte nell’acido. È questo che il ragazzo non può perdonare.


vendredi, septembre 24, 2010

V.E. di Savoia assolto Ma nessuno paga mai

V.E. di Savoia assolto Ma nessuno paga mai

  italiaoggi.it   20100924     di Sergio Luciano  

Vittorio Emanuele di Savoia assolto dalle accuse di gioco d'azzardo illecito «perché il fatto non sussiste», nonostante i faldoni di accuse prodotti dal pm John Woodcock; l'inchiesta sulla massoneria, 24 indagati, archiviata dal Gip della stessa Procura di Potenza dove lo stesso pm spadroneggia(va); sbloccati dopo tre anni di sequestro 245 milioni di euro a Impregilo per l'inchiesta sugli inceneritori in Campania; e intanto, il 40% delle imprese italiane è impegnato in contenziosi infiniti nei tribunali civili per recuperare crediti non pagati; e solo il 3% delle denunce penali arriva a sentenza, secondo i dati dello stesso ministero. È un velocissimo album della realtà della malagiustizia italiana che, paradossalmente, non fa notizia. Non fa notizia perché, con un arco di tempo di 10-15 anni tra il momento dell'inchiesta e la sentenza definitiva, il sistema dei media non sa più tener dietro agli sviluppi delle vicende giudiziarie sbattute in prima pagina, e quindi anche gli imputati eccellenti, quando hanno la ventura di essere assolti, non solo fanno fatica a vedersi riconoscere la stessa attenzione ricevuta (subita) quando erano stati inquisiti, ma spesso, dopo tanto tempo, si chiedono se non convenga maggiormente anche a loro giocare sull'oblio anziché comunque ricordare a tutti vicende spesso dimenticate. Che i 7 mila magistrati italiani, nel loro insieme e con tutto il rispetto per quelli che fanno miracoli per arginare lo sfascio, ne siano come categoria responsabili è ovvio. Meno ovvio che mentre in Italia ogni anno si contano 15 mila cause all'anno contro i medici e 30 mila richieste di risarcimento, gli errori dei giudici restino sempre di fatto non solo impuniti ma addirittura non perseguiti né denunciati, per il timore delle parti lese di rappresaglie trasversali. Su tutto, la beffa di un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, votato nell'87 dal 65% degli aventi diritto, con un sì plebiscitario dell'86%. Ma nulla accadde. All'epoca, Silvio Berlusconi era solo un imprenditore, e di darsi alla politica neanche l'immaginava. Poi è sceso in campo e ha messo al centro dei suoi programmi la riforma della giustizia. Sacrosanta, a detta di tutti. Eppure proprio il fatto che Berlusconi, il suo principale promotore, abbia tante partite personali aperte e tanta ruggine con la magistratura, si è trasformato nel miglior argomento per i fautori dello status quo. È il destino beffardo del nostro paese: quando sarebbe necessario voltar pagina, chi si propone di farlo risulta essere anche il personaggio oggettivamente meno credibile come promotore di una riforma imparziale.



samedi, septembre 18, 2010

A volte ritornano



A volte ritornano
di Stefano Cappellini ilriformista.it venerdì, 17 settembre 2010

Ora vuole il papa straniero. L'ex leader del partito lancia una corrente con i popolari. Franceschini: «Sei irresponsabile». Bersani: «Basta fare regali a Berlusconi».

Una delle frasi storiche di Walter Veltroni è: «Sulla mia tomba voglio che sia scritto che non ho mai promosso o aderito a una corrente». All'ex segretario del Pd toccherà trovarne un'altra, di epigrafe, ora che sta per dare vita - con tanto di documento programmatico e raccolta di adesioni - alla nuova area di minoranza interna al Pd. Ma di massime da modificare, nel libretto rosso del veltronismo, ce ne sono parecchie dopo la sua ultima offensiva. La nuova scesa in campo - annunciata dalla «lettera al paese» pubblicata in agosto sul Corsera - avanza su una
strada strettissima e zeppa di contraddizioni.

Difficile scansare - agli occhi del proprio elettorato - l'accusa di aver riaperto la guerra a sinistra proprio ora che la crisi della maggioranza ha toccato lo zenit. Ancora più difficile è rilanciare la necessità di una nuova leadership - come ha fatto ieri l'ex sindaco di Roma a Repubblica tv - rimuovendo con eccessiva disinvoltura di essersi dimesso dalla segreteria col rammarico che alla sinistra «piace cambiare leader come le canottiere». Evidentemente, c'è canotta e canotta.


«Tornare al Pd delle origini», ripete Veltroni. Ma quali origini? Ricordavamo un Veltroni capace di ingaggiare una furiosa battaglia ideologica per far sì che lo statuto del Pd prevedesse la coincidenza tra la figura del segretario e quella del candidato premier: era uno dei capisaldi della«vocazione maggioritaria» e fu messo nero su bianco. Ci ritroviamo ora un Veltroni che, mentre il capo del partito Bersani si prepara acandidarsi, invoca per la premiership un «nuovo Prodi», il famoso papastraniero. E chissà cosa pensa di questa svolta lo stesso Prodi, il cuigoverno non cadde certo per l'inchiesta di Santa Maria Capua Veteresulla famiglia Mastella, bensì anche e soprattutto per la fretta dell'allora segretario democratico, convinto che ogni giorno in più con l'esecutivo del Professore in carica avrebbe logorato le sue chance di successo elettorale.

Ecco perché sulle riforme istituzionali Veltroni scelse di tendere la mano a Berlusconi, e non a Fini e Casini che nell'autunno 2007 si erano ribellati al Cavaliere. Ecco perchéancora oggi si batte per una difesa a oltranza del bipolarismo della Seconda Repubblica, sostenendo in speculare sintonia con Berlusconi il primato del consenso rispetto alle prerogative del Parlamento, e così provocando la commozione di Sandro Bondi e Daniele Capezzone, i più lesti a congratularsi per la «lettera al paese», e il fresco plauso dell'ultras berlusconiano Osvaldo Napoli («Non posso non rilevare con soddisfazione - ha detto ieri il deputato del Pdl - la coerenza con cui ha ripreso la sua battaglia»).

Il «neofrontismo» antiberlusconiano, scrive Veltroni nel documento programmatico, non va bene. Bisogna tornare alle origini. E anche qui ci si domanda quali: al tempo in cui a Berlusconi si usava la cortesia di definirlo «il leader dello schieramento a noi avverso»? O alla fase in cui il premier era diventato il portatore del virus malefico del «putinismo»? Questione alleanze: tornare a quando Di Pietro era l'alleato unico e «affidabile»? O all'ex pm «analfabeta della democrazia»?

