samedi, octobre 02, 2010

Un Prodi nel campo dei ragazzi di Salò

Un Prodi nel campo dei ragazzi di Salò

di Giampaolo Pansa ilriformista.it  20101002

“I vinti non dimenticano”. Il 6 ottobre arriva in libreria il nuovo libro di Giampaolo Pansa. Pubblichiamo in anteprima ampi stralci del capitolo sul fratello dell’ex premier.
Lei mi chiese: «Come ci è arrivato alla storia di Giovanni Prodi prigioniero fascista?».
«Per caso, attraverso la vicenda di un altro personaggio che era stato un militare della Rsi ed era poi finito anche lui a Coltano. Forse lei se la ricorda perché ne avevo parlato in uno dei miei libri revisionisti, I gendarmi della memoria. Si chiamava Luciano Chiappini.»
«Leggendo un libro curato con passione da Pagnoni: Una voce fedele e libera: il Taccuino di Luciano Chiappini, pubblicato nel 2000 a Ferrara da Corbo Editore. A pagina 28 c’era una riga che diceva: “A Coltano conobbe Giovanni Prodi e, successivamente, tramite lui, la sua intera famiglia”.»
Avevo bisogno di sapere qualcosa su un ragazzo internato a Coltano. Per questo, con Livia, andai a trovare Pietro Ciabattini, nella sua casa di Firenze. Era l’11 maggio 2010. Pietro stava benissimo. Aveva compiuto 83 anni e conservava la lucidità di un quarantenne. Quando lo lasciai, gli dissi che in autunno gli avrei spedito il nostro libro. Ma qualche settimana dopo, Ciabattini se ne andò. Lasciò questa vita una sera, seduto sul divano. Forse dopo aver visto la prima partita dell’Italia ai mondiali di calcio.
Per chi non lo sappia, devo dire che Coltano, vicino a Pisa, era il più grande campo di concentramento dei prigionieri fascisti catturati dagli americani o dagli inglesi nella primavera del 1945. Da Coltano ne erano passati dai 30 ai 35 mila. E molti vi erano rimasti rinchiusi sino all’autunno di quell’anno. Uno di loro era Ciabattini. (...)
Ero andato a trovare Ciabattini per cercare una risposta a una domanda: nel campo di concentramento di Coltano aveva per caso conosciuto un prigioniero fascista di nome Giovanni Prodi? Lui comprese subito che si trattava di un fratello del futuro presidente dell’Iri e poi del Consiglio, Romano Prodi. Ma rispose: «Mi dispiace deluderti, però non sapevo neppure che a Coltano ci fosse uno dei Prodi. Del resto, come ho raccontato nel mio libro, in quel campo eravamo in trentamila e spesso di più. Era impossibile che ci conoscessimo tutti!».
Ritornati a casa di Livia, ragionammo sul motivo che ci aveva condotti da Ciabattini. E lei mi chiese: «Come ci è arrivato alla storia di Giovanni Prodi prigioniero fascista?».
«Per caso, attraverso la vicenda di un altro personaggio che era stato un militare della Rsi ed era poi finito anche lui a Coltano. Forse lei se la ricorda perché ne avevo parlato in uno dei miei libri revisionisti, I gendarmi della memoria. Si chiamava Luciano Chiappini.»
«Mi pare di rammentarlo. Ma lei non può pretendere troppo dalla mia memoria» mi replicò Livia. «Forse è meglio che mi racconti per ordine l’intera storia.»
«Tutto ebbe inizio nell’estate del 2002» cominciai a narrare. «Il 20 agosto di quell’anno, morì a Ferrara un signore ottantenne che si chiamava Luciano Chiappini. Era uno dei cittadini eminenti della città. Molto noto per l’impegno nell’Azione cattolica e nella Democrazia cristiana, ma soprattutto per il suo lavoro di storico. Era il principale studioso degli Estensi e della Chiesa ferrarese. E un uomo del dialogo tra il mondo cattolico e quello socialista.
«Il giorno successivo alla morte comparve sul quotidiano “La Nuova Ferrara” un profilo biografico di Chiappini, scritto con molto equilibrio da Carlo Pagnoni, un avvocato ferrarese. In quell’articolo c’era un passo che devo leggerle. Eccolo qui.
«Chiappini era nato a Ferrara nel 1922. Si laureò in Lettere a Bologna nel 1944. Fu chiamato alle armi nel 1943. Dopo alterne vicende vissute nel clima di sbandamento determinato dall’armistizio, dapprima non si presentò, ma poi rispose alla chiamata della Repubblica sociale italiana. Venne inviato in Germania dove rimase sei mesi. Finì prigioniero nel campo di Coltano. E tornò a Ferrara nel 1945.»
