vendredi, décembre 24, 2010

Tornano i soliti errori della Cgil

Il Riformista


di Giuliano Cazzola  ilriformista.it   20101224



La Camusso si rilegga il Di Vittorio del ’55 e l’autocritica sulle politiche rivendicative
Nella foto: il segretario della Cgil Susanna Camusso
Lo sappiamo. La storia non si ripete mai. Ma dalle lezioni del passato si dovrebbe pure apprendere qualcosa. Purtroppo non è sempre così. Ogni generazione di sindacalisti (specie se della Cgil) si ingegna a sbagliare in proprio. L’esito del negoziato tra la Fiat e i sindacati su Mirafiori era scontato: accordo separato, la Fiom eleva vibrate proteste e si prepara ad essere sconfitta nel referendum di cui disconoscerà la legittimità.
La Cgil dà copertura politica alla sua federazione di categoria. Susanna Camusso, però, è troppo preparata ed intelligente (lo ha dimostrato anche quando ha rifiutato di farsi imporre la linea dagli studenti) per non capire che la situazione della sua organizzazione diverrà sempre più insostenibile. Nella Cgil, i gruppi dirigenti delle categorie non sopportano più l’avallo di una politica pregiudizialmente conflittuale che li emargina dai processi reali in atto nell’universo delle imprese. E si aspettano che la nuova segretaria generale rompa l’incantesimo di una autoesclusione che ormai non pesa più soltanto sul piano politico, ma anche su quello organizzativo.
Basterebbe che Susanna Camusso andasse a rileggere il discorso di Giuseppe Di Vittorio, pronunciato subito dopo la storica sconfitta della Cgil nelle elezioni delle commissioni interne negli stabilimenti Fiat nel 1955. Di Vittorio aveva ampi e giustificati argomenti per attaccare il regime instaurato da Vittorio Valletta e per denunciare i reparti confino, i licenziamenti discriminatori. Ma volle mettere il dito nella piaga e svolgere la più lucida e spietata autocritica per i limiti di politiche rivendicative che ancora restavano confinate in una logica di unità di classe, muta e cieca davanti alle trasformazioni in atto nelle fabbriche.
Anche adesso - mutatis mutandis - la domanda è sempre la stessa: che cosa mai hanno da perdere i lavoratori delle Newco se le loro condizioni da ora in poi saranno regolate da un contratto dell’auto, anziché dal contrattone dei metalmeccanici? Nessuno, neppure la Fiom, si azzarda a contestare la specificità degli orari e dell’organizzazione del lavoro. Quanto alle retribuzioni, vi è l’esempio di Pomigliano, dove si profilano incrementi importanti (oltre 250 euro in più tassati con una aliquota del 10%). I lavoratori sanno che, per conquistare un aumento retributivo analogo, occorrerebbero almeno due rinnovi del contratto nazionale lungo un arco temporale di almeno sei anni. Si replica che il contratto nazionale costituisce il tessuto unitario di una categoria. Ma non si ha il coraggio di ammettere che questa unità è soltanto un miraggio, dal momento che il contratto stesso non si applica, nei fatti, in gran parte del Paese, per un dato molto semplice: l’economia di quelle aree non è in grado di sostenere costi ed oneri forzatamente uniformi.
Così, la “rivoluzione” di Sergio Marchionne ricorda quella del bambino della fiaba che denuncia apertamente la nudità del sovrano facendo venir meno in un sol colpo una montagna di ipocrisie. Da ora in avanti, ogni impresa - qui sta la portata innovativa dell’accordo - sarà legittimata a negoziare direttamente con le naturali controparti le condizioni di lavoro che essa ritiene indispensabili per la propria capacità competitiva e a garantirsi in questo modo l’ammortamento degli investimenti effettuati. Il contratto ritorna così al suo significato di scambio ed abbandona ogni profilo di atto dovuto, quasi assistenziale, a prescindere dai risultati e dalla qualità della prestazione lavorativa. Grazie Fiat.


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