Al seguito di Veltroni, a parte i fedelissimi, sono rimasti solo gli ex popolari fedeli a Beppe Fioroni, che da ministro dell'Istruzione scese in piazza col centrodestra per il Family Day e che era pronto a votare il decreto salva-Eluana (in effetti, il documento Veltroni-Fioroni è un po' reticente in tema di diritti civili). Una truppa più che dimezzata rispetto a quella che aveva sostenuto la candidatura di Dario Franceschini all'ultimo congresso. Del resto, lo scopo del nuovo «movimento» - così a Veltroni piace definire la sua corrente - è di pescare consensi fuori dal partito, secondo uno schema che rilancia un altro suo vecchio mantra, la convinzione di essere minoranza nel partito ma maggioranza nell'elettorato, quindi tra quel popolo delle primarie
che prima o poi sarà chiamato a scegliere il candidato premier del centrosinistra. E maggioranza pure nella società civile. Veltroni è sempre stato molto attento alla società civile. Non sempre ricambiato.

Il casting per la composizione delle liste alle politiche del 2008 ha riservato, a conti fatti, più amarezze che soddisfazioni. Chissà se nel ritorno alle origini, o nell'eventuale ricerca del papa
straniero, varranno i medesimi criteri che hanno portato al reclutamento di Massimo Calearo, il falco di Federmeccanica eletto in Parlamento con i voti di Fausto Bertinotti. Quel Calearo che ora, uscito a suo tempo dal Pd, è pronto a sostenere col voto il governo Berlusconi, rassicurando infine i familiari sul suo rinsavimento («Fai quello che vuoi, ma sappi che non ti voteremo», gli disse il padre alla notizia della candidatura nel Pd). Magari tra poco uscirà qualche nostalgico
della «nuova stagione» veltroniana a spiegare che, se uno come Calearo sta a destra, è colpa dei «traditori del Lingotto».


vendredi, septembre 17, 2010

Roms: le sondage qui donne raison à Sarkozy - Coulisses de Bruxelles, UE

Roms: le sondage qui donne raison à Sarkozy - Coulisses de Bruxelles, UE

Pietro Ichino: «Meglio Marchionne o Gomorra?»

Pietro Ichino: «Meglio Marchionne o Gomorra?»

 

Il riformista.it      20100917     di Alessandro Calvi

 

Il senatore Pd. «In Campania il lavoro è in mano alla criminalità, e la sinistra pensa piuttosto alle deroghe per Pomigliano. L'ad della Fiat ci sta facendo un favore perché ci indica i difetti del nostro sistema industriale».

 

«Marchionne ci sta facendo un favore», dice Pietro Ichino, giuslavorista e parlamentare Pd. E aggiunge: «Ci indica quali sono i difetti del nostro sistema delle relazioni industriali, che ostacolano l’attuazione del suo piano industriale. Le altre multinazionali che stanno alla larga dal nostro Paese non perdono tempo a dircelo».

Professore, ma il favore lo fa ai lavoratori o lo fa soprattutto alla Fiat?
Certo che lui agisce nell’interesse della Fiat: è il suo amministratore delegato. Ma l’Italia è, almeno da due decenni, il fanalino di coda in Europa per capacità di attirare gli investimenti stranieri: peggio di noi fa soltanto la Grecia. Ed è anche interesse nostro, di tutti i lavoratori italiani, fare una diagnosi del male oscuro che causa questa nostra pessima performance.

Qual è la diagnosi secondo lei?

Finora ci siamo crogiolati nell’idea che sia colpa soltanto dei difetti delle nostre amministrazioni pubbliche, delle nostre infrastrutture, dei costi troppo alti dei servizi alle imprese. Ora Marchionne ci avverte che una delle cause, e non ultima per importanza, è anche l’inconcludenza del nostro sistema delle relazioni industriali: il fatto che non si possa avviare un piano industriale innovativo senza il consenso di tutti i sindacati; il potere di veto che il sistema di fatto dà ai sindacati minoritari.

In che cosa consiste questo potere di veto?

Innanzitutto nel fatto che se il piano industriale richiede una deroga rispetto al modello di organizzazione del lavoro, di struttura della retribuzione, di distribuzione dei tempi di lavoro, stabilito dal contratto nazionale, questa deroga è valida ed efficace nei confronti di tutti i lavoratori solo se l’accordo aziendale è sottoscritto da tutti i sindacati. Poi c’è il problema della clausola di tregua.

Qual è il problema?

Una delle parti essenziali dell’accordo di Pomigliano è il 18mo turno, che è reso possibile da un’ora e mezza media settimanale di straordinario. Ora, i Cobas hanno proclamato lo sciopero dello straordinario fino al 2014. Secondo la nostra prassi consolidata, qualsiasi lavoratore può aderire a questo sciopero in qualsiasi momento nonostante la clausola di tregua contenuta nell’accordo.

Secondo Fausto Bertinotti la vecchia borghesia considerava spazi di conflitto, il “marchionnismo”, invece, non discute ma dice: «Queste misure sono inevitabili. Si fa così e basta».

Quando siano rispettate le leggi dello Stato, negoziare le condizioni di lavoro è compito del sindacato, non dei politici. L’accordo di Pomigliano non viola nessuna legge; ed è stato firmato da una coalizione sindacale che in quello stabilimento è maggioritaria, e che sa il fatto suo. Certo che su quell’accordo hanno influito in modo determinante le condizioni imposte dal contesto planetario. Ma chi decide su che cosa è accettabile e che cosa no, in un piano industriale, Bertinotti o il sindacato cui i lavoratori in maggioranza hanno dato il mandato di trattare?

Bertinotti dice che, se la sinistra si “marchionnizza” è spacciata.

La sinistra, finora, ha accettato tranquillamente qualche cosa di molto peggio: il lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori campani descritto da Roberto Saviano, nei sottoscala controllati dalla Camorra, a 700 euro al mese senza contributi, per dieci ore al giorno, senza alcun diritto. Questa è la “deroga allo standard nazionale” che si pratica normalmente da decenni in quella regione, altro che le deroghe chieste da Marchionne. E sono tutte aziende che potrebbero essere chiuse dall’oggi al domani, solo incrociando i tabulati dell’Inps con quelli dei consumi elettrici. Se fin qui non lo si è fatto è per paura della disoccupazione che ne sarebbe derivata.

Scusi, ma un ragionamento così costruito - o Marchionne o la Camorra, senza alternative - sembra dare ragione al Bertinotti che parla di dittatura del mercato.
Se la politica vuole dare una mano agli operai colpiti dalla concorrenza internazionale, incominci a detassare i redditi di lavoro fino a 1000 euro mensili, che possono considerarsi oggi una soglia di povertà. I 110 euro che gravano su di una busta paga di 1000 euro sono una vera e propria ingiustizia legalizzata.



mercredi, septembre 15, 2010

L'umanità non è mai stata meglio

L'umanità non è mai stata meglio

di Chicco Testa ilriformista.it 20100915

Anti-catastrofismo. Su Repubblica uno studio confermaciò che avevamo sempre sospettato.