«Una storia identica a quella di migliaia di altri ragazzi italiani di quel tempo» osservò Livia. (...)
«Tuttavia esisteva una domanda che mi intrigava molto: chi erano i prigionieri di Coltano ai quali Luciano Chiappini si era legato con un’amicizia profonda? Uno era, per l’appunto, Giovanni Prodi.»
«In che modo lo scoprì?» mi chiese Livia.
«Leggendo un libro curato con passione da Pagnoni: Una voce fedele e libera: il Taccuino di Luciano Chiappini, pubblicato nel 2000 a Ferrara da Corbo Editore. A pagina 28 c’era una riga che diceva: “A Coltano conobbe Giovanni Prodi e, successivamente, tramite lui, la sua intera famiglia”.»
«Tutto lì?» domandò Livia.
«No, c’era anche un capoverso che offriva una scheggia della vita di Chiappini nel campo di Coltano: “Di quel periodo ricorda che gli americani, custodi del campo, si fidavano più dei tedeschi che degli italiani. Poi le precarie condizioni di vita nel campo, particolarmente per quanto atteneva al vitto e all’alloggiamento. La grande debolezza fisica, ma anche gli scherzi, le recite teatrali e le conferenze fatte per passare il tempo. Chiappini ne tenne una su Dante Alighieri”.» (...)
«Dunque mi dica quel che ha scovato su Giovanni Prodi.»
«Molto poco, purtroppo. Per cominciare era il primo dei nove fratelli Prodi, nato a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, il 28 luglio 1925. Il padre, Mario, era un ingegnere che veniva da una famiglia contadina. La madre, Enrica, faceva la maestra elementare.
«Dopo aver frequentato a Reggio Emilia il Liceo ginnasio Ariosto, prese il diploma nell’estate del 1943. In quell’autunno si iscrisse all’Università di Parma per studiare Matematica. E adesso le racconterò il seguito, ricavandolo da un ricordo di Giovanni Prodi scritto da un altro matematico: Gian Cesare Barozzi, professore emerito presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna.
«La prima chiamata alle armi decisa dal governo della Rsi venne annunciata per radio il 16 ottobre 1943. Riguardava l’ultimo quadrimestre della classe 1924 e l’intera classe 1925 della leva di terra. L’ordine di chiamata venne reso pubblico il 9 novembre. Il bando specificava che i ragazzi di quelle classi dovevano presentarsi ai distretti militari nel periodo compreso fra il 15 e il 30 novembre 1943.
«In quel momento Giovanni aveva appena 18 anni e quattro mesi. Suo fratello Romano di anni ne aveva 4. Immagino che anche lui, come tanti altri ragazzi, si chiese se dovesse presentarsi o no. Poi decise di recarsi al distretto per evitare ritorsioni sul padre che era un dipendente pubblico. I suoi timori furono confermati dal successivo Bando Graziani, del febbraio 1944, che prevedeva sanzioni pesanti per chi prestasse aiuto ai renitenti. Chi li appoggiava veniva punito con una reclusione non inferiore ai dieci anni di carcere.»
Livia osservò: «Mi ha appena detto che Giovanni Prodi aveva poco più di 18 anni quando fu costretto a una scelta molto difficile. E scelse di presentarsi per evitare sanzioni alla famiglia. Che cosa poteva fare, povero figlio? Qualcuno (...) mi risponderebbe: poteva fare il partigiano. Ma non accetto questo modo di ragionare. Parlando con il senno di poi, sembra tutto facile. Lei come la pensa?».
«La penso come lei» risposi. «Nelle divisioni di Graziani erano molti i soldati per forza. C’erano anche tanti volontari, ragazzi fascisti pronti a combattere per Mussolini. Ma erano tanti anche i militari obbligati, li chiamerei così. Ragazzi costretti dalle circostanze a prendere decisioni difficili e spesso drammatiche.»
Livia mi interruppe: «Voglio ritornare all’età di Giovanni: 18 anni! Nel 1943 a quell’età si poteva andare a morire. E tanti sono morti. Oggi i ragazzi come Giovanni se ne stanno al sicuro in famiglia. Sono i famosi bamboccioni, capaci di vivere con papà e mamma per un’infinità di tempo. In fondo lui era il primo di tanti fratelli. Si è sacrificato per evitare guai pesanti alla famiglia. Che cosa gli accadde dopo aver risposto alla chiamata alle armi?».
