vendredi, décembre 31, 2010

Cgil, la casta di burocrati che ha sulla coscienza 30 anni di battaglie perse

Nel brodo di coltura parigino, il killer è diventato un vincitore | Gianni Marsilli | Il Fatto Quotidiano
Nel brodo di coltura parigino, il killer è diventato un vincitore

 di redazione da ilfattoquoditiano.it   20101231

Da Henry Lévy a Carla Bruni, la rete che sostiene il giallista
C’è il “caso Battisti”, le pendenze italiane, la latitanza francese, la prigione brasiliana. Ma c’è anche, e soprattutto, il caso clinico della gauche transalpina, o meglio quell’ambiente molto parigino che un giorno si ispira a Che Guevara e un altro a Voltaire, giostrando disinvolta tra esotiche pulsioni rivoluzionarie e grandi principi di democrazia.

Nel comitato di sostegno a Cesare Battisti si son trovati nomi illustri, o comunque molto noti: per prima la scrittrice Fred Vargas, che l’ha foraggiato e protetto, e che ha trovato una sponda persino all’Eliseo nella première dame Carla Bruni, all’origine – pare – dell’incontro con il ministro della Giustizia brasiliano Tarso Genro, al quale ha spiegato la natura di “vittima” del personaggio in questione.

Al fianco di Fred Vargas è subito apparso Bernard Henri Levy, filosofo e saggista, vociante moschettiere al servizio dei diritti dell’uomo dalla Bosnia alla Georgia, passando per Russia e Pakistan. Levy, bontà sua, si astiene dal pronunciarsi sulla colpevolezza o meno di Battisti. Non esita invece a denunciare il fatto, assai fantasioso, che di Battisti in Italia si voglia fare l’emblema degli anni di piombo, usandolo come capro espiatorio di tutta la stagione terroristica, e che quindi il poveretto sia vittima di “persecuzione” e “calcoli elettoralistici”. Levy si aggrappa poi a quella che chiama la “stranezza” italiana, secondo lui contraria al diritto europeo: che si possa giudicare una persona in contumacia, e che se il latitante viene arrestato non abbia diritto a un processo tutto nuovo in sua presenza, per quanto la sentenza sia passata in giudicato. Si guarda bene, Levy, dal ricordare l’evasione di Battisti nell’81 e il fatto che nel corso dei diversi gradi di giudizio la legge italiana prevede la presenza della difesa del latitante, come nei fatti è avvenuto.

Sotto la protezione della Ville Lumière
A sostenere Battisti sono stati anche Philippe Sollers, il guru delle lettere e dell’editoria francese, che in un secondo tempo, a dire il vero, ha temperato i suoi focosi propositi, dopo essersi accorto di aver sposato non una grande causa, ma una grande cacca di cavallo della quale non controlla gli schizzi. E poi Gilles Perrault, scrittore e “comunista” di radicali convinzioni, disegnatori come Bilal e Tardi e financo i massimi responsabili della Lega per i diritti dell’uomo. Non è stato da meno il sindaco socialista della capitale, Bertrand Delanoe, che dopo aver dichiarato Battisti “sotto la protezione” del Comune, ancora nei giorni scorsi straparlava di “presunzione d’innocenza”. Le firme in favore di Battisti, alla fin fine, sono state circa 12mila: l’ambiente letterario e intellettuale più qualche migliaio di anime tanto candide quanto ignoranti. Perché è stato questo che ha accompagnato in questi anni l’impegno per la scarcerazione di Battisti: la mistificazione costante e puntuale della più recente storia italiana. Ci mise del suo anche Erri De Luca quando scrisse su Le Monde: “La Francia ha avuto bisogno di una rivoluzione per mutare la monarchia in repubblica. L’Italia ha avuto bisogno delle scosse rivoluzionarie degli anni ’70 per acquisire una democrazia…”.

Il caso Battisti è stato presentato come il calvario di un uomo rappresentativo di “una generazione di vinti”. Lo stesso Levy ha paragonato l’Italia degli anni ’70 alla Gran Bretagna alle prese con il problema irlandese, o alla Francia durante la guerra d’Algeria. Insomma in Italia, in quegli anni, ci sarebbe stata una guerra civile, e Battisti, come gli altri “rifugiati” , avrebbe il solo torto di averla persa. Battisti e compagnia avrebbero combattuto contro la P2 e i rigurgiti fascisti: nessuno di questi intellettuali si è preso la briga di spiegare (visto che non si presero la briga di capire, trent’anni fa) che i “combattenti” sparavano nella schiena di docenti universitari, magistrati, giornalisti, sindacalisti. O macellai e gioiellieri, come nel caso di Battisti.

In questa visione asina e romantica l’Italia è narrata con drammaturgia cilena, dove ai brigatisti tocca il ruolo di “resistenti”. È questo il brodo di coltura del movimento di sostegno a Battisti, quello che gli ha permesso di filarsela da Parigi e approdare in Brasile, che ha amplificato e mediaticamente legittimato le sue affabulazioni, che l’ha santificato come scrittore, quindi intoccabile per la casta di Saint Germain des Prés. In qualche salone tappezzato di libri e quadri di gran pregio, ieri pomeriggio, ci si preparava a stappare lo champagne con vista sulla Senna.
Quanto a Torregiani: chi era costui?

Da Il Fatto Quotidiano del 31 dicembre 2010


Cgil, la casta di burocrati che ha sulla coscienza 30 anni di battaglie perse

Il Giornale - L’Avvocato, quanti disastri senza mai pagare il conto - n. 628 del 31-12-2010


di Giancarlo Perna   ilgiornale.it   20101231

Agnelli oggi è esaltato dalla sinistra contro il «nemico di classe» Marchionne Ma rese la Fiat un’impresa fragile, che sopravviveva solo grazie ai soldi pubblici

Con la solita spregiudicatezza, una certa sinistra evoca il delicato fantasma di Gianni Agnelli per contrapporlo alla brutale figura di Sergio Marchionne. L’uno, ai suoi giorni, padrone illuminato della Fiat, padre soccorrevole dei dipendenti, garante di relazioni industriali a misura d’uomo. L’altro, manager superstipendiato, sordo alle tradizioni solidaristiche dell’azienda torinese, che ha imposto le intese antidemocratiche di Pomigliano e Mirafiori.

Nello scavare il solco tra lo stile che fu dell’Avvocato e quello dell’attuale ad, si è distinto l’editorialista del Fatto, Furio Colombo. Furio non è un testimone qualsiasi. È stato per anni il cocco di Agnelli che lo fece presidente della Fiat Usa e gli regalò una cattedra alla Columbia University, remunerandolo come cento tute blu. L’editorialista ha imperversato nelle ultime settimane parlando in nome del defunto. Quasi fosse lui - celebre in vita per l’eleganza e la socievolezza - ha rimproverato a Marchionne la primitività del comportamento e il pugno di ferro adottato con le maestranze. Esagerando nell’immedesimazione con l’Avvocato ne ha bistratto anche il giovane nipote e presidente della Fiat, John Elkann. Mentre Marchionne maramaldeggia con gli operai e «fa a pezzi la Fiat», tu John - questo il senso della reprimenda - «scegli di non esistere» e non intervieni per fermarlo. Sappi però che quello dell’ad «è il contrario del progetto Agnelli». Lui non avrebbe mai voluto una Fiat aguzzina ma una «Fiat popolare». Così, sopraffatto dalla nostalgia per il bel tempo andato, il settantottenne Colombo ci ha regalato una caricatura: l’Avvocato come Don Ciotti e la Fiat come una Onlus.
La realtà è invece che la ricetta agnellesca ha portato l’azienda sull’orlo del crac. La sua conduzione non è stata lungimirante né vantaggiosa per le centinaia di migliaia di esistenze che dipendevano da lui. Due anni dopo la sua morte (2003), è dovuto accorrere al capezzale della Fiat l’italo-canadese col maglioncino per riacciuffarla in extremis. Lasciamo pure che i Colombo e i suoi simili - Cgil, Fiom, Vendola e gli altri con gli occhi alle spalle - beatifichino ora Agnelli demonizzando Marchionne, ma l’etica dell’imprenditore non si misura col loro metro. Al sindacato, l’industriale piace cedevole perché gli dà lustro. Ai politici pure, perché gli dà meno grane.

Ma il capo di un’azienda non ha che un modo per essere in pace con se stesso: far tornare i conti e dare un futuro alla sua creatura.
Non è quello che ha fatto Gianni Agnelli. Uomo affascinate, beniamino dei rotocalchi, voce autorevole per mezzo secolo di vita nazionale, l’Avvocato ha lasciato di se un bel ricordo. Fu - si disse - l’ultimo re d’Italia. Celebre per le sue insonnie, le telefonate notturne in mezzo mondo per tenersi informato, le sue folgoranti battute: De Mita, «intellettuale della Magna Grecia»; Del Piero «un Pinturicchio» ma viziato; Furio Colombo, «la chioccia pakistana», per i capelli a turbante e le occhiaie profonde, ecc. Discreto come ogni buon piemontese non ha mai ostentato le sue favolose ricchezze né tollerato che altri ne abusassero, come sa quell’oste che gli presentò un conto stratosferico pensando di farci la cresta e fu invece denunciato.

Personalità mirabile, ma uomo del suo tempo. E la sua, fu l’epoca democristiana. Aveva la stessa tempra dei Moro e degli Andreotti che invece della strada dritta e difficile, sceglievano le vie traverse e i meandri per evitare le durezze dello scontro. Innamorato di se stesso, amava esser amato e voleva andare d’accordo con la politica. I dc rappresentavano lo Stato e li fiancheggiò. I comunisti e la Cgil erano l’ostacolo e li blandì. In cambio della mansuetudine, pretese e ottenne favori per la Fiat. Invece di un’azienda sana, ne fece un’industria protetta. Con la benevolenza universale conquistò il monopolio italiano delle auto, ma l’auto italiana perse prestigio nel mondo. Assuefatta alle sovvenzioni pubbliche, l’impulso della Fiat all’innovazione deperì con gli anni. Quando, con Tangentopoli e la crisi dell’ultimo ventennio, lo Stato tirò i cordoni della borsa, l'azienda si scoprì indifesa. Alla morte dell’Avvocato era in un vicolo cieco e, prima che si affacciasse Marchionne, la chiusura un’ipotesi concreta.
Agnelli prese le redini della Fiat nel 1966, sostituendo Vittorio Valletta, il severo fiduciario di famiglia. Subito, in contrasto col passato, pensò più alla finanza che all’industria. Leggendari i suoi rapporti con Cuccia e Mediobanca dai quali Valletta si era sempre tenuto lontano. Quando dopo il ’68 ci furono l’autunno sindacale, le occupazioni, gli scioperi, anziché contrastarli a muso duro, cedette. Andò a braccetto con Luciano Lama, il capo della Cgil, che considerava il salario una «variabile indipendente» dei costi di produzione. Elargì aumenti senza badare ai conti. E fin qui, i danni erano suoi e della Fiat. Ma poiché Agnelli era nelle mani della politica, estese il pasticcio all'intera economia nazionale.

Eletto presidente della Confindustria nel 1974, l’Avvocato concordò, infatti, con Lama e il Pci l’indicizzazione automatica dei salari al costo della vita. Doveva, con questo, salvaguardare la «pace sindacale», cosa graditissima alla pavida Dc. Invece, essendo quello il clima, gli scioperi si moltiplicarono. Per di più, innescò una mostruosa inflazione che superò il 20 per cento annuo. Fu cioè complice contemporaneamente dell’incoscienza comunista e dell’insipienza democristiana. Per premio nel 1976, cessato l’incarico confindustriale, la Dc gli offrì un seggio parlamentare, mentre l’economia andava a rotoli. Forse per pudore, Gianni declinò l’invito ma al suo posto divenne senatore dc il fratello Umberto. Poco dopo, anche la sorella Susanna entrò in Parlamento con i repubblicani.
Era la plastica immagine della grande famiglia ostaggio del Palazzo mentre il suo impero sopravviveva con i soldi dell’Erario. Come la fallimentare industria pubblica dell’Iri, l’emblema di quella privata era a carico di Pantalone. In un Paese moderno la Fiat avrebbe dovuto portare già allora i libri in tribunale. Ma il dramma sociale sarebbe stato così grande che la politica continuò a darle ossigeno. Negli anni ’80, Prodi diventato presidente dell’Iri regalò alla Fiat l’Alfa Romeo, negandola alla Ford che voleva rilanciarla davvero. Negli anni ’90, lo stesso Prodi si inventò le rottamazioni per dare ad Agnelli l’ennesima chance. Solo la morte liberò l’Avvocato dall’incubo.
Marchionne ha preso la strada opposta. Ha rotto con la politica e deciso che la Fiat o cammina con le sue gambe o trasloca. Ha mostrato il viso dell'arme, come l’Avvocato non aveva mai osato fare. Gran parte del sindacato ha capito. Furio Colombo, no. C’è qualcuno disposto a disperarsi?