Ieri c’erano due ottime notizie. Laprima, meravigliosa, era su Repubblica, in un bell’articolo di prima paginafirmato da Maurizio Ricci. Titolo: “2000-2010, i migliori anni della nostra vita”. L’umanità, nel suo complesso, non è mai stata così bene. A discapito del mood catastrofista dominante, ci dice Ricci, riprendendo uno studio di Charles Kenny: “Getting better” . Lapopolazione mondiale è aumentata, è più ricca, istruita e vive più a lungo. «Il
reddito pro-capite è cresciuto fino a 10.600 dollari l’anno, se trent’anni fa la metà della popolazione viveva con meno di un dollaro l’anno, oggi (a popolazione raddoppiata, ndr) è solo un quarto. Quarant’anni fa il 34% della popolazione veniva classificato come malnutrito. Oggi solo il 17%». Ancora:«Nell’arco di 8 anni la mortalità infantile è caduta del 17% e, in media, l’aspettativa di vita è cresciuta di due anni. Nel 2000 46.000 persone erano state uccise in battaglia.
Nel 2008, solo 6.000. Siamo anche più istruiti: nel mondo 4 persone su 5 sanno leggere»... «Miliardi di persone non solo stanno meglio, ma sonoanche in grado di dirselo al telefono». E i disastri ambientali, in aumento,
fanno però un numero inferiore di vittime. «La capacità delle società di far fronte ai disastri naturali è cresciuta, grazie a i progressi tecnologici, a una maggiore ricchezza, a una migliore preparazione». E infine l’ultimo bel colpo: «L’indice di sviluppo umano, che l’Onu calcola ogni anno, è un indicatore che tiene conto, contemporaneamente, della ricchezza pro-capite, dell’aspettativa di vita, dell’alfabetizzazione, dell’istruzione, è in costante ascesa da 35 anni, in ogni parte del mondo».

Unostudio di parte? No, perché è stato sottoposto a verifica da un altro istituto indipendente e la risposta , pubblicata dalla rivista Bioscience, ne conferma i risultati. La stessa rivista definisce tutto questo «il paradosso dell’ambientalista». Ed è facile capire perché.

Dopodiché la risposta al paradosso appare un po' sconcertante. O come la scoperta dell’acqua calda. Per esempio, che nonostante il deterioramento del pianeta la disponibilità di cibo è aumentata. «Globalmente, la produzione di cereali, carne e pesce ha più che tenuto il passo con la crescita della popolazione». Ma come, non eravamo vicini a vedere pescato l’ultimo povero pesce, ormai solitario? E perché? Probabilmente perché «i progressi della tecnologia stanno aiutando l’umanità a sganciarsi dalla dipendenza dell'ecosistema». Che è come dire che grazie al cielo abbiamo gli antibiotici, i fertilizzanti, anche gli Ogm, il motore a scoppio, il riscaldamento e i computer. E chissà quali altre diavolerie avremo in futuro: dalle nanotecnologie alle biotecnologie genetiche, dalla fusione all’energia solare a basso costo, dai super-super computer ai robot. Se si aggiunge che questo trend non riguarda solo gli ultimi 10 anni, ma un uguale progresso si era avuto nell’ultimo ventennio del secolo scorso e prima ancora in tutto il dopoguerra possiamo dire, un po’ all’ingrosso, che sono ormai 60 anni che il mondo continua a migliorare. E che la maledetta globalizzazione sta facendo per bene il suo lavoro. Creare ricchezza in tutte le diverse parti del mondo e aprire opportunità prima sconosciute.

Naturalmente Ricci ci mette in guardia su ciò che potrebbe succedere nei prossimi decenni.
Una crisi può sempre innestarsi per i motivi più diversi, ma per il momento, un momento molto lungo come si è detto, le cose non vanno poi così malaccio. Che non possano durare così per l’eternità è probabile. Mi pare di ricordare per esempio che il Sole ha “solo” altri 4 miliardi di anni di vita. Ma forse per quando sarà scomparso avremmo imparato a crearne uno artificiale: il tempo ci sarebbe. Ma per il momento tutte le previsioni catastrofiste, sociali, economiche, ambientali, sembrano smentite. E se mi permettete c’è una bella differenza fra una crisi che scoppia domani e una che scoppia fra 50 anni. Come campare 80 anni o morire d’infarto a 50. In fondo l’umanità cerca proprio questo: migliorare per il più lungo tempo possibile. Come fa ogni singolo essere umano pur sapendo che la sua vita non è eterna. E sono pronto a scommettere che quando si farà il bilancio dei prossimi 10 anni i miglioramenti ottenuti in gran parte del mondo bilanceranno abbondantemente le difficoltà dell’altra parte.

Rimaneda dire come mai si sia creata una così profonda differenza fra realtà (positiva) e percezione (negativa). Almeno in questa parte del mondo, dove siamo travolti ogni giorno da messaggi pessimistici o addirittura millenaristici.

Unaspiegazione può forse avere a che fare con le diverse età delle differenti parti del mondo. L’ Europa invecchia, non solo anagraficamente, ma anche psicologicamente. E come tutti i vecchi vede all’orizzonte la propria fine e rimpiange il buon tempo passato. Quando i pomodori sapevano di pomodoro e le stagioni erano le stagioni di una volta. Ma per cinesi, indiani, indonesiani, brasiliani, africani... che fanno ben più della metà della popolazione, il mondo è ancora nuovo. Anzi è agli inizi e ancora tutto da godere. E di questa negativa psicologia europea fa parte anche l’insoddisfazione di sé, come direbbe uno psicanalista. Un senso di colpa, forse giustificato dalla propria ignavia, che vuole a tutti i costi far star male chi invece sta meglio e vuole identificare la propria fine e le proprie ubbie con la fine del mondo.

Rimaneun’ultima cosa da dire. Siamo pieni di inconsapevoli reazionari che con tutte le loro forze cercano di ostacolare questo progresso. Che odiano, perché mette in discussione i loro privilegi. E come luddisti redivivi cercano di distruggerlo. Per esempio? Il movimento no-global e tutti i suoi profeti, che scambiano il loro nichilismo infantile per un sentimento condiviso. Meglio rimpiangere la Cina di Mao-Tse-Tung che riconoscere che quella attuale, troppo simile in tante cose all’ America, ha strappato dalla fame centinaia di milioni di persone.