«Immagino che, dopo una permanenza in qualche caserma italiana, anche lui sia stato inviato a Vercelli, presso il Centro costituzione grandi unità. Era di lì che partivano le reclute destinate all’addestramento in Germania. Per poi essere inserite in una delle quattro divisioni previste dal maresciallo Graziani: Monterosa, San Marco, Italia e Littorio.
«Purtroppo non sono riuscito a stabilire con certezza di quale divisione abbia fatto parte il giovane Prodi. Il professor Barozzi scrive che Giovanni, una volta rientrato in Italia dall’addestramento in Germania, venne mandato sul fronte contro gli Alleati. E visse “drammatiche vicende sull’Appennino”. Ne deduco che potrebbe aver combattuto nella 1ª Divisione bersaglieri Italia, 14 mila uomini al comando del generale Mario Carloni. Ma l’avverto che è soltanto una mia ipotesi. Non ho trovato documenti o testimonianze che la confermino.
«Quello che so per certo» aggiunsi, «è che la Divisione Italia venne addestrata nel campo di Heuberg, nella Baviera occidentale. Il 17 luglio 1944, quando Giovanni stava per compiere 19 anni, la sua unità venne passata in rassegna da Mussolini.
«Il Duce era andato a far visita alle quattro divisioni, accompagnato dal maresciallo Graziani. La domenica 16 luglio incontrò gli alpini della Monterosa. Il giorno successivo fu la volta dell’Italia. Il martedì 18 passò in rassegna la San Marco e il mercoledì 19 dedicò la mattinata alla Littorio, che veniva allestita a Sennelager.
«Le reclute come Giovanni» dissi a Livia, «non immaginavano certo di trovarsi alla vigilia di un evento di portata storica. Nel pomeriggio videro partire Mussolini sul treno blindato che lo doveva portare al quartier generale di Hitler. Era la famosa Tana del Lupo, a Rastenburg, nella Prussia orientale, una zona tetra, umida, fitta di boschi. Fu un viaggio lungo che impegnò tutta la notte del 19 e la mattina di giovedì 20 luglio.
«Mussolini arrivò a Rastenburg verso le 16. E trovò ad accoglierlo alla stazione un Hitler sconvolto e tremante. Era appena scampato alla bomba che doveva ucciderlo. Aveva i capelli bruciacchiati, le gambe ustionate, il braccio destro paralizzato, i timpani lesi. Ma la congiura dei generali era fallita. Il Führer restava ancora in vita. (...)
Livia domandò: «Quando seppero dell’attentato le reclute delle quattro divisioni?».
«Le prime voci si diffusero la sera del 20 luglio. Qualcuno raccontò di aver sentito alla radio tedesca che Hitler era morto. Più tardi le voci si precisarono: Hitler era soltanto ferito. Nei quattro campi d’addestramento ci fu un’agitazione mai vista. Le reclute obbligate, come Giovanni, pensarono che la guerra sarebbe continuata. E si domandarono, angosciate, quale sarebbe stata la loro sorte. Poi cominciarono le partenze per l’Italia.»
«Ma di quanti uomini disponevano le quattro divisioni? » domandò Livia.
«All’inizio di quasi 58 mila, in seguito destinati a crescere. Questa forza possiamo suddividerla in due blocchi. 13 mila erano militari catturati dai tedeschi nei giorni dell’armistizio. Deportati in Germania, avevano aderito alla Rsi, accettando di ritornare a combattere. Tra loro c’erano di certo anche soldati che volevano sottrarsi al lager e rientrare in Italia. Ma molti, a cominciare dagli ufficiali, erano fascisti e possiamo considerarli dei volontari. Pronti a sfidare gli angloamericani e ad affrontare una guerra civile.
«Il secondo blocco» spiegai a Livia, «era ben più numeroso e contava 45 mila uomini. Questi venivano dall’Italia. In parte erano volontari, fascisti militanti. Ma nella grandissima maggioranza si trattava di giovani precettati con le due chiamate alle armi. Erano ragazzi di 19 anni, come Giovanni Prodi, di 20, 21 e 22 anni.
«Mussolini e Graziani li consideravano il nerbo delle quattro divisioni. Anche se sapevano che tanti di loro vestivano la divisa della Rsi perché erano stati costretti a presentarsi. E dunque, a differenza dei volontari, non garantivano di restare con la Repubblica sociale fino all’ultimo. E soprattutto di essere pronti a immolarsi in una guerra che consideravano già perduta.