Cgil, la casta di burocrati che ha sulla coscienza 30 anni di battaglie perse

Il Giornale - Cgil, la casta di burocrati che ha sulla coscienza 30 anni di battaglie perse - n. 628 del 31-12-2010
Cgil, la casta di burocrati che ha sulla coscienza 30 anni di battaglie perse

di Vittorio Macioce  ilgiornale.it   20101231

Da troppo tempo non fa più il sindacato ma soltanto politica: la sua classe dirigente è vecchia, ancorata a un mondo inesistente
Non si capiranno mai. Marchionne è pragmatico. La Cgil è finto ideologica. Parla degli operai, ma difende soprattutto il suo apparato di burocrazie, interessi, impalcature. Non sono opposti, ma rivali, concorrenti. In mezzo c’è l’uomo, quello che sta alla catena di montaggio, il singolo individuo che fa i conti con la fatica, i soldi, il lavoro.
La sensazione è che Marchionne conosca i metalmeccanici della Fiat meglio del sindacato. Questo non è un merito di Marchionne. È soprattutto la sconfitta della Cgil. L’Americano fa il suo lavoro, i suoi avversari ne fanno un altro, ma è quello sbagliato. Quanti anni sono che la Cgil è sempre più un’azienda di servizi, che fa i soldi con la formazione e le dichiarazioni dei redditi? Da quanti anni la Cgil fa politica? Da quanti anni non fa più sindacato? Troppi.
Forse se si è arrivati a Pomigliano è anche per questo. C’è il passato. C’è il ricordo di quando nelle fabbriche del Sud si diceva: manderemo gli Agnelli a zappare. C’è l’operaio mai visto come individuo da tutelare, ma come soggetto politico o, peggio, come strumento della rivoluzione. C’è una classe dirigente sindacale che non ha metabolizzato la fine del ’900. Ci sono decenni di fallimenti. Ma i sindacalisti non rispondono agli azionisti e neppure agli elettori, così quella classe dirigente resta sempre uguale a se stessa. Si riproduce per cooptazione. Cambiano i volti, non la cultura. Eterni irresponsabili. Se un manager non funziona lo cacciano. Se un partito deraglia perde consensi. Il sindacato è invece una società chiusa. È fondata sul principio della tradizione. Non riconosce l’errore. È immutabile e se il mondo cambia la colpa è del mondo. Marchionne vince perché dissacrante. Non difende un sancta santorum.
Cosa ha fatto la Cgil in tutti questi anni? Non ha vissuto. Non ha capito che il soggetto più debole erano i precari. Se ne è accorta tardi. Ha continuato a tutelare quelli che già erano tutelati. Non ha visto che si stavano delineando due repubbliche del lavoro: una di garantiti, l’altra senza reti. Ha considerato il precariato un’anomalia. Non si è battuta per dare ai lavoratori che rischiano di più un salario più alto. È successo il contrario: chi più rischia, meno guadagna.
Ha sconfessato il merito, come una sorta di peccato mortale. È quello che è successo per esempio nella scuola. Quando si parlava di premiare gli insegnanti migliori la risposta era sempre la stessa: pochi soldi a pioggia per tutti, ai bravi, ai mediocri e ai fannulloni. I salari sono rimasti bassi, per tutti. L’importante era difendere il comandamento per cui bidelli e professori sono tutti e due proletari della cultura. Stesso prestigio e stessi stipendi.
Il contratto nazionale di lavoro come linea del Piave. La Cgil non lo ha fatto per i lavoratori, ma per salvaguardare il suo potere politico: l’oligopolio della rappresentanza. Non importa che l’operaio massa sia un’invenzione. Non importa che il salario reale a Torino non sia lo stesso di Termini Imerese. Non importa il costo della vita. Non importa sapere quanto costa il pane, la casa, la baby sitter. Tutto è uguale. Tutto è indistinto. Nord e Sud non esistono. È lo sguardo deforme di un’Italia vista solo a tavolino, studiata su vecchie mappe del secolo scorso.
Cosa ha fatto la Cgil? Ha svilito e inflazionato lo sciopero generale, scendendo in piazza per ogni mal di pancia extrasindacale o per celebrare il rito spettacolare delle sante masse. Lo sciopero come concerto rock, come rappresentazione, come gita fuori porta, come la maratona di New York.
Il sindacato che non è più mezzo ma fine. I lavoratori passano, la Cgil resta. Fino a ibernarsi. E quando non l’ha fatto ha ripudiato la sua ragione sociale. Cos’è oggi il sindacato? Un’impresa e un ufficio di collocamento, che nei casi peggiori diventa caporalato. Si è finito per andare in quegli uffici a chiedere lavoro come un tempo ci si presentava dal prete o dal notabile locale per chiedere una raccomandazione. È qui che ha vinto Marchionne. Quando ha messo a nudo un motto che sa di decadentismo: il senso della Cgil è la Cgil. Il sindacato per il sindacato.


Ma chi lo dice che le sentenze si devono solo amare e non discutere?

Ma chi lo dice che le sentenze si devono solo amare e non discutere?

di Ishmael italiaoggi.it 20101231

Se il buon anno si vede dalle ultime sentenze giudiziarie, per esempio dalla condanna del comandante dei Ros per narcotraffico (niente meno) e dalla sentenza che reintegra la mezzabusta Tiziana Ferrario alla conduzione del Tg1 delle venti, s’annunciano dodici mesi di disgrazie. Qualche sera fa c’è stata un’anteprima.

Interrogato da un gazzettiere di passo, il presidente della Rai Paolo Garimberti, giornalista anche lui, ha commentato la decisione del tribunale de Roma che reintegra la conduttora sulla sedia girevole del Tg1 con una considerazione degna del giornalismo liberal italiano: «Le sentenze si rispettano, non si commentano».

Perciò guardatevi dal commentare il reintegro della Ferrario. E non sognatevi neppure di ridere, o anche solo d’accennare un mezzo sorriso, sentendo che un onesto e stimato generale dei carabinieri, Giampaolo Ganzer, considerato da tutti un signor investigatore, è stato condannato dal tribunale di Milano per avere intrallazzato con le peggiori mafie. Vedrete che a Capodanno salterà su un altro Garimberti a imporci di non commentare neppure la decisione del presidente brasileiro Luiz Inácio Lula da Silva di non concedere l’estradizione di quel pluriassassino (con la faccia, oltre tutto, da pluriassassino) di Cesare Battisti.

Questa è una società aperta e siamo liberi di discutere qualsiasi cosa: le decisioni degli arbitri di calcio, le previsioni del tempo, le critiche cinematografiche e quelle letterarie. Possiamo fischiare, rischiando una denuncia per molestie, dietro alle ragazze e lanciare monetine ai politici, che se lo meritino o no. Possiamo persino mettere in discussione l’esistenza di Dio senza finire sul rogo come ai tempi in cui era meglio non commentare le sentenze della Santa Inquisizione.

Ma guai a discutere le sentenze dei nostri tribunali. Procure e tribunali, come il Capoccione ai suoi tempi, hanno sempre ragione, anche quando condannano generali innocenti e reintegrano mezzebuste legittimamente giubilate dai loro direttori di testata. Ma almeno il Dux aveva sempre ragione a manganellate, di prepotenza. Adesso invece i vari Galimberti addetti all’anatema contro mormoratori e nemici dello stato ci fanno credere che i tribunali hanno sempre ragione perché così vuole (insinuano) la Costituzione repubblicana. Sia chiaro che non è vero. Tutto si può discutere. C’è assoluta libertà di commento. Futurista chi lo nega.

jeudi, décembre 30, 2010

Un disperato qualunquismo

Un disperato qualunquismo - Corriere della Sera
DITE LA VERITA' AL PAESE

Un disperato qualunquismo

di Ernesto Galli della Loggia   corriere.it   20101230

Non vanno bene le cose per l'Italia. Prima che ce lo dicano le statistiche - comunicandoci per esempio un dato lugubre: che nel 2010 il reddito pro capite degli italiani sarà in termini reali inferiore a quello del 2000 - ce lo dice una sensazione che ormai sta dentro ciascuno di noi e ogni giorno si rafforza.

Basta che ci guardiamo intorno per scorgere un panorama sconfortante: abbiamo un sistema d'istruzione dal rendimento assai basso; una burocrazia sia centrale che locale pletorica e inefficientissima; una giustizia tardigrada e approssimativa; una delinquenza organizzata che altrove non ha eguali; le nostre grandi città, con le periferie tra le più brutte del mondo, sono largamente invivibili e quasi sempre prive di trasporti urbani moderni (metropolitane); la rete stradale e autostradale è largamente inadeguata e quella ferroviaria, appena ci si allontana dall'Alta velocità, è da Terzo mondo; la rete degli acquedotti è un colabrodo; il nostro paesaggio è sconvolto da frane e alluvioni rovinose ad ogni pioggia intensa, mentre musei, siti archeologici e biblioteche versano in condizioni semplicemente penose. Per finire, tutto ciò che è pubblico, dai concorsi agli appalti, è preda di una corruzione capillare e indomabile. C'è poi la nostra condizione economica: abbiamo contemporaneamente le tasse e l'evasione fiscale fra le più alte d'Europa, mentre gli operai italiani ricevono salari ben più bassi della media dell'area-euro; il nostro sistema pensionistico è fra i più costosi d'Europa malgrado le numerose riforme già fatte e siamo strangolati da un debito pubblico il pagamento dei cui interessi c'impedisce d'intraprendere qualunque politica di sviluppo. Ancora: nessuno dall'estero viene a fare nuovi investimenti in Italia, ma gruppi stranieri mettono gli occhi (e sempre più spesso le mani) su quanto resta di meglio del nostro apparato economico-produttivo; nel frattempo il processo di deindustrializzazione non si arresta e la disoccupazione, specie giovanile, resta assai alta.

Nessuno di questi mali ha un'origine recente, lo sappiamo bene. Non paghiamo cioè per errori di oggi o di ieri: o almeno non solo per quelli. È piuttosto un intero passato, il nostro passato, che ci sta presentando il conto. Oggi cominciamo a capire, infatti, che qualche tempo fa - quando? nel '92-'93? un decennio dopo con l'adozione dell'euro? - si è chiuso un lungo capitolo della nostra storia. Nel quale siamo diventati sì una società moderna (qualunque cosa significhi questa parola), ma pagando prezzi sempre più elevati, accendendo ipoteche sempre più rischiose sul futuro, chiudendo gli occhi davanti ad ogni problema, rinviando ed eludendo. Prezzi, stratagemmi, rinvii, che negli Anni 70-80 hanno cominciato a trasformarsi in quel cappio al collo che oggi sta lentamente strangolando il Paese.

Lo sappiamo che le cose stanno così. Ce ne accorgiamo ogni giorno che l'Italia perde colpi, non ha alcuna idea di sé e del suo futuro. Ma ci limitiamo a pensarlo tra noi e noi, a confidarcelo nelle conversazioni private. Avvertiamo con chiarezza che avremmo bisogno di bilanci sinceri e impietosi fatti in pubblico, di un grande esame di coscienza, di poterci specchiare finalmente e collettivamente nella verità. Che ci servirebbero terapie radicali. Invece sulla scena italiana continua a non accadere nulla di tutto ciò.