Dimenticavola seconda buona notizia. Che Repubblica abbia pubblicato tutto ciò. Anche l’orizzonte più
nero, evidentemente, qualche volta viene squarciato da un’improvvisa illuminazione. Ma da domani, non ne dubito, si ricomincia con le catastrofiprossime venture. Certe, certissime, anzi probabili. O forse no.

Parla il re dei costruttori di Montecarlo 'La Tulliani ristrutturò l’appartamento'

Parla il re dei costruttori di Montecarlo 'La Tulliani ristrutturò l’appartamento'

di Gian Marco Chiocci (nostro inviato a Montecarlo) il giornale.it articolo di 15 settembre 2010

Il re dei costruttori monegaschi Luciano Garzelli, che si è occupato dei lavori: "Avevo contatti con la signora e col fratello. Hanno portato loro la cucina e tutti i materiali: questo è anomalo per degli affittuari". Sul prezzo: "Con 300mila euro si compra un box. Quella casa vale almeno un milione"

Prima le presentazioni, poi le rivelazioni choc. Luciano Garzelli è l’italiano più noto a Montecarlo. Avrà una sessantina d’anni ed è uno che conta tanto, ma tanto, nel Principato di Monaco. Gode dell’amicizia personale di sua altezza serenissima Alberto e dell’intera Casa Grimaldi, ed è «il» costruttore monegasco per antonomasia in quanto amministratore delegato del colosso immobiliare Engeco fondato nel 1974 da Stefano Casiraghi. In materia di case e compravendite, da queste parti, nessuno ne sa più di lui. «È la Cassazione del mattone», scherza uno dei testimoni dell’affaire Tulliani.
E testimone prezioso dello scandalo dell’estate è proprio lui, il vulcanico Luciano, al pari del figlio Stefano che il 30 luglio raccontò al Giornale di aver presenziato ai lavori nell’appartamento di rue Princesse Charlotte 14 – quale rappresentante della società di ristrutturazione Tecabat - dove il cognato di Fini (affittuario) controllava e dirigeva direttamente in loco le operazioni di restauro (pagate dalla società off shore Timara Ltd, proprietaria dell’immobile): «Insomma, c’era un rapporto diretto tra Tulliani e Timara» disse il giovane Garzelli, poi redarguito pesantemente dai superiori per le dichiarazioni incautamente rilasciate a questo quotidiano.
Se il figlio ha ricoperto un ruolo marginale, seppur attivo, nella vicenda, il padre è il dominus dell’intera operazione. A lui s’è rivolto l’ambasciatore italiano nel Principato per aiutare l’«esperto immobiliarista» (sono parole di Gianfranco Fini) a trovare società di ristrutturazione a lui gradite per rimettere a posto la casetta monegasca donata dalla contessa Anna Maria Colleoni ad Alleanza nazionale. Incontriamo Luciano Garzelli al termine di una riunione di lavoro, di fronte al porto, a duecento metri dal pulpito da cui sventola la bandiera a scacchi della Formula uno. Si vede subito che ha molte cose da dire anche perché sovrappone concetti e precisazioni. Ecco il botta e risposta. Integrale.
Intanto una premessa, signor Garzelli. Se per l’intervista del 30 luglio suo figlio Stefano ha avuto problemi sul lavoro ce ne scusiamo ma...
«Niente, non fa niente. Ormai è tutto passato. Non ne parliamo più».
Senta oggi (ieri, ndr) il Giornale ha riportato le parole del notaio Paul-Louis Aureglia (che ratificò i due passaggi di proprietà dell’apparta¬mento oggi abitato da Tulliani e che ha ipotizzato una sorta di truffa al Principato per la violazione di una legge sul diritto di prelazione sull’acquisto degli immobili «protetti» da parte del governo locale, ndr). Parla di «stronzate» fatte, di presunte truffe orchestrate intorno all’appartamento...
«(Luciano Garzelli legge il Giornale e scuote la testa). Ma lo dico pure io. Con 300mila euro a Monaco si compra un parcheggio e la cosa incredibile è che le autorità monegasche non hanno fatto alcuna operazione (di controllo, ndr)».
La potevano fare?
«E certo. 300mila euro è un prezzo sottostimato».
Scusi, ma quanto vale quell’immobile?
«Tra un milione e un milione e mezzo».
Abbiamo parlato con la Tecabat che ha ristrutturato...
«Senta, io con la mia Engeco non c’entro niente. Mi ha chiamato l’ambasciatore (Franco Mistretta, ndr) che aveva ricevuto una telefonata... - se me lo chiederà il giudice dirò da chi – Luciano c’è questa cosa da fare. Sono andato là personalmente, ho detto sono della Engeco, facciamo grattacieli, case, ponti... e mi han detto, sai siccome c’è un certo personaggio... Allora lì ho sentiti, hanno detto sono una sessantina di metri quadrati però i materiali li portiamo noi. Allora ho detto, grazie arrivederci. E me ne sono andato. E poi mi hanno richiamato».
Scusi Garzelli, ma le hanno detto che i materiali li avrebbero portati loro?
«Non “li avrebbero”, li hanno portati loro. Qui hanno messo solo in opera i materiali che hanno portato loro. La cucina, le maioiliche, il parquet, i rubinetti».
Ci perdoni, torniamo all’ambasciatore. Esattamente cosa le ha detto?
«Mi hanno chiamato per fare un lavoro qui a Montecarlo. Poi mi ha dato un telefono del signor Tulliani».
Con la signora Tulliani lei ha avuto rapporti?
«Certo. Mi ha chiamato».
Perché c’erano problemi nell’appartamento?
«Modifiche da fare, i lavori nella stanza, il muro da rompere. Il problema, insisto, è a monte. A quando è stata fatta questa vendita a trecentomila euro».
Ci perdoni l’ignoranza. Ma è normale, qui a Monaco, che un semplice affittuario scelga lui i materiali della ristrutturazione e se li faccia arrivare dall’Italia?
«Non è normale. Loro hanno fatto così. C’era anche un architetto romano che mi contattava via e-mail. Si chiama (...)».
A parte le telefonate con i Tulliani lei ha avuto anche contatti via e-mail, per lettera, via posta, diciamo così, normale?
«Scusi, ma che sta facendo il giudice lei? Io su questo punto rispondo solo al giudice. Se me lo chiede lui, glielo dico a lui. Arrivederci».
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it
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«Dopo il Cav, Marchionne»

«Dopo il Cav, Marchionne»

il riformista.it   20100915   di Tommaso Labate

Sinistra e potere, la profezia di Fausto Bertinotti

«Berlusconi è alla fine del suo ciclo», sostiene Fausto Bertinotti. Ma dietro il crepuscolo del berlusconismo si intravedono «le avvisaglie di un altro modello, più autoritario: il marchionnismo».