«La prima unità a rientrare in Italia fu la Divisione alpina Monterosa. I suoi 19 mila uomini cominciarono a partire il 20 luglio 1944, il giorno stesso dell’attentato a Hitler. Per seconda si avviò la Divisione di fanteria di Marina San Marco, che iniziò a partire qualche giorno dopo. La San Marco disponeva di 14 mila uomini e tra questi c’erano una legione di camicie nere che l’8 settembre era fuggita dalla Grecia e 1800 volontari provenienti dalla X Mas del principe Borghese. Le altre due divisioni lasciarono la Germania soltanto in seguito, con qualche mese di ritardo.»
«Come mai?» domandò Livia.
«Bisogna tener conto di quanto stava accadendo sulla scena della guerra europea» le risposi. «Dopo lo sbarco in Normandia, iniziato il 6 giugno 1944, gli Alleati stavano avanzando verso il cuore della Germania. Il 15 agosto c’era stato lo sbarco in Provenza e il 25 la liberazione di Parigi. Il 3 settembre gli inglesi entrarono a Bruxelles. Hitler non solo era a corto di uomini, ma anche di armi, di munizioni, di rifornimenti. Ed era inevitabile che pensasse soprattutto alle proprie divisioni, non a quelle italiane. Tanto più che, in origine, le unità di Graziani non erano destinate al fronte italiano, diciamo la Linea Gotica, bensì a combattere le bande partigiane.
«La Divisione granatieri Littorio, 18 mila uomini, ritornò in Italia quando era già iniziato l’autunno 1944. Il suo fu un rientro accidentato, iniziato il 20 ottobre e concluso all’inizio di novembre. La Littorio fu costretta a lunghe marce per l’interruzione della ferrovia del Brennero, colpita dai bombardieri nemici in val d’Adige.
«Andò anche peggio alla Divisione bersaglieri Italia. Disponeva di 14 mila uomini, al comando del generale di brigata Guido Manardi. L’ufficiale si era guadagnato una medaglia d’argento durante la guerra di Spagna e dopo l’8 settembre era stato il capo di stato maggiore del Centro grandi unità. La divisione rientrò in patria soltanto nei primi giorni del dicembre 1944. Viaggiò sulle tradotte ferroviarie sino a Verona. Poi con lunghe marce raggiunse la zona di raduno. Stava a sud di Parma, fra Collecchio, Sala Baganza e Berceto. E fu in quell’area che i guai dell’unità si videro tutti.»
«Quali problemi aveva?» domandò Livia.
«Detto in breve, era la più debole e la meno organizzata delle quattro divisioni. In Germania aveva dovuto cedere più volte una parte delle armi e dei materiali ad alcune unità tedesche in allestimento, destinate al fronte francese. Ecco la prima ragione della sua partenza in ritardo. Alla fine del gennaio 1945, l’Italia aveva ancora un quarto degli uomini privi di armi, senza neppure una rivoltella. Fu lo stesso Graziani a dirlo al plenipotenziario tedesco in Italia, Rudolf Rahn, che gli chiedeva conto della fragilità della divisione.»
Spiegai a Livia: «Se Giovanni Prodi era davvero inserito in quell’unità, come abbiamo ipotizzato, anche lui fu in grado di osservare l’inizio dello sfacelo. Devo aggiungere, però, che l’Italia fu l’unica delle divisioni di Graziani a essere schierata subito e per intero sulla Linea Gotica.
«Verso la metà del gennaio 1945, iniziò a dislocarsi in Garfagnana dove si trovò accanto alcuni reparti della Monterosa. Ma si scoprì fra tre fuochi: l’offensiva degli Alleati, le imboscate dei partigiani e le diserzioni. Queste ultime erano una cancrena, sempre più diffusa, soprattutto fra i pionieri. E minava anche il morale dei soldati che non volevano, o non osavano, fuggire.
«La condizione della Divisione Italia non migliorò neppure con l’arrivo del nuovo comandante, il generale Mario Carloni, che aveva guidato la Monterosa. Carloni s’insediò il 22 febbraio 1945. E nel suo primo rapporto a Graziani descrisse con schiettezza lo stato dell’unità. «Spiegò che l’Italia era sopraffatta da una serie di problemi, pesanti. Le diserzioni sempre più numerose, e in una misura persino superiore a quelle che dissanguavano le altre unità di Graziani. La mancanza di veicoli e di carburante. L’obbligo di spostarsi con lunghe marce in montagna tra neve e fango. L’enorme difficoltà di conservare un minimo di regolarità nei rifornimenti di munizioni e di viveri.»
Livia osservò: «Adesso capisco perché il professore Barozzi, a proposito di Giovanni Prodi, disse che aveva vissuto drammatiche vicende sull’Appennino…».