Chi dovrebbe parlare resta in silenzio. Resta in silenzio il discorso pubblico della società italiana su se stessa, consegnato ad una miseria che diviene ogni giorno meno sopportabile. Ma soprattutto resta in silenzio la politica, divisa tra lo sciropposo ottimismo di Berlusconi, il suo patetico «ghe pensi mi» da un lato, e la vacuità dei suoi oppositori dall'altro. Bersani, La Russa, Bossi, Fini, Bondi, Vendola, Verdini, Di Pietro, Casini, e chi più ne ha più ne metta credono di parlare al Paese con le loro dichiarazioni, le loro interviste, i loro attacchi a questo o a quello, i loro progetti di alleanze, di controalleanze e di governi: non sanno che in realtà se ne stanno guadagnando solo un disprezzo crescente, ne stanno solo accrescendo la distanza dal loro traballante palcoscenico. Sempre più, infatti, la loro produzione quotidiana di parole suona eguale a se stessa: ripetitiva, irreale, ridicola. Mai una volta che uno di essi proponga al Paese una soluzione concreta per qualche problema concreto: chessò, come eliminare la spazzatura a Napoli, come attrarre investimenti esteri in Italia, come finire la Salerno-Reggio Calabria prima del 3000, come iniziare a risanare il debito pubblico. Mai: anche se a loro scusante va detto che nel solcare quotidianamente l'oceano del nulla sono aiutati da un sistema dell'informazione anch'esso perlopiù perduto dietro la chiacchiera, il «retroscena», il titolo orribilmente confidenziale su «Tonino» o «Gianfri», il mortifero articolo di «costume».

Nelle pagine e pagine dedicate dai giornali alla politica diventa sempre più difficile distinguere il vero dal falso, scorgere qualche spicchio di realtà tra i fumi dell'aria fritta. È così che alla fine siamo condannati a questo necessario, disperato, qualunquismo. Agli italiani non sta restando altro. Disperato perché frutto dell'attesa vana che finalmente da dove può e deve, cioè dalla politica, venga una parola di verità sul nostro oggi e sul nostro ieri. Una parola che non ci esorti - e a che cosa poi? A credere in un ennesimo partito, in un'ennesima combinazione governativa? - ma che ci sfidi: ricordandoci gli errori che abbiamo tutti commesso, i sacrifici che sono ora necessari, le speranze che ancora possiamo avere. Per l'Italia è forse iniziata una corsa contro il tempo, ma non è affatto sicuro che ce ne resti ancora molto.


mercredi, décembre 29, 2010

Ronald Coase compie cent'anni, per lui proprietà, concorrenza, libertà indicano la stessa cosa

Ronald Coase compie cent'anni, per lui proprietà, concorrenza, libertà indicano la stessa cosa - Il Sole 24 ORE
Ronald Coase compie cent'anni, per lui proprietà, concorrenza, libertà indicano la stessa cosa
di Carlo Stagnaro   ilsole24ore.it   20101229

Nel giorno in cui compie un secolo, non basta augurare a Ronald Coase, premio Nobel per l’economia nel 1991, “cento di questi giorni”. Bisognerebbe augurargli e augurarsi: cento, mille, centomila di questi economisti. Perché il contributo che questo studioso eclettico e riflessivo ha dato alla comprensione del mondo che ci circonda è tanto importante quanto, spesso, frainteso. Il nome di Coase è legato soprattutto a due questioni: la natura dell’impresa (titolo di un suo saggio del 1937) e i costi di transazione (a cui è dedicato l’articolo sul costo sociale del 1960).

La sua riflessione muove da una domanda: se il modo più efficiente per procurarsi beni o servizi è affidarsi al sistema dei prezzi, perché esiste l’impresa? Il funzionamento interno di un’impresa è dominato da relazioni gerarchiche, non da transazioni di mercato. Per usare l’espressione di Dennis Robertson – economista industriale a cui Coase attinge per il paper del ’37 – le imprese sono “isole di potere cosciente in questo oceano di cooperazione incosciente, come grumi di burro che si coagulano in un secchio di latte”. La risposta, come hanno spiegato bene Giulio Napolitano e Antonio Nicita sul Sole 24 Ore di ieri, sta nel fatto che le stesse transazioni di mercato hanno un costo: individui e imprese della realtà non si muovono in un mondo dove tutti sanno tutto, ma devono sforzarsi per ottenere informazioni, concludere contratti, trovare ciò di cui hanno bisogno. C’è, dunque, un trade off tra l’efficienza del mercato e il suo costo. A volte, conviene affidarsi a decisioni gerarchiche, pur nella consapevolezza che implicano, a loro volta, costi di coordinamento e di organizzazione. Trovare l’equilibrio migliore tra gerarchia e mercato è esattamente la funzione dell’impresa, ed è tale equilibrio che ne definisce la dimensione ottimale. Da queste intuizioni è sgorgato un ricco filone di ricerca sull’organizzazione industriale e la corporate governance, la cui centralità è stata ulteriormente confermata dal Nobel 2009 a Oliver Williamson.

L’altro aspetto su cui Coase insiste è il “costo sociale” delle azioni umane. Tutto ciò che facciamo produce esternalità, cioè effetti positivi o negativi su chi ci sta intorno. A quali condizioni è lecito, utile o giusto che lo Stato intervenga per allineare il “costo privato” al “costo sociale”, per esempio tassando le attività inquinanti o sussidiando quelle che hanno conseguenze gradevoli per il prossimo? Molti economisti ritengono che la semplice esistenza di un’esternalità fornisca la giustificazione per l’intervento pubblico. Coase coltiva una visione opposta: “l’esistenza di ‘esternalità’ non implica che ci sia, in prima istanza, motivo per l’intervento del governo, se con questa affermazione si vuole dire che qualora si trovino delle ‘esternalità’ si suppone che l’intervento del governo (tassazione o regolamentazione) sia preferibile ad altre vie di azione che potrebbero essere intraprese (inclusi l’inazione, l’abbandono di precedenti azioni del governo, o l’agevolare le transazioni del mercato)”. Questo perché possono esistere situazioni in cui “i costi di transazione e i costi dell’intervento governativo fanno sì che sia desiderabile che l’ ‘esternalità’ continui a esistere e che non venga intentato alcun intervento governativo per eliminarla”. Ancora più radicalmente, le esternalità sono onnipresenti perché i costi di transazione sono onnipresenti (così come in fisica l’attrito è onnipresente): sarebbe assurdo da ciò dedurre l’esigenza di un controllo totale del governo sull’economia. Riconoscere l’imperfezione delle transazioni umane e la relativa presenza di esternalità, ossia effetti indesiderati su terzi, “mi suggerisce piuttosto una presunzione contro l’intervento”. La tesi innovativa dell’articolo del 1960 è, appunto, che le negoziazioni di mercato possano consentire di raggiungere esiti efficienti anche in presenza di esternalità, tanto più che – sovente – il tentativo di internalizzare i costi esterni produce a sua volte delle esternalità, che possono essere più gravi o meno facilmente internalizzabili rispetto a quelle originarie.

Il caso da manuale – oggetto esso stesso dell’approfondimento di Coase, che se ne occupò nel 1974 – è quello del faro. Il faro è il tipico bene pubblico, caratterizzato da non rivalità (cioè il fatto che l’individuo x ne fruisca non impedisce a y di fruirne) e non escludibilità (cioè x non può impedire a y di fruirne). Si riteneva che, in virtù di questi limiti, il mercato non avrebbe mai potuto produrre in quantità ottimale i fari, perché sarebbe caduto vittima degli scrocconi (i free rider): coloro che, pur sfruttando (internalizzando) i benefici del faro, si rifiutano di contribuire al suo mantenimento. Attraverso un’accurata indagine storica, Coase scoprì che, al contrario, nei porti inglesi si erano imposte una serie di prassi volte a far pagare tutti coloro che approfittavano del faro, per esempio raccogliendo un pedaggio dalle navi che attraccavano nei porti. In questo modo, egli dimostrò due cose: che i suoi colleghi non si curavano granché della verifica empirica dei loro casi-studio, e che ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne stiano nei libri del giustificazionismo per l’intervento pubblico.

In questo modo, Coase ha giocato un ruolo enorme nello smascherare i miti dello statalismo e nell’invitare gli economisti ad avere più fiducia nella fantasia dei mercati che nella presunzione dei regolatori. I problemi sorgono più frequentemente dall’interventismo che dal suo contrario, e se c’è un compito a cui i governi si devono attenere è quello di proteggere i diritti di proprietà, e aiutarne la formalizzazione quando sono incompleti. Per il resto, possono e devono lasciar fare all’ingegno umano. Perché “la proprietà, la concorrenza e la libertà sono nomi che indicano la medesima cosa”.


Nessuno si indigna per questo

Il Tempo - Politica - Nessuno si indigna per questo
Nessuno si indigna per questo

Polemiche quando gli attacchi arrivano dai giornali di destra. Il Manifesto dipinge il manager Fiat e le sue idee come un ordigno e tutti tacciono.

di MARIO SECHI   iltempo.it  20101229

Quando al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione Marchionne fece un indimenticabile discorso sulla Fiat, la missione di un'impresa e la situazione italiana nel contesto globale, capii che quello era un p
* Pressing di Sacconi su Fiat l'accordo entro Natale
* Il piano per il premier del popolo
* Granarolo con il fiato sospeso
* La triste parabola di Gianfrancozar del Parlamento

La prima pagina de il Manifesto In queste ore Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo Fiat, sta chiudendo l’accordo per il contratto dei lavoratori dello stabilimento di Pomigliano. In gioco ci sono migliaia di posti, venti miliardi di euro di investimenti, il futuro di un pezzo fondamentale dell’industria tricolore, l’automobile. Pomigliano e Mirafiori hanno i destini incrociati, la Fabbrica Italiana, il progetto Fiat per il nostro Paese, va avanti se si trova un accordo solido tra sindacati e impresa. È questa la partita importante, il resto è davvero poca cosa, ma la vibrante protesta in questo Paese continua ad essere permanente e a senso unico. Così ci ritroviamo con Fini e i finiani sostenuti nella loro tenzone contro Libero e Il Giornale dall’ormai scontato codazzo di solidarietà vociante, mentre nessuno si accorge di quel che sta accadendo intorno a Sergio Marchionne, nessuno mette nero su bianco che quel che si dice e scrive del numero uno della Fiat è pericoloso, nessuno si indigna per le frasi e le offese durissime su un manager che vuol far crescere l’azienda e investire ancora in Italia, nessuno si indigna per la prima pagina che il Manifesto ha dedicato a quest’uomo.

Cari lettori, dategli un’occhiata e pensate al contesto in cui Marchionne guida la trattativa con i sindacati. Guardatela bene. Per i compagni del giornale comunista è lui il vero «pacco bomba». C’è da rabbrividire, ma nessuno si straccia le vesti, nessuno tiene alta la bandiera del progresso, nessuno urla all’attentato alla democrazia. Il dibattito politico di questo Paese non è avvelenato dai giornali, ma da un pensiero unico che presuppone il fatto non marginale che il bene stia solo da una parte e dall’altra alberghi il male. Qualche mese fa scrissi un articolo dove raccontavo come Marchionne fosse destinato a diventare il secondo Nemico Pubblico da abbattere a tutti i costi. Dopo Berlusconi, c’è il capo della Fiat e la sua idea di far funzionare l’azienda come un’azienda e non come una succursale dello Stato.