«Siccome la crisi acuisce la contesa sulla competitività», è l'analisi bertinottiana, «ecco che spunta il modello Marchionne. L’impresa autoritaria come base di un nuovo modello sociale. E tra coloro che accompagnano molto questa idea c’è senz’altro Giulio Tremonti». E quelli che, a sinistra, insistono perché si raccolga la sfida dell’ad Fiat? «Se questa tesi prevale, la sinistra europea scomparirà».

Bertinotti è accomodato in una poltroncina nel suo ufficio, molto sobrio, da presidente della Fondazione Camera dei deputati. Sul tavolino c’è una copia di Chi comanda qui? (sottotitolo: «Come e perché si è smarrito il ruolo della Costituzione»), il suo ultimo libro, quello in cui l’avvento della globalizzazione e la crisi delle Costituzioni democratiche europee sono analizzate come due grandezze direttamente proporzionali.

Bertinotti, lei scrive un libro sull’erosione della democrazia e la crisi della Costituzione. Eppure, nell’indice dei nomi, non figura Silvio Berlusconi. Perché?
È stata una scelta voluta. La messa in mora della democrazia può essere analizzata anche senza tirare in ballo Berlusconi. Certo, Berlusconi è l’elemento aggiuntivo che dà una specificità al caso italiano. Ma la tendenza generale riguarda l’Europa. E nella crisi della democrazia in Europa, l’Italia è solo un caso particolare, mica l’eccezione.

Sta smontando la tesi classica del centrosinistra, quella del «Berlusconi uguale anomalia»?

Al contrario del centrosinistra, la sinistra radicale non ha mai fatto questa equazione. Per questo noi partecipiamo al movimento dei No global e loro no. Quello che in Italia chiamiamo il berlusconismo rappresenta un fenomeno che va letto in una dimensione occidentale. Altrimenti non si spiegherebbero Reagan e la Thatcher. Al centrosinistra che dice «io ce l’ho con Berlusconi» il sottoscritto risponde: «E con Reagan e la Thatcher, invece, in che rapporti stai? Pensate che Bush e Putin siano più democratici di Berlusconi?». Io ne dubito.

Sta dicendo che non basta cacciare Berlusconi perché tutto torni magicamente come prima?

Esattamente. Vede, Berlusconi è alla fine del suo ciclo. Ma la fine del ciclo di Berlusconi, che è irreparabilmente cominciata, non trascina con sé la fine di ciò che abbiamo chiamato berlusconismo. Perché questa è parte di un progresso più generale.

E che cosa c’è, secondo lei, dopo Berlusconi?

Dietro l’entrata in crisi del modello sociale europeo si nasconde la nascita di un altro modello. Il declino del primo accompagna l’ascesa del secondo, che individua più direttamente nelle relazioni sociali il centro della nuova contesa politica, economica, culturale. Berlusconi è stato l’anima populista e neoliberista di una destra vincente, che ha governato la globalizzazione. Ma oggi che la crisi sta acuendo la contesa sulla competitività, ecco che spunta il modello Marchionne. L’impresa autoritaria come base di un nuovo modello sociale. Secondo me, uno di quelli che è perfettamente in sintonia con questa idea è Giulio Tremonti.

Il neoliberismo che lascia spazio al mercatismo puro?

In un certo senso è cosi. Rispetto al capitalismo fordista-taylorista, che aveva incorporato anche uno spazio per la mediazione e riconosceva la democrazia come componente necessaria per organizzare il consenso nella società, il capitalismo di oggi è particolarmente totalizzante. Per la borghesia precedente, invece, il conflitto era considerato fisiologico. Non a caso, anche un erede aspro e radicale di quella tradizione, come Cesare Romiti, lo riconosce.

Sta dicendo che il marchionnismo punta a cancellare ogni conflitto?
L’ipotesi Marchionne è socialmente durissima. Perché arriva addirittura a spezzare l’incrocio tra populismo e neo-liberismo. Infatti, al contrario del berlusconismo, il ciclo del nuovo capitalismo non è in grado di risolvere il problema del consenso. I suoi seguaci affermano la dittatura del mercato. Non discutono, si nascondono dietro affermazioni del tipo: «Queste misure sono inevitabili. Si fa così e basta».

Anni fa fu proprio lei a individuare in Marchionne un «borghese buono».
Successe dopo un’assemblea degli industriali torinesi, in cui Marchionne disse che l’impresa che licenzia non configura un imprenditore, che era inutile pensare di bastonare un lavoratore quando il costo del lavoro pesa il 6/7 per cento, che contrattare coi sindacati italiani era meglio che farlo con quelli americani, che il suo rapporto con la Fiom era fortissimo. Tutto questo si innestava con l’idea di far crescere la Fiat in Italia. Dopo l’accordo con Chrysler, invece, la sua strategia è cambiata. Gli stabilimenti italiani si possono pure chiudere, il modello d'impresa è solo quello vincente sul terreno della competitività, il conflitto va azzerato.

Una parte del centrosinistra, però, sostiene che la sfida di Marchionne vada raccolta.
Se questa tesi prevale, saremo di fronte alla scomparsa della sinistra europea, che ha sempre coniugato la libertà con l'uguaglianza. Attenzione: il concentrazionismo, che una volta era proprio di luoghi come i manicomi e le carceri, si sta estendendo anche alle fabbriche. Posti che non sono più deputati alla democrazia. Una sinistra che non veda questa aggressione ai diritti, sostenendo che la sfida di Marchionne va accettata in nome della «modernizzazione», recide il ramo su cui è seduta. Sposare il marchionnismo può rappresentare l'eutanasia della sinistra. Al contrario, però, se individua questo come un «conflitto di civiltà», allora la sinistra può rinascere.

Passando al declino delle istituzioni, che cosa ne pensa del Pdl che chiede le dimissioni di Fini dalla Camera?
Personalità diversissime come Casini, Fini e il sottoscritto, sono stati stati sottoposti a trattamenti analoghi. È la Seconda Repubblica, quella in cui l'esecutivo e il suo capo puntano alla messa in mora del Parlamento. Ma se alla guida di un'istituzione ci metti un uomo che ha il senso della dignità del ruolo, e non di sé stesso, di fronte alla prevaricazione la risposta non può essere che la difesa a oltranza dell'istituzione stessa.

Lei riesce a immaginare Fini oltre il recinto della destra?

È evidente che Fini sta delineando il tentativo di prefigurare una destra europea. Non vedo equivoci su questo. A meno che i suoi desideri, che a mio avviso non sono poi così brillanti, non si sovrappongano.