«Certo, tutta la Divisione Italia stava in condizioni molto precarie. E lo stesso accadeva ai tedeschi. Sempre il generale Carloni scrisse in quel rapporto: “Gli stessi camerati germanici non sono più né di aiuto né di esempio. Anche i loro reparti sono dissanguati da defezioni sempre più numerose. E risultano pervasi da un senso di stanchezza e di sfiducia che, giorno dopo giorno, contagia tutti”.»
«Mi domando se Giovanni abbia pensato di disertare » disse Livia.
«Questo non lo sappiamo. Ma disertare era molto rischioso. Se ti riprendevano, finivi al muro. C’erano già state decine e decine di fucilazioni nelle quattro divisioni di Graziani. Eppure non erano bastate a impedire le fughe dai reparti.
«I comandi tedeschi erano infuriati. Sin dall’ottobre 1944, il generale Lemelsen, comandante della 14ª Armata tedesca, aveva sostenuto che la polizia fascista non faceva nulla per catturare i disertori. A sentir lui, i poliziotti di Mussolini non muovevano un dito perché “contavano su un’avanzata degli angloamericani in Italia e volevano mettersi al sicuro per questa eventualità”.
«Sempre in quella circolare inviata ai comandi delle quattro divisioni, Lemelsen aveva proposto di “agire in modo energico e senza scrupoli”. Ossia di rivalersi sui famigliari dei disertori italiani: “Uno dei genitori deve essere tenuto in prigione fintanto che il fuggitivo non si è costituito”.
«Era il principio della cosiddetta responsabilità parentale » spiegai a Livia. «Nel febbraio 1945, il ministero dell’Interno della Rsi lo codificò in una circolare inviata ai capi delle province. Si stabiliva l’arresto e poi l’invio in un lager di un parente maschio del disertore. In più venivano previste sanzioni rapportate alle diverse professioni. Per i contadini il sequestro del bestiame. Per i commercianti il ritiro della licenza e la chiusura del negozio. Per i professionisti la radiazione dall’albo. Per i salariati il licenziamento in tronco, senza nessuna indennità.»
«Ecco perché tanti ragazzi, a cominciare da Giovanni, rimasero nei reparti sino all’ultimo» osservò Livia.
«Già, e seguirono la sorte dei comandi. La Divisione Italia iniziò a ritirarsi dalla Garfagnana il 19 aprile, sotto i bombardamenti angloamericani. Dieci giorni dopo si trovava in Emilia, diretta verso Fornovo di Taro. Ormai era accerchiata. Tentò di uscire dal blocco con un ultimo attacco nei pressi di Modena. Secondo una fonte fascista, l’assalto riuscì. Ma l’Italia fu di nuovo fermata dai brasiliani che sbarravano la via Emilia.
«Era inutile continuare a combattere. Nel pomeriggio del 29 aprile, il generale Carloni si arrese al comando della 1ª Divisione brasiliana. Il 30 aprile gli ultimi reparti dei bersaglieri gettarono le armi nella zona di Collecchio, in provincia di Parma. In seguito gli americani avviarono i prigionieri verso il campo di Coltano. Tra loro c’era anche Giovanni Prodi che in luglio avrebbe compiuto vent’anni.»
Dissi a Livia: «Come ci ha insegnato Ciabattini, a Coltano c’era uno spaccato completo della gioventù italiana che aveva condiviso le sorti della Rsi. Si andava dai fascisti irriducibili che rimasero tali per anni e anni, sino ai ragazzi chiamati alle armi dall’esercito repubblicano. Erano stati dei soldati per obbligo e tali restavano a Coltano. Non credo di sbagliare, se le dico che molti di loro si sentivano estranei al fascismo. E precipitati dentro una sconfitta che non avevano cercato.
«Poi Giovanni Prodi venne liberato, credo nell’autunno 1945. Ritornò in famiglia, riprese gli studi, si laureò a Parma e diventò un matematico di grande valore. Infine scomparve a Pisa il 29 gennaio 2010, sei mesi prima di compiere 85 anni.
«C’è ancora una cosa da dire su di lui» spiegai a Livia. «Com’era accaduto a Ciabattini, anche a Giovanni la Repubblica italiana impose di fare il servizio militare. Vestì di nuovo la divisa e diventò un caporale addetto all’istruzione delle reclute. E sa dove prestò servizio? A Casale Monferrato, nella mia città.»
«Ecco una sorpresa» sorrise Livia. «Forse, da ragazzino, lei lo avrà visto passare davanti al negozio di sua madre Giovanna, in via Roma…»
Le sorrisi anch’io: «Chi lo sa. A volte il mondo è assai più piccolo di quanto pensiamo».

da “I vinti non dimenticano”, Rizzoli, 462 pagine, 19.50 euro


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