Quando al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione Marchionne fece un indimenticabile discorso sulla Fiat, la missione di un’impresa e la situazione italiana nel contesto globale, capii che quello era un punto di svolta, che stava succedendo qualcosa che avrebbe cambiato il sistema delle relazioni tra impresa e sindacati in Italia, che quell’uomo aveva un’idea precisa del futuro, un orizzonte e una visione e, soprattutto, che aveva il carattere per portare questa sua idea della fabbrica a compimento. Qualche mese dopo, siamo giunti a un «nuovo inizio» di questa storia. Ma contemporaneamente è successo quel che temevo: il livello dello scontro si è alzato paurosamente, il linguaggio degli oppositori di Marchionne stilla veleno, paragoni storici improponibili, iperboli alla polvere pirica, incitamenti alla rivolta nelle fabbriche. Tutto questo è un cocktail micidiali che può innescare reazioni difficili poi da controllare. Bisogna ricordare sempre la nostra storia: l’università e la fabbrica sono state in Italia l’incubatore principale della violenza politica e del terrorismo. I paralleli storici sono ardui, lo scenario è completamente mutato, ma la globalizzazione e le sue regole - difficili da comprendere e da accettare - sono come un interruttore che accende la testa degli ignoranti: non capiscono cosa accade, non si capacitano del fatto che al vertice della Fiat, dentro la Fiat, nel cuore della Fiat, tutto è cambiato, e allora reagiscono ringhiando e minacciando sfracelli. È chiarissimo il percorso di questo scontro politico: se nessuno fa prevalere la ragione, se la sinistra non si mostra responsabile, se il Pd non ritrova il filo conduttore di una forza riformista invece di spaccarsi per l’ennesima volta, se gli agitatori delle minoranze rumorose sembrano essere gli alfieri della maggioranza, se tutto questo prende il sopravvento, ecco che le teste calde entrano in azione. Si parla di «metodo Marchionne» quasi per indicare un sistema di coercizione submano, si usa la parola «fascismo» come se si trattasse di un dispensatore di olio di ricino, si incita alla «radicalità» come dice Nichi Vendola, sottovalutando - in buona fede - che questa parola solletica la fantasia di quelli che amano risolvere le questioni politiche con le maniere spicce. Se qualcuno volesse farsi un’idea delle cose che girano su internet su questo tema, resterebbe prima di stucco e poi comincerebbe a chiedersi in che razza di paese viviamo. Mentre Fausto Bertinotti e Sergio Cofferati escono dal limbo politico per fare un’alleanza anti-Lingotto contro «la deriva Marchionne», online si dipingono scenari per cui il manager della Fiat è «l’amerikano», colui che vuole importare in Italia un modello schiavistico o giù di lì.

Entriamo in un mondo paranoico per cui tutto quello che non è «collettivo» diventa automaticamente «marcio» e da respingere. È il procedimento culturale che ha finora impedito all’Italia di fare riforme radicali sempre più necessarie. La globalizzazione, un fenomeno ineluttabile, viene rifiutata a priori, in nome prima di una confusa teoria «No Logo» (ricordate? Naomi Klein) e dopo di una utopia per cui l’Europa e gli Stati devono farsi carico dei processi industriali e finanziare un welfare che i conti invece dicono sia impossibile da sostenere senza andare dritti verso il fallimento. Bene, tutto questo è realtà nel dibattito pubblico del Paese, un fatto che si tocca con mano e sul quale Marchionne si gioca praticamente tutto, forse anche la pelle. In Italia gli estremisti rossi hanno ammazzato Marco Biagi per molto meno, preso di mira Pietro Ichino e Maurizio Sacconi per il solo fatto di aver sostenuto riforme ragionevoli per garantire flessibilità e lavoro. Marchionne addirittura fa di più: scommette sull’Italia, un Paese dove il costo del lavoro è altissimo e lascia a terra altri pretendenti con le carte in regola per produrre auto a costi più bassi. Il vero rischio è quello che una minoranza irresponsabile e archeologica - la Fiom - e un sindacato ostaggio del radicalismo e in crisi d’identità - la Cgil - blocchino il cambiamento e finiscano per spegnere ogni luce sulla Fiat italiana. Ieri Marchionne era in Brasile, posava la prima pietra del nuovo stabilimento che sorgerà nel complesso industriale portuale di Suape, nella regione metropolitana di Recife. Qui a partire dal 2014 la Fiat produrrà 200 mila nuove automobili all’anno.

Questo è il mondo reale: un mercato unico con poche aziende che si contendono la produzione e i consumatori. Di fronte a tutto questo il destino di Pomigliano e Mirafiori può essere grande o infinitamente piccolo. Nel peggiore dei casi, può essere semplicemente zero, la chiusura e il trasferimento delle attività produttive all’estero. Marchionne ha molti nemici ed è sbagliato individuarli solo nel sindacato duro e puro. La stessa Confindustria esce ridimensionata da questa rivoluzione, l’establishment che ha sempre vissuto degli accordicchi all’ombra della Fiat e delle due o tre grandi industrie del sistema continua a remare contro l’uomo del Lingotto. La paura è quella di perdere il potere di interdizione, non avere più i privilegi derivanti da un modello neocorporativo per cui la Confindustria per l’impresa e la Cgil per il lavoro finivano per avere lo stesso interesse. Sbagliato, ovviamente, perché i buoni accordi si basano sulla concorrenza delle idee e non sul consociativismo al ribasso. Come ha scritto Francesco Forte sul Foglio, Marchionne sta picconando questo sistema e fa «cadere il Muro di Berlino della vetusta concertazione del 1993». Ecco perché viene dipinto come «il pacco bomba». E nessuno si indigna, nessuno fa una piega. L’accusa cade nel silenzio generale di chi pensa di cambiare la storia con uno sciopero generale.


mardi, décembre 28, 2010

De Brabançonne, Die Brabançonne, La Brabançonne

Professione antagonista

Professione antagonista - Italia - Panorama.it
Professione antagonista

di Carmelo Abbate    panorama.it   20101228

Sono pochi. Sono i soliti ignoti al grande pubblico e alle stesse minoranze che trascinano in strada nelle manifestazioni di protesta. Stanno nelle retrovie, muovono le fila, tengono accesa la fiammella del ribellismo, pronti ad alimentare qualsiasi scintilla di disagio sociale. Oggi gli studenti, domani i precari o gli immigrati. Uniti contro la crisi è il massimo: quando riescono a mettere insieme i pezzi, come hanno fatto con successo a Roma, per convogliarli verso l’unico «grande nemico», che è l’intero sistema politico e democratico, hanno raggiunto l’obiettivo.
Agiscono con tecniche sopraffine, perseguono risultati che nulla hanno a che vedere con i motivi per cui i ragazzi scendono in piazza. Il loro scopo è la visibilità, le prime pagine dei giornali, la legittimazione sul campo da parte dei media e del mondo istituzionale. Per raggiungere l’obiettivo sono pronti a tutto, anche a creare le condizioni perché ci scappi il morto. Anzi, il morto è il massimo risultato con il minimo sforzo. Sono dei professionisti della disobbedienza.

Sono riusciti a costruire un autentico business che ruota attorno ai centri sociali. Hanno uno stile di vita per nulla coerente con le chiacchiere con cui infarciscono le teste dei ragazzi che trascinano nelle piazze.

Di gente così è piena l’Italia. Ma se vuoi toccare con mano quella che è l’aristocrazia del movimento, quella che ne detiene il marchio di fabbrica, allora devi fare un salto a Padova. La città di Toni Negri, di Autonomia operaia, degli scontri seguiti agli arresti del 7 aprile 1979, quando un gruppo di dirigenti e militanti dell’Autonomia operaia, Negri in testa, furono arrestati su ordine del sostituto procuratore di Padova Pietro Calogero, con l’accusa di essere il cervello organizzativo di un progetto di insurrezione armata contro i poteri dello Stato.

Parole, megafoni, spranghe, manifestazioni, concerti, botte, arresti, spinelli e spritz: trent’anni sono passati, Padova è sempre lì, con il centro sociale Pedro (intitolato a un ragazzo morto negli anni 80) a fare da punto di riferimento per tutta la galassia disobbediente del Nord-Est. Perché i padovani sanno usare le mani ma soprattutto la testa, sanno maneggiare gli strumenti di piazza ma sempre ben inseriti in una strategia politica.

La strategia di un gruppo ristretto che ha in Luca Casarini, 43 anni, una sorta di guru. Lancia la parola d’ordine, scrive i discorsi, firma i manifesti, come ha fatto dopo gli scontri di Roma. Sul sito di GlobalProject, la piattaforma multimediale del movimento antagonista, Casarini ha parlato di «momento storico» che è riuscito a mettere insieme l’università, la precarietà, le lotte ambientali, la questione metropolitana, la povertà. Il tutto saldato insieme «in una dinamica di rivolta di una generazione compressa», mentre la «risposta della politica è un arroccamento nei propri palazzi e nei propri giochi».

Nello scritto di Casarini c’è il metodo collaudato del movimento: aizzare i singoli momenti di protesta, fonderli verso l’obiettivo più alto di una insurrezione contro il sistema, poi fermarsi a ragionare e ripartire verso il prossimo disordine organizzato. A Roma non c’erano soltanto gli studenti dentro una protesta che di fatto aveva come pretesto la riforma universitaria. Raggiunto l’obiettivo, Casarini lancia l’appuntamento del 22-23 gennaio a Marghera, sorta di stati generali degli antagonisti.

Si ritroveranno lì i soliti ignoti del Pedro, e non solo. Ci sarà Max Gallob, il comandante in capo che ha raccolto il ruolo operativo di Casarini. Gallob, 37 anni, una collezione di denunce e arresti alle spalle, vive in una casa pubblica dell’Azienda regionale per l’edilizia residenziale. Sta molto meglio di lui Sebastian Kohlsheen, padre tedesco e madre veneta. Sempre in testa ai cortei, mediatico, narciso.

Sebastian ha 24 anni e vive in una elegantissima e centralissima casa a due piani attaccata alle mura del Castello Carrarese. Di proprietà del demanio, la casa è occupata e assegnata a Sebastian dall’organizzazione come una sorta di benefit aziendale. Un benefit con travi a vista, muri in pietra del ‘600, camino, giardino, ballatoio, vista sul canale. Valore commerciale: 700-800 mila euro.

Pierlorenzo Parrinello, 40 anni, detto «Lama» per l’inarrestabile impulso di sputare addosso soprattutto ai politici di destra, è figlio di un chirurgo romano e quando va a Roma si ritira nella casa di famiglia nel quartiere Parioli. Alle ultime elezioni per il sindaco di Padova Parrinello era candidato nella lista civica di Aurora D’Agostino, ex consigliere comunale e figura centrale degli antagonisti padovani. D’Agostino è l’avvocato che li difende tutti in tutti i giudizi. Senza spese, per loro. Ma non per noi, perché con l’istituto del gratuito patrocinio il conto lo pagano i contribuenti. E così l’avvocato in certi anni arriva a fatturare molte migliaia di euro.

Le stesse cifre sulle quali ballano quelli del movimento che gestiscono Radio Sherwood, il megafono del movimento. Figura centrale dell’emittente è Wilma Mazza, la zapatista attivista dell’associazione Ya Basta, proprietaria di un negozio in centro a Padova e pure di un paio di alberghi.

Mazza, 45 anni, gestisce la radio insieme con Graziano Sanavio e Marco Rigamo, arrestato nell’operazione 7 aprile. Il business della radio di questi ultimi anni è consistito nella vendita delle frequenze assegnate negli anni Settanta. Le ultime tre di una lunga serie sono state cedute un paio di anni fa. Segreto il prezzo, ma il valore commerciale era stimato in circa 500 mila euro.

Legato a Radio Sherwood il festival che si tiene dal 2001 nel piazzale dello stadio, concesso per una cifra simbolica dal Comune di Padova. Dura un mese e attira almeno 150 mila persone. Biglietto d’ingresso: 1 euro. Ma quando ci sono i concerti si pagano 10-15 euro e ci si dimentica di tutte le campagne a favore della musica gratis per tutti. Intanto, a fine kermesse, calcolando anche la cessione degli spazi interni a ristoratori e negozianti, gli introiti superano il milione di euro.

Chi non ha bisogno di questi soldi, perché ne ha di famiglia e perché, pur alleandosi in piazza con quelli del Pedro, ne prende poi le distanze in termini di appartenenza, è Omid Firouzi, del collettivo di scienze politiche padovano.

Firouzi, 30 anni, iraniano in Italia con permesso di soggiorno, era a Roma durante gli scontri del 14 dicembre. Era anche a Genova per il G8. E quando è stato condannato dal giudice per i fatti di piazza Alimonda è andato a scontare gli arresti domiciliari in una elegante villa familiare nella zona di Madonna di Campiglio. Vista dall’alto la guerra è tutta un’altra cosa. (carmelo.abbate@mondadori.it)


Il sogno (sindacale) americano

Il sogno (sindacale) americano - [ Il Foglio.it › La giornata ]

 di Stefano Cingolani  1lfoglio.it   20101228

Il sogno (sindacale) americano

Duttili contro la crisi, le union tornano toste a difesa dei diritti

Il modello americano che Sergio Marchionne vuol portare a Torino provoca irritazione e ripulsa da un capo all’altro dello spettro politico e sociale. Giampaolo Galli, direttore generale della Confindustria, gli preferisce il Modell Deutschland. Mentre il sociologo Luciano Gallino lo dipinge con tratti conradiani. “L’orrore, l’orrore”, nemmeno fosse il rantolo di Kurtz in “Cuore di tenebra”. Quel che suscita disgusto è l’aziendalismo e lo scambio, in pieno spirito mercantil-capitalistico, tra salario, occupazione e diritti. Insomma, il ciclo economico viene accettato, inevitabile come il destino. Ma siamo sicuri che il sistema americano sia tanto diabolico?