A Cernobbio, Padoa-Schioppa ha elogiato Tremonti. Che cosa ne pensa?
Hanno avuto la stessa linea, purtroppo. Dire che c’è una continuità tra Padoa-Schioppa e Tremonti, come ha fatto Padoa-Schioppa stesso, vuol dire svelare le ragioni del fallimento del governo Prodi. Quella spiegazione funziona più di qualsiasi altro ragionamento.

Intanto, c'è chi si indigna per lo sciopero dei calciatori. E chi, invece, sostiene che non c’è mica un reddito minimo per accedere al diritto allo sciopero.

È singolare che faccia scandalo l’uso dello sciopero da parte dei calciatori e non i loro guadagni. Temo che ci sia sempre una buona ragione per parlare contro lo sciopero.



La colère anglophone de Viviane Reding

La colère anglophone de Viviane Reding - Coulisses de Bruxelles, UE
de Jean Quatremaire  20100915

La colère anglophone de Viviane Reding

La commissaire européenne chargée de la justice et des droits des citoyens est fâchée contre la 250_0_KEEP_RATIO_SCALE_CENTER_FFFFFF France, comme je l’explique ci-dessous. On peut le comprendre, la politique de renvoie des Roms roumains fleurant bon sa discrimination ethnique à l’égard de citoyens européens qui sont censés jouir des mêmes droits qu’un cadre allemand diplômé roulant en Audi. Mais pourquoi avoir exprimé sa colère en langue anglaise ? Car son intervention, ce matin, était uniquement dans la langue de Shakespeare. Selon un porte-parole de la Commission, Reding, ressortissante luxembourgeoise et donc parfaitement francophone et germanophone, l’a fait volontairement pour marquer sa distance avec la France.

Ce choix, disons le tout net, est tout simplement scandaleux et je pèse mes mots. Comme si le fait de parler français ou d’être Français conduisait tout naturellement à se montrer discriminatoire à l’égard des Roms voire à adopter un comportement raciste. Une logique qui aurait dû conduire à interdire la langue allemande en 1945… Viviane Reding donne en outre l’impression que « Bruxelles » n’est plus capable de s’exprimer dans une autre langue que l’anglais et conforte ainsi le soupçon d’une partie des Français qui voit de plus en plus l’Union comme un corps étranger qui prétend gouverner la France de l’extérieur : les Français, pas plus que les Allemands ou les Italiens, ne parlent anglais, hormis une petite élite. Après onze ans à Bruxelles, Reding l’a manifestement oublié. Enfin, la commissaire semble considérer que l’anglais est une langue à tout le moins neutre voire qu’elle est porteuse de valeurs bien supérieures à la langue française. Il va falloir aller expliquer la chose aux détenus de Guantanamo ou aux prisonniers des couloirs de la mort aux États-Unis…

Bref, le choix linguistique de Reding est ridicule, contre-productif et teinté d’une conception ethnique de la langue. Un comble pour un discours qui stigmatise justement la xénophobie.



Montecarlo, l'ex tesoriere An scarica Fini

Montecarlo, l'ex tesoriere An scarica Fini - Pontone, Montecarlo, fini, tulliani - Libero-News.it


 Francesco Pontone ai pm: "Fu la direzione di Alleanza Nazionale a    decidere la vendita dell'appartamento". Ora in procura sono attesi Lamorte e la segretaria del presidente della Camera
Libero-news.it  20100915
l Montecarlo Gate prosegue nelle aule del tribunale di Roma. I pm di Piazzale Clodio hanno sentito, come persona informata sui fatti, l'ex tesoriere di An Francesco Pontone. Anche se il senatore all'epoca firmò le carte per la cessione dell'appartamento alla società offshore dietro la quale si nascondeva niente meno che il fratello della compagna di Gianfranco Fini (Giancarlo Tulliani), ha tenuto a precisare di essere un mero esecutore. In pratica, scaricando tutta la responsabilità su Fini stesso. "Fu la direzione di Alleanza Nazionale a decidere la vendita dell’appartamento di Montecarlo, in Boulevard Princesse Charlotte 14, e furono sempre i vertici del partito ad affidare al tesoriere Francesco Pontone il compito di seguire tutte le procedure". Queste le parole di Pontone messe agli atti dai magistrati della procura di Roma. E chi poteva essere il "vertice" in questione se non il segretario di partito. Eppure la procura, che ha aperto il fascicolo per truffa aggravata (ancora a carico di ignoti), non convocherà Fini. Il procuratore capo Giovanni Ferrara ha ribadito che, almeno per il momento, non ci sono i presupposti per chiamare l'ex di An né il cognato Giancarlo.

Pontone mero esecutore - Per quanto riguarda il prezzo di vendita, gli inquirenti hanno chiesto se secondo lui 300mila euro fossero un prezzo congruo. Anche su questo Pontone ha detto di avere seguito le indicazioni di chi l'appartamento - lasciato in eredità dalla contessa Anna Maria Colleoni ad An - ebbe modo di vederlo. Ovvero l'allora tesoriere e capo della segreteria Donato Lamorte e la segretaria particolare di Fini, Rita Marino, i quali definirono "fatiscente" lo stato dell'immobile. I prossimi a essere sentiti in Procura saranno dunque Lamorte e la Marino. Le loro testimonianze saranno fondamentali per capire se il prezzo cui è stato venduto l'immobile era "inadeguato" alle condizioni dell'immobile stesso. I due, infatti, visitarono l'appartamento prima che il bene ereditato fosse ristrutturato.

Pontone smentisce Fini su un altro punto importante della faccenda: il ruolo di Giancarlo Tulliani. Secondo la versione "ufficiale" dei fatti diramata dal numero uno di Montecitorio, il cognato sarebbe stato l'intermediario nell'operazione di compravendita, ma Pontone nega di conoscere Tulliani. Proprio come Lamorte, che in un'intervista a Libero, aveva escluso che il fratello di Elisabetta avesse avuto un ruolo nella vendita dell'appartamento.

14/09/2010


«Licenze Windows agli anti-regime»

mardi, septembre 14, 2010

Avezzano, studente fuma a scuola Per punizione deve pulire il bagno

Urla e fischi contro Pietro Ichino ma il pubblico della Festa lo fa parlare

Urla e fischi contro Pietro Ichino ma il pubblico della Festa lo fa parlare
milano.repubblica.it/cronaca/2010/09/14

Gli antagonisti cercano di consegnare al professore una tuta da operaio e una cuffia dei phone center

Ospite della Festa Democratica di Milano, il giuslavorista Pietro Ichino è stato contestato da una trentina di giovani dei centri sociali che hanno tentato, inutilmente, con urla e provocazioni di interrompere il suo intervento.

