dimanche, décembre 05, 2010

«Darebbero del mafioso anche a Falcone»

Il Riformista


di Peppino Caldarola  ilriformista   20101205
Cosa nostra. Perché i magistrati da sei-sette mesi si gingillano con le rivelazioni di Ciancimino, ad esempio quelle che riguardano De Gennaro, senza prendere iniziative?
Nella foto: l'ex capo della Polizia Gianni De Gennaro
«Avrebbero tirato in ballo anche Giovanni Falcone», mi dice sconsolato un uomo dello Stato dopo aver letto le ultime dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Usa il plurale perché non nasconde il grande dubbio sul ruolo del figlio del capomafia. Il susseguirsi delle rivelazioni eclatanti del giovane rampollo palermitano cresciuto a pane e cosche alimenta molti interrogativi. L’intera sua costruzione accusatoria, fatta di cose vere e di fatti inventati, potrebbe essere frutto della sua iniziativa personale oppure, secondo alcuni esperti, rivelarsi la più clamorosa operazione di depistaggio messa in atto da Cosa Nostra. Se ci fosse ancora Giovanni Falcone questo romanzo criminale sarebbe già passato a un severo vaglio critico. Invece le incursioni di Ciancimino nel dibattito pubblico continuano senza sosta. Gianni De Gennaro non si farà intimidire. Gli ho sentito dire parole coraggiose malgrado la rabbia per un’accusa incredibile che vorrebbe deturpare una delle pagine migliori della storia dell’antimafia in Italia.
a sua querela a Ciancimino è una sfida a viso aperto come a viso aperto è stata la sua battaglia contro le cosche. Spero che in tanti capiscano che non siamo di fronte alla autodifesa di un grande funzionario dello Stato, ma alla reazione di chi sente nelle parole di Ciancimino l’eco della vendetta mafiosa.
Almeno tre procure si occupano del figlio del boss amico di Riina e di Provenzano. Palermo, Caltanissetta e Reggio Calabria si sono imbattute nelle sue dichiarazioni o sono sulle sue tracce. La magistratura reggina ha intercettato una sua conversazione telefonica con gente del clan Piromalli, la grande famiglia ‘ndranghetista, in cui il figlio di Ciancimino, come ha riportato ieri la Stampa, proponeva di scambiare contante contro assegni. L’erede del boss mafioso, secondo gli inquirenti, sta trattando da tempo il recupero del tesoro miliardario del padre e ha cercato nella mafia calabrese la sponda per recuperare le sue ricchezze. Ho registrato anche una voce ancora più inquietante su ciò che si stava muovendo attorno a questo personaggio disinvolto prima delle sue dichiarazioni. Dicono che se non si fosse messo al centro di questo nuovo polverone sulle vicende oscure legate alla trattativa fra uomini dello Stato e mafia, e se non fosse stata pubblicata la notizia sull’intercettazione telefonica con i calabresi, forse l’inchiesta che lo riguarda avrebbe portato in queste ore al suo clamoroso arresto. Anche da questo episodio si comprende che il mondo dell’antimafia non è solo diviso ma è anche un colabrodo. Molti, non solo i magistrati, hanno la responsabilità di questa situazione di confusione.
La procura di Caltanissetta forse lunedì lo accuserà di calunnia. Stupisce che non l’abbia ancora fatto visto che Ciancimino continua a spargere veleni. «Stanno facendo scrivere la storia d’Italia al figlio di un mafioso», mi dice un altro investigatore in prima linea. Sono almeno sei mesi che Ciancimino continua a centellinare rivelazioni a orologeria senza che le procure prendano alcuna iniziativa. La sua vicenda rivela anche una spaccatura nella magistratura fra Palermo che difende il suo singolare “pentito”, senza avere il coraggio di mettere in discussione le sue giravolte, e quella di Caltanissetta che non gli crede ma teme lo scontro con i palermitani.
L’accusa, prima adombrata e in parte ritrattata, contro Gianni De Gennaro è l’ultima iniziativa di un personaggio che è riuscito a bucare lo schermo. Secondo il figlio dell’ex sindaco di Palermo, l’ex capo della polizia sarebbe stato uno strumento e un collaboratore di questo misterioso “signor Franco”, l’uomo dei servizi che trafficò con la mafia, nel tentativo di agganciare Ciancimino senior per proporre ai corleonesi una tregua. Il “signor Franco” avrebbe avuto un ruolo di primo piano nel guidare l’attacco terroristico di Cosa Nostra contro lo Stato. Ciancimino sostiene che suo padre e il signor Franco iniziarono a trattare quando era ministro dell’Interno Franco Restivo. Oggi