Qualche fatto prima di trarre le conclusioni. L’ultimo, è proprio di questi giorni. Alla vigilia di Natale, Bob King, presidente di United Auto Workers, il sindacato dell’auto, ha lanciato la nuova campagna per il 2011. Fin da gennaio, partirà un’iniziativa su scala nazionale per portare il sindacato anche nelle fabbriche dove non è presente, in particolare negli stabilimenti giapponesi e tedeschi (Toyota, Honda, Nissan, Hyundai, Kia, Bmw, Mercedes, Volkswagen) ubicati per lo più negli stati del sud. King non lo farà da solo, né come pura iniziativa settoriale e corporativa: infatti, sta muovendo mari e monti per raccogliere consensi trasversali e politici. Ha aderito l’eterno reverendo Jesse Jackson con la sua Rainbow Coalition (King è un attivista democrat di lunga data), ma danno già il loro sostegno anche il sindacato dei braccianti, che organizza i lavoratori migranti, e quello del tabacco dato che King lo ha aiutato a penetrare alla Reynolds, in North Carolina.

Tutto questo, perché sono in ballo non solo i contratti, ma i diritti dei lavoratori. Diritti? Non erano stati svenduti per un pugno di dollari? Forse, certo non lo saranno ancora per molto, sperano le union americane. Ma la Uaw non è l’archetipo del sindacato giallo e Bob King il suo profeta? Così, in Italia, ci era stata venduta la storia. Appena nominato, del resto, aveva sposato la cooperazione e non il conflitto. Educato dai gesuiti, tiene sempre in mente la dottrina sociale della chiesa. Figlio di un ex direttore delle relazioni industriali alla Ford, e laureato in legge, tende a considerare il punto di vista e gli interessi della controparte. Ma nel suo discorso di investitura ha detto chiaramente che la collaborazione è possibile solo con quelle aziende che consentono la rappresentanza sindacale e rispettano i diritti. Il referendum, spiega il sindacalista, è il momento della verità, per la base e per le imprese che tendono a manipolare le scelte dei lavoratori.

Del resto, Bob King non è un mediatore di professione: nel 1996-97, durante gli scioperi dei giornali a Detroit è finito tre volte in galera per disobbedienza civile. E’ stato accolto alla Uaw come un soffio di rinnovamento e spirito giovanile, nonostante abbia ormai i suoi 64 anni. Il predecessore, Ron Gettelfinger, ha pagato duramente la crisi e le concessioni alle quali è stato costretto per evitare il fallimento di Gm e Chrysler. Non a caso, scrive Steve Rattner, il salvatore dell’auto americana, Gettelfinger rifiutò di stringere le mani al rappresentante Fiat nella fase finale del negoziato. Un accordo doloroso, inevitabile, ma anche positivo. Lo ricorda King che si è fatto le ossa alla Ford e nel 2006 ha ingoiato il taglio di 40 mila dipendenti. Modello americano. Oggi Ford è la regina dell’auto, non ha chiesto soldi ai contribuenti, è tornata ad assumere e ad aumentare i salari. Che c’è di male? Magari accadesse anche alla Fiat, dove i livelli di occupazione sono crollati e con essi le buste paga, nonostante gli aiuti pubblici elargiti da tutti i governi. Modello italiano.

E quello tedesco? E’ per tutti sinonimo di cogestione, che però ha come pendant il bancocentrismo (Deutsche bank controlla Daimler), il potere delle autorità locali (la Bassa Sassonia è azionista Volkswagen), governi di coalizione i quali portano l’età pensionabile a 67 anni e aumentano la flessibilità del mercato del lavoro, ben prima della crisi. C’è un sistema industriale che aborre la microconflittualità tanto quanto il sistema economico respinge l’inflazione e quello politico impedisce crisi di governo “al buio”. Esiste qualcosa del genere in Italia?

Sia il sindacalismo made in Usa sia quello made in Germany hanno nell’egoismo dei garantiti il loro lato oscuro. Gli accordi alla Volkswagen riguardano solo gli operai tedeschi (alla faccia dell’internazionalismo proletario). Alla Chrysler e alla Gm, gli americani hanno tagliato benefici (in particolare sanità e previdenza) e paghe agli ultimi arrivati. Ma l’Italia non può certo scagliare la prima pietra: le rigidità del posto fisso sono state pagate dal lavoro precario. Non esiste un sindacato che persegua davvero gli interessi generali. Meglio, dunque, se s’accontenta di far bene il proprio mestiere.

dimanche, décembre 26, 2010

Ostellino: "Cosa manca a questo centrodestra"

Il Giornale - Ostellino: "Cosa manca a questo centrodestra" - n. 623 del 23-12-2010


di Luigi Mascheroni   ilgiornale.it    20101223


Intervista a Piero Ostellino, editorialista del Corriere della sera. "Berlusconi è vivo, difficile ammazzarlo. La legge Gelmini è un segnale importante, ma i liberali si aspettano di più. E' la sinistra la vera forza reazionaria: difende la Costituzione, che è anacronistica e blocca le riforme"

Piero Ostellino è molte cose. Un gior­nalista, un politologo, un ex direttore del Corriere della Sera , un club del qua­­le pochi possono vantarsi di fare parte, e soprattutto un liberale. Circolo - se possibile - ancora più ristretto. Un «li­berale scomodo», come si è definito una volta. «Ormai, più che altro, un vecchio libe­rale».

Cosa significa essere liberali?
«Essere minoritari in un Paese total­mente privo di cultura liberale, e quin­di essere picchiato sia da destra che da sinistra».

Lei è di destra o di sinistra?
«Sono “altrove”, cioè dalla parte del cittadino. Una categoria di solito di­menticata dalla politica e dal giornali­smo».

Perché dimenticata?
«Perché in tutti i discorsi dei politici e in tutte le pagine dei giornali non c’è mai posto per la più importante delle doman­de: “ Ma a me cittadino, da tutto questo cosa ne viene?”. Vale a di­re: dopo tutti gli accordi, le divi­sioni, i provvedimenti bocciati o le leggi approvate, quanto au­mentano e quanto diminuisco­no la libertà e il benessere del cit­tadino­ elettore? Domandarse­lo significa essere dei liberali».

Questo governo se l’è do­mandato? Cosa ha fatto e cosa non ha fatto di libera­le?
«Ha fatto diverse cose che si proponeva di fare, soprattutto la riforma Gelmini, contro la quale incredibilmente i giovani, pro­babilmente senza neppure sa­pere perché, stanno protestan­do: se c’è una riforma meritocra­tica, che limita il potere dei baro­ni a favore di chi studia, questa è proprio la riforma Gelmini. Cer­to, è perfettibile. Ma poiché la so­cietà perfetta non esiste, se non nella mente degli utopisti, dob­biamo accontentarci».

E cosa non ha fatto invece Berlusconi?
«Nel 1994 promise di fare due cose fondamentali per rilancia­re l’Italia: una radicale riforma della pubblica amministrazio­ne, tagliando la spesa pubblica; e un ridimensionamento della pressione fiscale. Ciò avrebbe si­gnificato ripresa economica e miglioramento della vita socia­le. E questo non è stato realizza­to».

Per colpa di chi?
«Da una parte per un’opposi­zione interna al centrodestra, e con questo non intendo solo Fi­ni o Casini, ma anche qualcuno dentro Forza Italia... E forse per­sino lo stesso Berlusconi non ci ha creduto fino in fondo...E dal­­l’altra, ovviamente,per l’opposi­zione della vera forza conserva­trice di questo Paese».

La sinistra.
«La sinistra. Che non a caso co­me­slogan del proprio conserva­torismo ha scelto “Giù le mani dalla Costituzione!”. Ma se esi­ste una Costituzione vecchia e anacronistica è proprio la no­stra, il risultato di un compro­m­esso tra il cattolicesimo dosset­tiano e il comunismo di stampo sovietico. Una Costituzione che è tutto tranne che liberale, un mi­sto tra collettivismo comunista e corporativismo fascista. Da cui discende la natura della no­stra politica che da sempre, inve­ce che dirigere il Paese, pensa a difendere gli interessi di un grup­p­o piuttosto che un altro e a me­diare tra i diversi interessi».

Lei ha detto che la colpa è anche di qualcuno dentro il partito del premier.
«Sono i democristiani conflui­ti in Forza Italia che si portano appresso il vecchio vizio della Dc di voler accontentare tutti. Correnti, “colori” e fazioni sono l’espressione più evidente delle corporazioni in cui è divisa la so­cietà. Fino a quando questa ten­denza sopravvive, Berlusconi non potrà realizzare i suoi obiet­tivi».

A proposito di Berlusconi, è vivo o morto?
«Visto come è andata alla Ca­mera la scorsa settimana direi proprio che è vivo. Ammazzarlo credo sia difficile. Certo però che è ferito. L’implosione del centrodestra, con l’uscita di Fi­ni, lo ha politicamente azzoppa­to. Gli rimane ancora una gran­de attrazione elettorale, ma ha perso in parte la forza governati­va. Ma in fondo questa è sempre stata la sua natura».

E qual è la sua natura?
«Gli antiberlusconiani lo di­pingono come un autocrate, un dittatore, ma in realtà lui è un monopolista. La sua natura di uomo di affari prevale sulla sua posizione politica. È il migliore nel raccogliere il voto della gen­te comune, cioè dei moderati. Ma una volta vinte le elezioni si convince che la cosa più impor­­tante l’ha già fatta, quando inve­ce deve iniziare a governare. Che significa anche dialogare con i suoi collaboratori, i quali spesso non hanno però il corag­gio di dirgli “Non sono d’accor­do”... Già di suo, poi, Berlusconi è convinto che ascoltare gli altri sia una perditadi tempo. E que­st­o vale anche verso le forze del­l’opposizione. Invece, non dico con Repubblica , ma almeno con Bersani potrebbe parlare... Ma­le non gli farebbe».

I ministri migliori di que­sto governo?
«Non mi piacciono i giochetti migliore-peggiore».

Mettiamola così: quelli che l’hanno più soddisfat­ta.
«Tremonti, per aver cercato di tenere i conti in ordine. È grazie a lui che non abbiamo fatto la fi­ne della Grecia: quando Berlu­sconi si ritirerà potrebbe essere lui il nostro Sarkozy, a patto che l’anima socialista lasci posto a quella liberale. Sacconi, un ex so­cialista di grande buonsenso, an­che se sembra quasi un democri­stiano. Gelmini, per il tentativo di modernizzare l’università. Maroni, un grande ministro de­gli Interni per la moderazione con la quale parla e si muove. E Frattini, il miglior ministro degli Esteri possibile in un governo che ha come premier un mono­polista come Berlusconi che fa già lui il ministro degli Esteri».

Quelli che l’hanno soddi­sfatta di meno?
«Tutti gli altri. Figure abba­stanza grigie». E Fini? «Un altro prodotto del mono­polismo berlusconiano. Era un oppositore interno petulante e ondivago. Ma con l’espulsione dal partito, perché di fatto è stata un’espulsione, Berlusconi lo ha fatto diventare un caso istituzio­nale. Mi chiedo: ma era così diffi­cile sopportarsi? Detto questo, Fini è diventato incompatibile con la carica che ricopre non per l’appartamento di Montecarlo ma perché da presidente della Camera ha creato un partito. Non si tratta di un problema mo­rale, ma istituzionale».

Ma è un traditore?
«No, il tradimento non è una categoria politica».

E dal punto di vista politi­co, cos’è Fini?
«Una figura molto modesta. Non è certo l’alfiere di una de­stra liberale e moderna che qual­cuno vuole farci credere che sia».

La Lega?
«Partita bene, con una voca­zione rivoluzionaria riassunta nel grido grezzo ma efficace “Ro­ma ladrona” contro sprechi, fa­voritismi e assistenzialismo, pe­rò poi trasformatasi in una sorta di Democrazia cristiana locale, troppo attenta alle parentele e agli interessi “particolari” che le impediscono di diventare una vera forza nazionale. Insomma, mi sembra un po’ indebolita».