Antagonisti contro il professore

Un gruppo di antagonisti, ieri sera, è arrivato nello spazio dei dibattiti a Lampugnano e quando il giuslavorista ha preso la parola ha iniziato a fischiarlo al grido di "Vai a lavorare". Provocatoriamente, i giovani dei centri sociali hanno tentato di offrire a Ichino una tuta blu e una cuffia da lavoratore del call center e di srotolare uno striscione, ma i disturbatori sono stati allontanati dal servizio d'ordine del Partito Democratico e da un gruppo di agenti delle forze dell'ordine.

Per una decina di minuti sono continuate le urla e i fischi degli antagonisti, prima che fossero definitivamente allontanati dallo spazio dei dibattiti. Dopodiché la serata, incentrata proprio sui temi del lavoro è ripresa su sollecitazione del pubblico presente con interventi di tutti i relatori tra cui anche i segretario della Camera del Lavoro di Milano Onorio Rosati.

"C'e da preoccuparsi perchè non sono contestazioni, sono veri e propri atti di violenza". Così ai microfoni di "Mattino 5" il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha definito le proteste che nei giorni scorsi hanno accompagnato alcuni interventi pubblici di Schifani, Bonanni e, ieri sera, Pietro Ichino. "Io non li chiamo i giovani dei centri sociali ma i professionisti della violenza", ha detto Maroni. E a Maurizio Belpietro che gli ha chiesto se vede "pericoli di terrorismo" risponde: "E' iniziato così, ed per questo che stiamo studiando le misure più adeguate per evitare che questi atti di violenza si trasformino poi in una stagione che abbiamo visto e che non vogliamo più rivedere".




Les Francophones n'accepteront pas n'importe quoi pour sauver la Belgique

"Les Francophones n'accepteront pas n'importe quoi pour sauver la Belgique"


Coulisses de Bruxelles, UE de Jean Quatremer
Rédigé le vendredi 10 septembre 2010 à 20:56



Vincent de Coorebyter est l’un des plus fins politologue belge.
Directeur du Centre de recherche et 20100721 Belgique 10 d’information socio-politique (CRISP), il analyse ici la crise belge.

La Belgique est-elle entrée dans une ultime crise ?

Il est normal qu’on ait cette impression de l’extérieur après l’échec du socialiste francophone, Elio Di Rupo, le pré-formateur. Cet échec est d’autant plus frappant qu’il fait suite à toute une série d’échecs qui ont conclu des négociations institutionnelles menées entre 2007 et 2010. Les déclarations de certains responsables politiques francophones affirmant qu’il faut se préparer « mentalement et culturellement » à la fin de la Belgique ont aussi nourri le sentiment qu’on est dans une situation très périlleuse.

Mais il faut relativiser ces déclarations, car elles émanent toutes d’un même parti : de manière sans doute concertée, les socialistes ont voulu faire passer le message qu’ils sont prêts à reprendre les discussions mais qu’ils n’accepteront pas n’importe quoi pour sauver la Belgique, qu’il existe des lignes rouges à ne pas franchir. Sur le fond, je ne crois pas que les socialistes francophones ont décidé de travailler à la fin de la Belgique. Il est d’ailleurs frappant que personne n’ait profité de ces déclarations pour se ruer dans ce qui pourrait apparaître comme une brèche, une ouverture ou la levée d’un tabou. Même la N-VA, le parti indépendantiste flamand, dont on sait qu’elle veut à terme la disparition de la Belgique, a accueilli ces déclarations avec scepticisme, convaincue qu’elles étaient purement tactiques.

Reste que les deux principaux partis flamands, la N-VA et les chrétiens-démocrates du CD&V, officiellement « confédéralistes », ne pleureraient pas la disparition de la Belgique.

Il faut distinguer. La N-VA est certes indépendantiste, mais elle affirme que l’éclatement de la Belgique sera le résultat d’un processus qui n’est pas arrivé à terme. On n’a aujourd’hui aucune preuve que la N-VA soit résolue à accélérer ce processus, même si beaucoup d’observateurs estiment que le refus, par la N-VA, de tout compromis est en réalité une façon de précipiter l’éclatement. Il faut bien voir que proclamer unilatéralement l’indépendance de la Flandre, c’est prendre un risque majeur quant aux conséquences : ce nouveau pays serait-il reconnu par l’Union européenne ? Que devient Bruxelles, que les nationalistes flamands n’ont toujours pas l’intention d’abandonner ? Quant au CD&V, qui est le second parti de Flandre, il s’est certes rangé aux côtés de la N-VA dans son refus du compromis proposé par Di Rupo, mais il ne souhaite pas l’éclatement du Royaume. Certes, l’attachement de la plupart des responsables de ce parti à la Belgique est de stricte raison : de leur point de vue, le cadre belge rapporte pour l’instant plus qu’il ne coûte. Le CD&V exige simplement une réforme de l’État très profonde.

La réforme de l’État, cela signifie quand même un détricotage supplémentaire de l’État fédéral au profit des régions.

Le CD&V souhaite effectivement que l’essentiel des pouvoirs soit exercé par les régions, l’État fédéral, lui, ne conservant qu’un nombre limité de compétences, celles-ci étant même soumises à un droit de regard des entités fédérées. C’est parce que les négociations menées par Di Rupo ont mis sur la table des éléments de son programme que le CD&V s’est aligné sur les positions dures de la N-VA au risque d’apparaître comme son satellite. Mais la négociation actuelle ne porte pas sur le séparatisme, d’où le soutien du CD&V à la N-VA.

Les Francophones donnent l’impression de jouer uniquement en défense et de ne pas avoir de projet clair.

Ils ont une idée claire de ce dont ils ne veulent pas, ce qui est déjà quelque chose. Mais il est exact qu’il n’y a pas un projet commun sur ce que devrait être le cadre idéal de l’État belge, ce qui les déforce dans la négociation. Cela étant, il faut se garder d’une vision binaire de ce qui se passe : il n’y a pas d’un côté les Flamands qui demandent et les Francophones qui résistent. Il y a aussi une demande francophone en faveur d’une plus grande autonomie des régions.

Les Francophones n’ont-ils pas intérêt à obliger les Flamands à choisir dès maintenant entre le maintien de la Belgique et l’indépendance ?
Certains observateurs poussent à cette grande explication finale afin que l’on arrête d’enchaîner des réformes partielles et ambigües, sans cesse remises sur le métier. Mais personne ne sait ce que serait le résultat d’une telle discussion et c’est sans doute pourquoi elle n’a pas lieu. Il est ainsi frappant que les partis flamands n’exigent pas la mise en œuvre de l’article 35 de la Constitution qui prévoit que toutes les compétences vont aux régions et aux communautés linguistiques sauf celles qu’une loi attribue au niveau fédéral. Pourquoi ? Parce qu’ils savent qu’il sera très difficile de s’accorder sur cette liste. Les partis flamands préfèrent donc grignoter, réforme après réforme, davantage d’autonomie pour la Flandre et, pour les indépendantistes, attendre que la situation ait suffisamment évolué pour que la Belgique tombe comme un fruit mûr.