dice che con “il signor Franco” c’era De Gennaro. Restivo diresse il Viminale in diverse date comprese fra il ‘68 e il ‘72. In quegli anni Gianni De Gennaro si stava laureando e solo agli inizi degli anni settanta entrò in polizia e nel ’73 lo troviamo commissario ad Alessandria. Poi diresse la Narcotici e iniziò la sua lunga e brillante trafila di super-poliziotto che lo vide al fianco di Giovanni Falcone nelle inchieste più memorabili. Fu De Gennaro che aiutò Falcone a smascherare il finto pentito Pellegriti e il suo nome primeggia in tutte le indagini che consentirono di imbastire il maxi-processo. Tommaso Buscetta parlava con grande ammirazione di lui e di Antonio Manganelli, come di due uomini dello Stato che la mafia odiava. Ricordo una sera in cui con Walter Veltroni incontrammo a cena Louis Freeh, il mitico capo dell’Fbi, che non smetteva di tessere le lodi di questo poliziotto che lui considerava fra i migliori al mondo.
La mafia lo ha considerato come un suo nemico indomabile e i falsi pentiti trovarono in lui un ostacolo insormontabile. Quando Giovanni Brusca tentò di iniziare la sua collaborazione con dichiarazioni infamanti contro Luciano Violante, De Gennaro scese in campo in prima persona per smentire l’assassino del piccolo Di Matteo. Fu lui il primo a capire, lo so per diretta cognizione di causa, nella notte delle stragi del ’93, che dietro le bombe c’era Cosa Nostra spingendo il capo della Polizia dell’epoca, Vincenzo Parisi, a indirizzare le indagini verso la svolta terroristica delle cosche.
Il caso Ciancimino ripropone alcuni temi di fondo dell’antimafia. Il primo riguarda i pentiti. C’è stata in questi anni una campagna stampa tesa a sminuire il valore delle parole di chi, per calcolo o per motivazioni spirituali, cercava di uscire dal mondo criminale. Il punto di equilibrio trovato per evitare strumentalizzazioni - alcune organizzazioni mafiose prevedono la collaborazione con le forze di polizia per distogliere l’attenzione e liquidare delinquenti già bruciati - è che il “pentito” deve dire tutto entro in certo tempo predeterminato. Il dubbio su Spatuzza nasce proprio dal fatto che ha dichiarato dopo la scadenza dei termini. Il pentito generalmente si autoaccusa e racconta fatti. Ciancimino non si è auto-accusato e molti fatti che ha raccontato sono falsi. Si dirà: non è un pentito. E allora che cosa è? Perché i magistrati da sei-sette mesi si gingillano con le rivelazioni, ad esempio quella che riguarda De Gennaro, senza prendere iniziative? Potevano interrogare De Gennaro, come lui aveva chiesto, ovvero indagare per calunnia Ciancimino. Non potevano stare fermi. La procura di Palermo, dice il pm Ingroia, ritiene che le rivelazioni di Ciancimino vanno valutate caso per caso. Che vuol dire? Ingroia pensa che Ciancimino sia attendibile quando accusa De Gennaro? Allora proceda. Non lo pensa? Si comporti di conseguenza. Un testimone e/o un pentito è attendibile o non lo è. Forse il pm Ingroia teme che la denuncia delle falsità delle frasi di Ciancimino su De Gennaro danneggino altre sue inchieste in cui il figlio del mafioso ha un ruolo rilevante. È una ben fragile impalcatura giudiziaria quella che ha bisogno di ignorare le falsità di un pentito e/o testimone per restare in piedi. Sarà retorico, ma Falcone e Borsellino erano di un’altra classe.
La magistratura italiana sta facendo un buon lavoro nell’azione di contrasto contro le mafie. Molto è stato fatto, ci sono persone serie, c’è tanta fatica e tanto coraggio. Abbiamo l’impressione, però, che non ci sia quell’atmosfera che portò alla fine degli anni ’80 un gruppo di funzionari dello Stato a fare squadra contro le disattenzioni, le connivenze, l’incultura. Oggi sembra che ognuno giochi per sé, che si sia smarrito il senso di un impegno comune proprio nel momento in cui si scopre la pervasività del fattore criminale nella vita del paese. Accade così che un maturo rampollo di una dinastia mafiosa catturi l’attenzione della grande stampa e della tv, che lo coccolano senza pudore, alzando tanta di quella polvere da sommergere i buoni e i cattivi. Tutti sanno che se tutto è mafia non c’è più la mafia. E questa sembra essere, assieme alla voglia di recuperare il tesoro paterno, il compito che si è dato il figlio di una delle figure più spregevoli dell’Italia moderna.


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