E la sinistra come sta? È vi­va o morta?
«Definitivamente defunta. E lo dico con rammarico, perché avremmo davvero bisogno di una opposizione seria e riformi­sta. Questa sinistra invece difen­de gli occupati e non i giovani che cercano lavoro, i baroni e non gli studenti... è una sinistra post-comunista che ha perso il miraggio della rivoluzione e non sa dove guardare. Non ha più un riferimento».

E la nuova sinistra? Vendo­la e Renzi? «Vendola mi fa tenerezza, mi sembra un Pasolini che non scri­ve poesie, uno che fa discorsi da vecchio comunista condendoli con una retorica giovanilistica. Renzi è un rottamatore dentro una sinistra già rottamata, un to­scano più incline allo sberleffo che alla retorica. Funzionano be­ne a livello locale, ma nessuno dei due ha la statura del leader nazionale».

Saviano, il «papa nero»?
«Mi fa pena, nel senso cristia­no di pietas: ha scritto un libro di successo, la sinistra intellettuale lo ha usato per fargli dire di tutto e appena ha scritto una lettera agli studenti prendendo le di­stanze dalla protesta di piazza lo ha scaricato. Una vergogna».

Perché gli intellettuali di sinistra non hanno mai sopportato Berlusconi e il berlusconismo?
«Perché, a differenza dell’in­tellettuale liberale che diffida del potere, quello di sinistra ne è affascinato. Adora il potere. E Berlusconi ogni volta che vince le elezioni glielo toglie».

Alle prossime elezioni co­sa voterà?
«Non voto più da 30 anni. Tor­nerò a farlo solo quando verrà ri­formato questo Stato fortemen­te illiberale».

E canaglia.
«E canaglia, sì. Perché uno Sta­to che trucca­i semafori per gua­dagnare sulle multe e mette le te­lecamere nascoste per vedere chi attraversa la frontiera con la Svizzera, come se fossimo tutti evasori fiscali, è uno Stato cana­glia. Indipendentemente da chi lo governa».


Che vergogna l’Europa: i crimini staliniani pesano meno della Shoah

Il Giornale - Che vergogna l’Europa: i crimini staliniani pesano meno della Shoah - n. 624 del 25-12-2010
Che vergogna l’Europa: i crimini staliniani pesano meno della Shoah

di Stenio Solinas    ilgiornale.it   20101224


L’Unione Europea ha risposto no alla richie­sta di sei Paesi membri usciti dal passato comunista di equi­parare il negazionismo dei crimini staliniani a quello (punito per legge) dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti

L’Unione Europea ha risposto negativamente alla richie­sta di sei Paesi membri usciti dal passato comunista di equi­parare il negazionismo dei crimini staliniani a quello (che è punito per legge) dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Repubblica Ceca, Romania, Ungheria, Bulgaria, Li­t­uania e Lettonia hanno conosciuto sulla loro pelle la bruta­lità indicibile del comunismo sovietico: ma per la Commis­sione Europea dovranno rimanere crimini di Serie B.

La storia riletta con l'occhio della legge non è mai un bell'affare e il comparativismo criminal-giuridico ancora meno. Nei giorni in cui l'Unione Europea dibatteva e poi respingeva l'equiparazione fra la Shoah e le vittime dello stalinismo, e quindi fra nazismo e comunismo, mi sono andato a rileggere quel bel libro che si chiama Koba il Terribile (Einaudi ed.) scritto da Martin Amis qualche anno fa.
Io non credo alla criminalizzazione della politica, disprezzo gli studi psicanalitici travestiti da saggi storici e, così come non mi ha mai convinto una lettura psichiatrica del nazionalsocialismo, mi lascia indifferente un'analisi del leninismo e dello stalinismo condotta con i medesimi criteri. Ma questo libro è così particolare da meritare un cambiamento di vedute. Amis non è uno storico, è un romanziere inglese, figlio di quel Kingsley Amis che fu un acceso comunista negli anni Trenta-Quaranta e un fervido anticomunista nei due decenni successivi, un comunismo e un anticomunismo i suoi tipicamente anglosassoni, ovvero squisitamente intellettuale nel primo caso, assolutamente empirico e pratico nel secondo. Nato nel 1949, Martin Amis è stato in qualche modo vaccinato dall'esempio paterno, ma l'avere la sua giovinezza coinciso con la contestazione e l'effimero rifiorire del marxismo come movimento libertario e terzomondista, ne fa un testimone attendibile della sua epoca e del fascino che questa dottrina ancora esercitò in quegli anni.
Cosa c'è di nuovo in Koba il Terribile che giustifica il parlarne a chi, come i lettori di questo giornale, non ha certo aspettato la caduta del Muro di Berlino per fare i conti con questa utopia negativa del XX secolo? C'è che Amis coglie un elemento fondamentale per spiegare il successo e l'appeal che per quasi sessant'anni accompagnò il comunismo in Russia e fuori: l'esperimento in corpore vili di un'avanguardia intellettuale, una setta di rivoluzionari di professione, in guerra contro un'intera società. Quando per giustificare la superiorità «morale» del comunismo nei confronti del nazionalsocialismo si dice che, a differenza di quest'ultimo, non ci fu l'eliminazione, razzialmente sistematica, di un'etnia, ci si dimentica di aggiungere che fu qualcosa di peggio: l'eliminazione forzosa di tutto ciò che non era in sintonia con l'ideologia professata. Il comunismo in Russia non eliminò gli ebrei in quanto tali, eliminò l'intera Russia: gli intellettuali, cioè in realtà i professionisti, ingegneri, professori, imprenditori, i proprietari terrieri e i contadini, i commercianti, tutti quelli che, indipendentemente dalla loro estrazione sociale, potevano essere considerati, o si rivelavano, ostili e/o estranei al nuovo corso. Fu un'eliminazione ottenuta con la violenza, la delazione, l'inganno e resa altresì possibile dalla più assoluta mancanza di pietà: non c'erano legami familiari, amicali, di ceto o di costume a cui potersi richiamare, c'era la sottomissione totale a un sistema di pensiero e di potere, alla instaurazione della società comunista in terra. Alla solita, stupida obiezione del fine che giustifica i mezzi, oppure del fine buono tradito dal mezzo cattivo, Amis risponde lucidamente: «Non è affatto chiaro come l'idea del paradiso-via-inferno abbia potuto sopravvivere a un solo istante di riflessione. Proviamo a immaginare che il “paradiso” promesso da Trockij sorgesse improvvisamente dal mucchio di macerie del 1921. Sapendo che per crearlo erano state sacrificate milioni di vite, chi avrebbe voluto abitarlo? Un paradiso a quel prezzo non è un paradiso. I mezzi determinano i fini, è stato detto, ma in Urss i mezzi sono stati l'unica cosa che si sia stati in grado di raggiungere. Esiste una contraddizione dentro la contraddizione: l'utopista militante, il perfettibilizzatore, nutre già in partenza una risentita rabbia verso l'evidenza della imperfettibilità umana. Nadezda Mandel'stam parla della “satanica” arroganza dei bolscevichi. La loro è anche un'infernale insicurezza e ostilità, un'infernale disperazione».
Questo spiega anche l'altro elemento che caratterizza il totalitarismo marxista-leninista. Il fascismo e il nazionalsocialismo furono spietati nei confronti dei loro avversari, ma la loro spietatezza coincideva con l'annientamento fisico. Qui, invece, sempre, comunque e prima dell'eliminazione fisica c'è l'eliminazione psicologica. Non ci si accontenta del corpo, si vuole l'anima. Le «confessioni», i «processi» miravano a questo, al riconoscimento dell'errore, alla espiazione e alla riaffermazione della giustezza della causa: non solo io sono colpevole, ma mi faccio schifo in quanto tale ed esigo il castigo che la mia colpevolezza comporta...
La costruzione di un sistema del genere può reggersi solo se il grado di spietatezza è totale e se tutti ne sono consapevoli. Ed è questa militarizzazione della vita pubblica, questa trasformazione di ciascuno dei suoi membri in combattente e custode dell'ortodossia, e quindi spia, delatore, tutti traditori di tutti, che permette negli anni la durata del regime. Una volta che essa comincia a venir meno, via via che la tensione si allenta, perché inumana, non in grado di mantenersi per più di una generazione, il risultato è la crisi e poi la dissoluzione del regime stesso. Come ha scritto Solzhenitsyn, alla base della lunga sopravvivenza del regime c'è «la sua forza disumana, inimmaginabile nell'Occidente». Lo storico Robert Conquest ha spiegato che «la realtà dell'attività di Stalin spesso non veniva creduta proprio perché appariva incredibile. Il suo stile si fondava sul fare ciò che in precedenza era stato considerato moralmente o fisicamente inconcepibile».
Il libro di Amis racconta proprio questo: la creazione intellettuale di un «uomo nuovo» inumano, privo cioè di quegli elementi del vivere civile comunemente intesi, una macchina programmata per una società ferrea, subordinata in tutto e per tutto all'affermazione di un'idea, la società degli eguali militarmente intesa, ovvero un gigantesco, lugubre cimitero.
È l'incredibilità dell'esperimento che aiuta a spiegare, non a scusare, il plauso, anch'esso intellettuale, che in Occidente lo accompagnò. Il 7 aprile 1935 un decreto, pubblicato sulla prima pagina della Pravda, stabilì che sopra i dodici anni si era passibili «di tutte le misure della giustizia penale», inclusa la pena di morte. Era una legge che aveva due obiettivi, nota Amis: «Uno era sociale, accelerare l'eliminazione della moltitudine di orfani inselvatichiti e allo sbando creati dal regime. L'altro era politico: applicare una barbara forma di pressione sui vecchi oppositori, Kamenev, Zinov'ev, che avevano figli di età idonea; presto questi uomini sarebbero caduti e con loro anche le loro famiglie. La legge del 7 aprile 1935 era la cristallizzazione dello stalinismo “maturo”. Cercate di immaginare la massa del guantone con cui Stalin vi colpiva in faccia, immaginate la massa». Bene, il Partito comunista francese dell'epoca, dovendo commentare quella legge, sostenne che era giusta. Sotto il socialismo, infatti, i bambini crescevano molto più in fretta... È un sublime umorismo involontario, e strappa una risata: ma dietro questa risata vi sono, come ricorda il sottotitolo di Koba il Terribile, «venti milioni di morti»... Se siano o no comparabili non ce lo faremo dire dalla Ue.