N.B.: version longue d'une interview parue ce matin dans Libération papier

Ma se la sentenza li condanna i paladini dei giudici la calpestano

Ma se la sentenza li condanna i paladini dei giudici la calpestano

di Marco Zucchetti          ilGiornale.it      del 14-09-2010


lundi, septembre 13, 2010

Prima o poi ci scappa il morto

Prima o poi ci scappa il morto

ilriformista.it    di Giampaolo Pansa     lunedì, 13 settembre 2010
 
Un mazzo di rose alla petardista di Torino. Dovrebbe mandarlo Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, per ringraziare la ragazza di aver sbagliato mira nel lanciargli addosso un fumogeno alla festa nazionale del Pd. Se la guerrigliera Rubina Affronte, anni 24, una bella figliola bruna, si fosse rivelata più abile nel getto del petardo, Bonanni, non sarebbe qui a raccontarla. Invece di fargli soltanto un buco nel giubbotto, il proiettile ricevuto in piena faccia lo avrebbe sfigurato per sempre. O magari accoppato.
Una foto presa dal profilo di facebook di Rubina Affronte, 24 anni fiorentina, identificata come colei che ha lanciato il fumogeno che ha colpito il sindacalista ieri a Torino. No comment del padre magistrato 'per deontologia e per correttezza'. ANSA/FACEBOOK

Non è vero che “un fumogeno non ha mai ucciso nessuno”. A sentire il Corriere della sera del 10 settembre, è questa la sentenza lapidaria e bugiarda emessa dalla stessa Rubina e dai suoi compagni. Tutti insieme formano una boriosa squadra antagonista che, invece di stare in galera da un pezzo, concede interviste ai giornali. Al Corriere hanno spiegato: «Di giacche Bonanni se ne può comprare altre. Non piangiamo certo per un pezzo di stoffa». Sono parole avventate perché non tengono conto di un’ipotesi molto realistica che tra un istante descriverò.

C’è un fatto che stupisce nella sequenza di aggressioni violente attuate fra la fine di agosto e questo inizio di settembre. Sempre per mano di antagonisti rossi contro obiettivi ritenuti forcaioli, reazionari, fascisti e dunque da aggredire. Vogliamo rammentarli? Una festa leghista nella Bergamasca con tre ministri, un dibattito a Como con il senatore Dell’Utri, una seconda missione a Milano sempre contro Dell’Utri, il presidente del Senato Schifani, il vecchio cislino Marini (soltanto fischiato) e infine Bonanni, questi ultimi tre a Torino.

Un ciclo offensivo attuato da gruppi collocati tutti nella sinistra antagonista. Svelti di mano, però lenti di testa. Infatti, a stupire è che non mettano in conto una violenza uguale e contraria. Sono convinti di avere il monopolio dello scontro fisico. E non immaginano la discesa in campo di bande capaci di fare peggio di loro. Lanciando ordigni ben più pesanti dei petardi torinesi. Con guasti irrimediabili al bel faccino di Rubina.

Ecco un’ipotesi molto realistica. Tanti media fanno finta di niente, come gli struzzi. Senza rendersi conto che si rischia l’inizio di un conflitto coperto di sangue, uno scontro già visto in altri momenti della storia italiana. Le condizioni ci sono tutte. Una casta politica screditata. Un governo debole. Una maggioranza e un’opposizione incerte sul da farsi. Una crisi economica che indebolisce i ceti meno protetti. Un’immigrazione che si espande incontrollata. Una criminalità capillare. Infine i famosi giovani senza avvenire, troppo coccolati dalle famiglie, dai media, dai preti.
E mai educati a guardare al proprio futuro con realismo, senza sogni da paese dei balocchi.

Questa è l’Italia del 2010, signori dei partiti. Il Bestiario vi rammenta che siete seduti su una polveriera. E vi consiglia di evitare le prediche fatte in questi giorni. Qui ne citerò due. La prima è di Piero Fassino, uno dei big del Pd. Intervistato dalla Stampa, ha spiegato le aggressioni di Torino così: «Chi ha fischiato lo ha fatto indignato per l’arroganza con cui la destra governa, per l’affarismo di cui ha dato tante prove in questi anni. Quei fischi sono anche la conseguenza dell’imbarbarimento della vita politica, dell’incanaglimento della destra e per capirlo basta guardare che cosa è Il Giornale…».

Insomma è tutta colpa di Silvio Berlusconi e di Vittorio Feltri. Pensavo che il purgatorio di Fassino, messo nell’angolo da Bersani & C, non avrebbe distrutto il suo acume. Mi sbagliavo. Se davvero ha parlato in quel modo, Fassino si è bevuto il cervello. Auguri di pronta guarigione, anche per essere pronto in caso di nuovi assalti.

Ma ben più da Bestiario di lui è un capo partito: Antonio Di Pietro. Subito dopo la prima aggressione contro Dell’Utri a Como, ha lanciato un proclama di guerra: «Iniziamo a zittire quelli come Marcello Dell’Utri in tutte le piazze d’Italia, perché non è lì che dovrebbero stare, ma in galera… I fischi sono segnali positivi. Se personaggi come Dell’Utri vengono cacciati a suon di fischi dalle piazze, forse il risveglio sociale non è poi così lontano. C’è ancora un’Italia pronta a indignarsi».

Ignoro se Di Pietro, un ex magistrato, si sia reso conto delle pericolose conseguenze delle sue parole. Forse no. Perché, come succede spesso ai big della casta, ritiene di essere un Premio Nobel della furbizia. In altri tempi, molti avrebbero provato ribrezzo per un parlamentare di prima fila che incita a compiere reati. Ma oggi non esistono più regole. Il Cavaliere si sarà perduto dietro le escort raccolte a Palazzo Grazioli. Eppure mi sembra meno colpevole di un Di Pietro che spera di vincere a furia di linciaggi. Sarebbe perfetto con il cappuccio razzista del Ku Klux Klan.

Sapevo che la Seconda Repubblica sarebbe affondata nel disonore. Ma non la credevo capace di suicidarsi, eccitando l’estremismo. Aldo Moro venne rapito e ucciso dalle Brigate rosse, però non gli aveva mai strizzato l’occhio, dicendogli: colpite duro noi dei partiti. Oggi assistiamo a questo paradosso stomachevole. Con il risultato che, prima o poi, ci scapperà il morto. Se accadrà, speriamo che gli irresponsabili come Di Pietro non abbiano la faccia di presentarsi ai funerali.