mercredi, décembre 29, 2010

Ronald Coase compie cent'anni, per lui proprietà, concorrenza, libertà indicano la stessa cosa

Ronald Coase compie cent'anni, per lui proprietà, concorrenza, libertà indicano la stessa cosa - Il Sole 24 ORE
Ronald Coase compie cent'anni, per lui proprietà, concorrenza, libertà indicano la stessa cosa
di Carlo Stagnaro   ilsole24ore.it   20101229

Nel giorno in cui compie un secolo, non basta augurare a Ronald Coase, premio Nobel per l’economia nel 1991, “cento di questi giorni”. Bisognerebbe augurargli e augurarsi: cento, mille, centomila di questi economisti. Perché il contributo che questo studioso eclettico e riflessivo ha dato alla comprensione del mondo che ci circonda è tanto importante quanto, spesso, frainteso. Il nome di Coase è legato soprattutto a due questioni: la natura dell’impresa (titolo di un suo saggio del 1937) e i costi di transazione (a cui è dedicato l’articolo sul costo sociale del 1960).

La sua riflessione muove da una domanda: se il modo più efficiente per procurarsi beni o servizi è affidarsi al sistema dei prezzi, perché esiste l’impresa? Il funzionamento interno di un’impresa è dominato da relazioni gerarchiche, non da transazioni di mercato. Per usare l’espressione di Dennis Robertson – economista industriale a cui Coase attinge per il paper del ’37 – le imprese sono “isole di potere cosciente in questo oceano di cooperazione incosciente, come grumi di burro che si coagulano in un secchio di latte”. La risposta, come hanno spiegato bene Giulio Napolitano e Antonio Nicita sul Sole 24 Ore di ieri, sta nel fatto che le stesse transazioni di mercato hanno un costo: individui e imprese della realtà non si muovono in un mondo dove tutti sanno tutto, ma devono sforzarsi per ottenere informazioni, concludere contratti, trovare ciò di cui hanno bisogno. C’è, dunque, un trade off tra l’efficienza del mercato e il suo costo. A volte, conviene affidarsi a decisioni gerarchiche, pur nella consapevolezza che implicano, a loro volta, costi di coordinamento e di organizzazione. Trovare l’equilibrio migliore tra gerarchia e mercato è esattamente la funzione dell’impresa, ed è tale equilibrio che ne definisce la dimensione ottimale. Da queste intuizioni è sgorgato un ricco filone di ricerca sull’organizzazione industriale e la corporate governance, la cui centralità è stata ulteriormente confermata dal Nobel 2009 a Oliver Williamson.

L’altro aspetto su cui Coase insiste è il “costo sociale” delle azioni umane. Tutto ciò che facciamo produce esternalità, cioè effetti positivi o negativi su chi ci sta intorno. A quali condizioni è lecito, utile o giusto che lo Stato intervenga per allineare il “costo privato” al “costo sociale”, per esempio tassando le attività inquinanti o sussidiando quelle che hanno conseguenze gradevoli per il prossimo? Molti economisti ritengono che la semplice esistenza di un’esternalità fornisca la giustificazione per l’intervento pubblico. Coase coltiva una visione opposta: “l’esistenza di ‘esternalità’ non implica che ci sia, in prima istanza, motivo per l’intervento del governo, se con questa affermazione si vuole dire che qualora si trovino delle ‘esternalità’ si suppone che l’intervento del governo (tassazione o regolamentazione) sia preferibile ad altre vie di azione che potrebbero essere intraprese (inclusi l’inazione, l’abbandono di precedenti azioni del governo, o l’agevolare le transazioni del mercato)”. Questo perché possono esistere situazioni in cui “i costi di transazione e i costi dell’intervento governativo fanno sì che sia desiderabile che l’ ‘esternalità’ continui a esistere e che non venga intentato alcun intervento governativo per eliminarla”. Ancora più radicalmente, le esternalità sono onnipresenti perché i costi di transazione sono onnipresenti (così come in fisica l’attrito è onnipresente): sarebbe assurdo da ciò dedurre l’esigenza di un controllo totale del governo sull’economia. Riconoscere l’imperfezione delle transazioni umane e la relativa presenza di esternalità, ossia effetti indesiderati su terzi, “mi suggerisce piuttosto una presunzione contro l’intervento”. La tesi innovativa dell’articolo del 1960 è, appunto, che le negoziazioni di mercato possano consentire di raggiungere esiti efficienti anche in presenza di esternalità, tanto più che – sovente – il tentativo di internalizzare i costi esterni produce a sua volte delle esternalità, che possono essere più gravi o meno facilmente internalizzabili rispetto a quelle originarie.

Il caso da manuale – oggetto esso stesso dell’approfondimento di Coase, che se ne occupò nel 1974 – è quello del faro. Il faro è il tipico bene pubblico, caratterizzato da non rivalità (cioè il fatto che l’individuo x ne fruisca non impedisce a y di fruirne) e non escludibilità (cioè x non può impedire a y di fruirne). Si riteneva che, in virtù di questi limiti, il mercato non avrebbe mai potuto produrre in quantità ottimale i fari, perché sarebbe caduto vittima degli scrocconi (i free rider): coloro che, pur sfruttando (internalizzando) i benefici del faro, si rifiutano di contribuire al suo mantenimento. Attraverso un’accurata indagine storica, Coase scoprì che, al contrario, nei porti inglesi si erano imposte una serie di prassi volte a far pagare tutti coloro che approfittavano del faro, per esempio raccogliendo un pedaggio dalle navi che attraccavano nei porti. In questo modo, egli dimostrò due cose: che i suoi colleghi non si curavano granché della verifica empirica dei loro casi-studio, e che ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne stiano nei libri del giustificazionismo per l’intervento pubblico.

In questo modo, Coase ha giocato un ruolo enorme nello smascherare i miti dello statalismo e nell’invitare gli economisti ad avere più fiducia nella fantasia dei mercati che nella presunzione dei regolatori. I problemi sorgono più frequentemente dall’interventismo che dal suo contrario, e se c’è un compito a cui i governi si devono attenere è quello di proteggere i diritti di proprietà, e aiutarne la formalizzazione quando sono incompleti. Per il resto, possono e devono lasciar fare all’ingegno umano. Perché “la proprietà, la concorrenza e la libertà sono nomi che indicano la medesima cosa”.


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