samedi, décembre 25, 2010

La minestra non scende dal cielo

Il Riformista
La minestra non scende  dal cielo

di Giampaolo Pansa  ilriformista.it   20101225

Cari ragazzi, se volete un futuro datevi da fare

La minestra non scende dal cielo. L’avevate mai sentita questa? È un regola di vita che può essere tradotta nel modo seguente: il piatto di minestra non si riempie da solo. Quando ero un ragazzo, me lo sono sentito ripetere un’infinità di volte. Era una litania recitata soprattutto da mia nonna Caterina Zaffiro.
Lei dava molta importanza alla minestra. Anche perché da giovane vedova non sempre aveva potuto mangiarla. E non sempre era stata in grado di offrirla ai suoi sei bambini.
Volevo scrivere un Bestiario sui giovani rivoltosi che hanno messo a ferro e a fuoco il centro di Roma. Però mi rendo conto di essere partito da tempi troppo lontani.
I ragazzi di oggi che cavolo ne sanno dell’importanza di un piatto di minestra? E della difficoltà di procurarselo? Se hanno delle nonne, sono di sicuro signore ancora giovani, cresciute in un’Italia molto diversa da quella che circondava Caterina. E non recitano litanie.
Ma allora, visto che siamo alla fine dell’anno 2010, voglio raccontare qualcosa ai rivoltosi che si preparano a darci un Natale turbolento. Incoraggiati dalla convinzione di poterla fare franca di nuovo. Del resto, i loro compagni arrestati sono tornati subito in libertà, grazie alla clemenza dei magistrati che avrebbero dovuto tenerli in prigione per un po’ di tempo.
Ho imparato che i giudici non vanno criticati. Sono un potere molto forte e geloso della propria autonomia. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha protestato per aver visto ritornare sulla pubblica via dei giovanotti che gli hanno sfasciato il centro della capitale. Era una protesta che nel mio piccolo ho condiviso. Ma che ha subito ricevuto una replica altezzosa del presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Lui ha sentenziato: accettiamo le critiche, ma non gli insulti. Però non mi pare che il sindaco di Roma abbia insultato nessuno.
Comunque sia, i giovani liberati e i tanti che non hanno trascorso nemmeno un’ora al fresco, appartengono a una generazione che non sa niente della vita. Credono che tutto gli sia dovuto. Si lamentano di non avere un futuro luminoso. Però non muovono un dito per costruirselo da soli. Anche perché vivono nell’illusione che la minestra, e tutto quello che viene dopo, sia un diritto privo di fatica e garantito dagli adulti.
State attenti, cari teppisti, cari sfasciatori di vetrine, di bancomat, di automobili, cari picchiatori di poveri poliziotti. Il mondo non gira come pensate voi. La vita che vi aspetta sarà molto più dura di quella dei vostri padri, dei vostri nonni, dei vostri bisnonni.
Non dovete credere alle favole che dei genitori distratti o troppo clementi vi hanno raccontato. Anche nell’epoca dei computer, di internet e dell’ipod vi potrebbe capitare di ritornare poveri. E di fare i conti con un’esistenza difficile, soprattutto per chi non ha un mestiere vero e finirebbe per ritrovarsi, lo dico alla buona, con le pezze al culo.
Allora, cari bamboccioni violenti, vi potrà servire la storia di mia nonna Caterina, quella del piatto di minestra. Non era nata nel Medioevo, ma nella seconda metà dell’Ottocento. E in una pianura, quella vercellese, a un tiro di schioppo da Torino e da Milano. Era analfabeta e così è rimasta sino alla morte, nel 1947. Non aveva mai un soldo in tasca e rimase vedova a 33 anni, con sei bambini da crescere. Il marito, Giovanni Eusebio Pansa, era un bracciante agricolo. E fu ucciso da un infarto mentre zappava il campo di un padrone.
I figli vennero mandati a lavorare da piccoli. Mio padre Ernesto, il quinto del gruppo, non riuscì neppure a finire le elementari. Aveva nove anni quando lo spedirono fare il servitore in un’azienda agricola, con l’incarico di portare le mucche al pascolo. Era così abituato a non possedere nulla che si ritenne fortunato il giorno che Vittorio Emanuele III, re d’Italia, lo chiamò alle armi e lo inviò al fronte, nella Terza Armata al comando del Duca d’Aosta. Aveva compiuto da poco i diciotto anni.
Tanto tempo dopo, gli chiesi come si fosse trovato nell’inferno della prima guerra mondiale. La sua risposta fu una lezione indimenticabile. Mi disse che si era trovato non bene, ma benissimo. L’esercito gli aveva dato il primo cappotto della sua vita, una novità strepitosa per un ragazzo che si difendeva dal freddo soltanto con una vecchia mantella. Poi un paio di scarponi nuovi, al posto delle scarpe di terza mano, sempre sfasciate. Poi ancora due pasti al giorno, e in uno c’era sempre un po’ di carne, la pietanza che in famiglia mettevano in tavola soltanto a Natale.
Infine, sempre sul fronte, assaggiò per la prima volta il cioccolato e fumò una sigaretta. Per ultimo, conobbe il piacere del sesso, sia pure nei bordelli della Terza Armata. Che, per volere del Duca d’Aosta, pare fossero i migliori dell’intero esercito italiano.
L’unico rammarico di Ernesto riguardava il fratello maggiore, Paolo. Lui non aveva potuto godere di tutto quel ben di Dio per un motivo banale. Paolo era emigrato negli Stati Uniti e lì faceva il muratore. Lavorava a New York e proprio il giorno d’inizio della guerra cadde da un’impalcatura e morì. Venne sepolto nel cimitero di Brooklin ed ebbe una lapide povera com’era sempre stata la sua vita.
Partendo dal piatto di minestra, sono arrivato a descrivere un’Italia ben più miseranda di oggi. La mia conclusione è semplice e schietta. Cari ragazzi teppisti, sono un vecchio signore che ha dovuto conquistarsi tutto. E voglio rivelarvi che di voi me ne fotto. Volete avere un futuro? Pensateci da soli e datevi da fare.


La minestra non scende dal cielo

Il Riformista
La minestra non scende  dal cielo

di Giampaolo Pansa  ilriformista.it   20101225

Cari ragazzi, se volete un futuro datevi da fare

La minestra non scende dal cielo. L’avevate mai sentita questa? È un regola di vita che può essere tradotta nel modo seguente: il piatto di minestra non si riempie da solo. Quando ero un ragazzo, me lo sono sentito ripetere un’infinità di volte. Era una litania recitata soprattutto da mia nonna Caterina Zaffiro.
Lei dava molta importanza alla minestra. Anche perché da giovane vedova non sempre aveva potuto mangiarla. E non sempre era stata in grado di offrirla ai suoi sei bambini.
Volevo scrivere un Bestiario sui giovani rivoltosi che hanno messo a ferro e a fuoco il centro di Roma. Però mi rendo conto di essere partito da tempi troppo lontani.
I ragazzi di oggi che cavolo ne sanno dell’importanza di un piatto di minestra? E della difficoltà di procurarselo? Se hanno delle nonne, sono di sicuro signore ancora giovani, cresciute in un’Italia molto diversa da quella che circondava Caterina. E non recitano litanie.
Ma allora, visto che siamo alla fine dell’anno 2010, voglio raccontare qualcosa ai rivoltosi che si preparano a darci un Natale turbolento. Incoraggiati dalla convinzione di poterla fare franca di nuovo. Del resto, i loro compagni arrestati sono tornati subito in libertà, grazie alla clemenza dei magistrati che avrebbero dovuto tenerli in prigione per un po’ di tempo.
Ho imparato che i giudici non vanno criticati. Sono un potere molto forte e geloso della propria autonomia. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha protestato per aver visto ritornare sulla pubblica via dei giovanotti che gli hanno sfasciato il centro della capitale. Era una protesta che nel mio piccolo ho condiviso. Ma che ha subito ricevuto una replica altezzosa del presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Lui ha sentenziato: accettiamo le critiche, ma non gli insulti. Però non mi pare che il sindaco di Roma abbia insultato nessuno.
Comunque sia, i giovani liberati e i tanti che non hanno trascorso nemmeno un’ora al fresco, appartengono a una generazione che non sa niente della vita. Credono che tutto gli sia dovuto. Si lamentano di non avere un futuro luminoso. Però non muovono un dito per costruirselo da soli. Anche perché vivono nell’illusione che la minestra, e tutto quello che viene dopo, sia un diritto privo di fatica e garantito dagli adulti.
State attenti, cari teppisti, cari sfasciatori di vetrine, di bancomat, di automobili, cari picchiatori di poveri poliziotti. Il mondo non gira come pensate voi. La vita che vi aspetta sarà molto più dura di quella dei vostri padri, dei vostri nonni, dei vostri bisnonni.
Non dovete credere alle favole che dei genitori distratti o troppo clementi vi hanno raccontato. Anche nell’epoca dei computer, di internet e dell’ipod vi potrebbe capitare di ritornare poveri. E di fare i conti con un’esistenza difficile, soprattutto per chi non ha un mestiere vero e finirebbe per ritrovarsi, lo dico alla buona, con le pezze al culo.
Allora, cari bamboccioni violenti, vi potrà servire la storia di mia nonna Caterina, quella del piatto di minestra. Non era nata nel Medioevo, ma nella seconda metà dell’Ottocento. E in una pianura, quella vercellese, a un tiro di schioppo da Torino e da Milano. Era analfabeta e così è rimasta sino alla morte, nel 1947. Non aveva mai un soldo in tasca e rimase vedova a 33 anni, con sei bambini da crescere. Il marito, Giovanni Eusebio Pansa, era un bracciante agricolo. E fu ucciso da un infarto mentre zappava il campo di un padrone.
I figli vennero mandati a lavorare da piccoli. Mio padre Ernesto, il quinto del gruppo, non riuscì neppure a finire le elementari. Aveva nove anni quando lo spedirono fare il servitore in un’azienda agricola, con l’incarico di portare le mucche al pascolo. Era così abituato a non possedere nulla che si ritenne fortunato il giorno che Vittorio Emanuele III, re d’Italia, lo chiamò alle armi e lo inviò al fronte, nella Terza Armata al comando del Duca d’Aosta. Aveva compiuto da poco i diciotto anni.
Tanto tempo dopo, gli chiesi come si fosse trovato nell’inferno della prima guerra mondiale. La sua risposta fu una lezione indimenticabile. Mi disse che si era trovato non bene, ma benissimo. L’esercito gli aveva dato il primo cappotto della sua vita, una novità strepitosa per un ragazzo che si difendeva dal freddo soltanto con una vecchia mantella. Poi un paio di scarponi nuovi, al posto delle scarpe di terza mano, sempre sfasciate. Poi ancora due pasti al giorno, e in uno c’era sempre un po’ di carne, la pietanza che in famiglia mettevano in tavola soltanto a Natale.
Infine, sempre sul fronte, assaggiò per la prima volta il cioccolato e fumò una sigaretta. Per ultimo, conobbe il piacere del sesso, sia pure nei bordelli della Terza Armata. Che, per volere del Duca d’Aosta, pare fossero i migliori dell’intero esercito italiano.
L’unico rammarico di Ernesto riguardava il fratello maggiore, Paolo. Lui non aveva potuto godere di tutto quel ben di Dio per un motivo banale. Paolo era emigrato negli Stati Uniti e lì faceva il muratore. Lavorava a New York e proprio il giorno d’inizio della guerra cadde da un’impalcatura e morì. Venne sepolto nel cimitero di Brooklin ed ebbe una lapide povera com’era sempre stata la sua vita.
Partendo dal piatto di minestra, sono arrivato a descrivere un’Italia ben più miseranda di oggi. La mia conclusione è semplice e schietta. Cari ragazzi teppisti, sono un vecchio signore che ha dovuto conquistarsi tutto. E voglio rivelarvi che di voi me ne fotto. Volete avere un futuro? Pensateci da soli e datevi da fare.


Ma gli universitari di Napolitano erano fuori corso

Ma gli universitari di Napolitano erano fuori corso - PRIMO PIANO - Italiaoggi
Ma gli universitari di Napolitano erano fuori corso

L'identikit dei giovani della delegazione che è stata accolta al Quirinale: più politicanti che studenti

di Pierre de Nolac   italiaoggi.it   20101225

Lo scomparso Tommaso Padoa Schioppa li avrebbe definiti bamboccioni. Sì, perché gli studenti che sono entrati nel palazzo del Quirinale per esporre al capo dello Stato Giorgio Napolitano le loro critiche al testo del ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini erano tutti fuori corso, dal primo all'ultimo.

La scheda che è stata diffusa, relativa ai dodici giovani, rivela che gli studenti in lotta, «ognuno rappresentativo di un'anima del movimento», avevano passato da un pezzo l'età di un universitario normale. Il fiorentino iscritto a Scienze politiche ha 27 anni, il romano aspirante ingegnere 28, il futuribile filosofo capitolino 27, quello che vuole diventare economista 26 e così via. Davvero un bel panorama, quello fornito dalle carte d'identità di chi ha varcato la soglia quirinalizia, e che spiega perfettamente l'impegno profuso da questi ormai ex giovani più nella politica che nello studio delle materie d'esame. Il dato dell'età non deve essere sottovalutato: indica che il cosiddetto movimento è nelle mani di gente che ha poco interesse a laurearsi, perché coltiva ambizioni politiche. Sobillando i veri giovani, quelli che vengono trascinati nelle piazze delle città a disturbare chi lavora e non può usare i mezzi pubblici per recarsi negli uffici e nelle fabbriche: una lotta di classe al contrario, dato che le manifestazioni pseudostudentesche hanno rotto le scatole a chi deve conquistarsi ogni giorno il salario, mentre i protagonisti che guidano i cortei devono evidentemente avere alle spalle delle famiglie che li mantengono adeguatamente, visto che i rampolli non si affrettano a concludere gli studi universitari per mettere insieme il pranzo con la cena. Anche perché chi vuole esaurire nel minor tempo possibile il periodo da passare nelle aule degli atenei non si mette certo a bighellonare tra assemblee noiosissime, veri e propri riti di stampo sessantottino evidentemente ereditati dai genitori, dove ancora si fuma. Personaggi che senza dubbio sognano le rivolte fatte dai loro genitori, sperando nel cosiddetto «diciotto politico» che permetteva anche agli asini di uscire dall'ateneo con un foglio di carta che decretava la creazione di un laureato (con le ben note conseguenze qualitative sulla società italiana). Ai giovanissimi che più per moda che per convinzione partecipano ai cortei qualcuno dovrà dire che si lasciano turlupinare da vecchi fuori corso che con l'università non hanno nulla a che fare: rappresentanti di facoltà dovrebbero essere solamente i giovani che sfoderano un libretto studentesco in regola con gli esami. Chi ha «sforato» e di molto il normale ciclo poliennale non dovrebbe aver diritto a parlare a nome degli studenti: in una fabbrica, ai tavoli delle trattative sindacali dei lavoratori non si presentano mica i pensionati, ma coloro che sono occupati e in età lavorativa. E chi è fuori corso non dovrebbe nemmeno essere accolto sul Colle, a braccia aperte. È un fatto che sono in molti quelli che nel Pdl vorrebbero dare questo consiglio al premier Silvio Berlusconi: «Inviti a palazzo Chigi i giovani studenti che non hanno potuto seguire le lezioni in questi giorni, quelli che hanno subito sulla loro pelle l'occupazione delle aule, senza poter nemmeno dare gli esami per l'annullamento degli appelli per colpa del collaborazionismo di troppi docenti che marciano a braccetto con i fuori corso». Anche perché gli studenti che sono stati «mobbizzati» per le idee politiche definite dai loro colleghi come reazionarie sono tantissimi, e il can can mediatico si occupa solo di chi protesta, incendia automezzi e spacca le vetrine dei negozi. Per chi è chino sui libri, anche di notte, per conquistare un titolo di studio seguendo un percorso lineare e non fa parte delle cricche dei movimenti, la vita è e sarà sempre durissima. Altro che i capetti dei movimenti, che invece hanno sempre pronte le vacanze in qualche meta esotica o sulle piste da sci di località alla moda, bamboccioni ospitati come trofei da esibire nei salotti della caviar gauche, in mezzo a vecchie signore estasiate dai barbuti virgulti rivoluzionari, portati a degustare salmone e champagne_


vendredi, décembre 24, 2010

Tornano i soliti errori della Cgil

Il Riformista


di Giuliano Cazzola  ilriformista.it   20101224



La Camusso si rilegga il Di Vittorio del ’55 e l’autocritica sulle politiche rivendicative
Nella foto: il segretario della Cgil Susanna Camusso
Lo sappiamo. La storia non si ripete mai. Ma dalle lezioni del passato si dovrebbe pure apprendere qualcosa. Purtroppo non è sempre così. Ogni generazione di sindacalisti (specie se della Cgil) si ingegna a sbagliare in proprio. L’esito del negoziato tra la Fiat e i sindacati su Mirafiori era scontato: accordo separato, la Fiom eleva vibrate proteste e si prepara ad essere sconfitta nel referendum di cui disconoscerà la legittimità.
La Cgil dà copertura politica alla sua federazione di categoria. Susanna Camusso, però, è troppo preparata ed intelligente (lo ha dimostrato anche quando ha rifiutato di farsi imporre la linea dagli studenti) per non capire che la situazione della sua organizzazione diverrà sempre più insostenibile. Nella Cgil, i gruppi dirigenti delle categorie non sopportano più l’avallo di una politica pregiudizialmente conflittuale che li emargina dai processi reali in atto nell’universo delle imprese. E si aspettano che la nuova segretaria generale rompa l’incantesimo di una autoesclusione che ormai non pesa più soltanto sul piano politico, ma anche su quello organizzativo.
Basterebbe che Susanna Camusso andasse a rileggere il discorso di Giuseppe Di Vittorio, pronunciato subito dopo la storica sconfitta della Cgil nelle elezioni delle commissioni interne negli stabilimenti Fiat nel 1955. Di Vittorio aveva ampi e giustificati argomenti per attaccare il regime instaurato da Vittorio Valletta e per denunciare i reparti confino, i licenziamenti discriminatori. Ma volle mettere il dito nella piaga e svolgere la più lucida e spietata autocritica per i limiti di politiche rivendicative che ancora restavano confinate in una logica di unità di classe, muta e cieca davanti alle trasformazioni in atto nelle fabbriche.
Anche adesso - mutatis mutandis - la domanda è sempre la stessa: che cosa mai hanno da perdere i lavoratori delle Newco se le loro condizioni da ora in poi saranno regolate da un contratto dell’auto, anziché dal contrattone dei metalmeccanici? Nessuno, neppure la Fiom, si azzarda a contestare la specificità degli orari e dell’organizzazione del lavoro. Quanto alle retribuzioni, vi è l’esempio di Pomigliano, dove si profilano incrementi importanti (oltre 250 euro in più tassati con una aliquota del 10%). I lavoratori sanno che, per conquistare un aumento retributivo analogo, occorrerebbero almeno due rinnovi del contratto nazionale lungo un arco temporale di almeno sei anni. Si replica che il contratto nazionale costituisce il tessuto unitario di una categoria. Ma non si ha il coraggio di ammettere che questa unità è soltanto un miraggio, dal momento che il contratto stesso non si applica, nei fatti, in gran parte del Paese, per un dato molto semplice: l’economia di quelle aree non è in grado di sostenere costi ed oneri forzatamente uniformi.
Così, la “rivoluzione” di Sergio Marchionne ricorda quella del bambino della fiaba che denuncia apertamente la nudità del sovrano facendo venir meno in un sol colpo una montagna di ipocrisie. Da ora in avanti, ogni impresa - qui sta la portata innovativa dell’accordo - sarà legittimata a negoziare direttamente con le naturali controparti le condizioni di lavoro che essa ritiene indispensabili per la propria capacità competitiva e a garantirsi in questo modo l’ammortamento degli investimenti effettuati. Il contratto ritorna così al suo significato di scambio ed abbandona ogni profilo di atto dovuto, quasi assistenziale, a prescindere dai risultati e dalla qualità della prestazione lavorativa. Grazie Fiat.


Dopo 150 anni l'Italia è ancora un'incompiuta

Dopo 150 anni l'Italia è ancora un'incompiuta - PRIMO PIANO - Italiaoggi
Fatta l'unità, resta la divisione tra partito della spesa e del Nord

Dopo 150 anni l'Italia è ancora un'incompiuta

di Ishmael   italiaoggi.it   20101224

Finiamola con l'Italia! L'Italia ha vissuto abbastanza! Che venga cancellata dal novero delle potenze e delle nazionalità!» scriveva Pierre-Joseph Proudhon, socialista e anarchico originario, pochi anni dopo l'unificazione dell'Italia sotto la bandiera dei Savoia (Pierre-Joseph Proudhon, Contro l'Unità d'Italia, Miraggi, pp. 128, 16,00). Come Metternich, convinto che l'Italia fosse soltanto un'espressione geografica, Proudhon pensava che l'Italia semplicemente non potesse esistere: «L'Italia si cerca e non si trova. Sballottata tra le sue repubbliche, i suoi imperatori, i suoi papi e i suoi re, non avendo saputo sbrogliare l'enigma delle sue antiche federazioni, si agita in una disperazione impotente». Pensava che l'unità d'Italia avrebbe portato l'intera penisola alla rovina: «Per governare ventisei milioni d' uomini ai quali è stato sottratto il dominio di se stessi, per far funzionare questa macchina immensa, è necessaria una burocrazia prodigiosa e legioni di funzionari. Impiegati, soldati, tributari, ecco cosa costituirà d'ora in poi la nazione italiana. All'ultima levata di scudi organizzata dal generale Garibaldi», aggiungeva dopo il colpo di mano dei garibaldini culminato con la sconfitta d'Aspromonte, «abbiamo visto deputati, magistrati, ufficiali, funzionari pubblici, studenti, borghesi, operai, a Genova, a Firenze, a Napoli, a Palermo, pronti a disertare la bandiera di Vittorio Emanuele come prima avevano disertato quelle dei loro duchi e re, e c'è qualcuno che ancora crede alla compattezza di questo popolo, al suo spirito di nazionalità! Tanto vale credere nell'intelligente civismo dei pugnali siciliani, dei coltelli trasteverini, delle bombe orsiniane, delle baionette garibaldine!» Proudhon diffidava, come tutti i socialisti, della «politica giacobina e mazziniana», in quanto autoritaria (e unitaria insieme). Ma soprattutto diffidava degli eroi.

«Poiché si voleva un regno d'Italia, era il minimo che la dinastia fosse italiana: come si è andati a scegliere Vittorio Emanuele? Erede dell'antica casa di Maurienne, allobrogo e savoiardo d'origine, Vittorio Emanuele non ha nulla d'italiano. A che titolo ha acquisito la sovranità d'Italia? E Garibaldi? Garibaldi che talvolta è per la repubblica, talaltra per la monarchia; Garibaldi ospite, commensale, compagno o pensionante di Vittorio Emanuele, che gli deve il Regno delle Due Sicilie; Garibaldi stesso è forse italiano? No, è di Nizza. E se non è italiano, di cosa s'immischia quell'avventuriero?»

Sembrano aneddoti storici e folklore risorgimentale. Invece, come sappiamo, l'Italia e la sua ragion d'essere rimangono, centocinquant'anni dopo l'unità, all'ordine del giorno dei due partiti, quello della spesa pubblica e l'altro, il partito del nord. Passano gli anni, crollano i regni, poi le repubbliche, e siamo sempre lì, cittadini d'una nazione eternamente provvisoria, incompiuta, sotto un bando.


La triste parabola di Gianfranco zar del Parlamento

Il Tempo - La triste parabola di Gianfranco zar del Parlamento
La triste parabola di Gianfranco   zar del Parlamento

di Mario Sechi  iltempo.it   20101224

Ieri abbiamo appreso che in Italia esiste una carica istituzionale sulla quale il Parlamento non può aprire una libera discussione: il presidente della Camera Gianfranco Fini.


Il presidente della Camera Gianfranco Fini I titoli di coda del 2010 stanno cominciando a scorrere, ma il film continua e i colpi di scena nella nostra commedia nazionale non finiscono di stupire. Ieri abbiamo appreso che in Italia esiste una carica istituzionale sulla quale il Parlamento non può aprire una libera discussione: il presidente della Camera Gianfranco Fini. Si può sindacare su tutto, dire che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è il dittatore Noriega e deve andare in galera (Di Pietro dixit), si può discettare sulla vita e i suoi misteri, sulla fede e l’ateismo, ma su Fini no, il dibattito non si può fare e a dirlo è lo stesso Gianfranco con una lettera dal tono zarista. Invece di fare la mossa democratica e illuminata, invece di dire alla Lega «prego, si apra una discussione, decida il Parlamento sovrano», Fini si trincera dietro una terzietà che ha perso da tempo. Il presidente della Camera e leader di Fli ha buttato un’altra occasione per recuperare un po’ di coerenza. Ma qualsiasi richiamo al bon ton istituzionale sembra cadere nel vuoto.

Siamo di fronte a un caso da manuale, un dottor Jekyll e Mister Hyde in chiave politica che si presenta così: 1. la mattina si sveglia e tuona contro il cesarismo e il partito proprietario; 2. la sera esce da casa e fonda un partitino che si chiama come il titolo di un suo libro e ha il suo nome in primo piano; 3. la mattina vota una legge elettorale che gli consente di scegliere i suoi parlamentari e vincolarli ai suoi piani; 4. la sera va in giro a dire che quella legge fa schifo e ora bisogna cambiarla; 5. la mattina ordina ai suoi ministri di dimettersi dall’incarico di governo; 6. la sera dichiara che per la sua poltrona la parola dimissioni non esiste; 7. la mattina dice che non può fare campagna elettorale per le elezioni regionali del Lazio perché lui è super partes; 8. la sera prende la macchina va a Bastia Umbra e da leader di partito chiede le dimissioni del premier; 9. la mattina s’affaccia alla finestra e dice: sono presidenzialista; 10. la sera chiude la finestra e proclama: sono parlamentarista. Mi fermo qui, sono giorni di festa e mi sento più buono anch’io. Cari lettori, Buon Natale.