vendredi, novembre 26, 2010

Sciascia e la menzogna sulla mafia

Il Riformista
Sciascia e la menzogna  sulla mafia

di Massimo Bordin   ilriformista.it    20101126

Il “pessimismo della ragione” di Leonardo Sciascia continua a insegnarci molto. Per esempio che la giustizia non ci aiuterà a comprendere Cosa Nostra.

Quando nel gennaio 1987 Sciascia scrisse una introduzione a un libro di uno storico inglese pubblicata dal Corriere della Sera con il titolo, tutto sommato aderente al testo, “I professionisti dell’antimafia”, ci fu grande sconcerto nell’opinione pubblica antimafiosa e di sinistra. L’attacco al sindaco Orlando, icona antimafiosa, ma soprattutto la critica a una promozione votata dal Csm per il giudice Borsellino, venne interpretato come una sleale e inusitata delegittimazione di due valorosi combattenti. Quasi nessuno fece caso al fatto che il libro dello storico inglese aveva come tema il modo in cui il fascismo utilizzando la lotta alla mafia del prefetto Mori se ne fosse servito per cambiare i gerarchi locali, per tutt’altri motivi ritenuti inadeguati ai tempi. Insomma l’antimafia piegata alle esigenze politiche del potere. Questo poteva valere per il democristiano sindaco Orlando, successore di altri democristiani. Quanto a Borsellino non c’era attacco personale, piuttosto una critica al modo con cui il Csm aveva disatteso i suoi regolamenti per arrivare a una promozione.
Magari giusta ma ottenuta con un procedimento «eccezionale» dunque illegale, un po’ come i metodi «eccezionali» di Mori.
L’aspetto forse più infondato delle reazioni negative che scatenò l’articolo fu però la sorpresa affettata da più d’uno dei suoi critici. «Sciascia ha cambiato posizione sulla mafia, lui che fra i primi ci aveva spiegato quanto fosse pericolosa!». Più o meno questo dissero in molti, variamente autorevoli. Naturalmente non era vero ma piuttosto il frutto di un equivoco così lampante da apparire evocato in modo non innocente. Sciascia sulla mafia aveva fatto, davvero da coraggioso precursore, un discorso critico che seguiva l’evoluzione di un fenomeno criminale tanto radicato da avere una sua «cultura». A un certo punto però Sciascia si rese conto che «il contesto» italiano stava modificando anche quella «cultura» criminale, che si adeguava alle novità. E le posizioni espresse nell’articolo “incriminato” avevano avuto una lunga gestazione nel pensiero di Sciascia, fin dagli anni Settanta quando la sua polemica contro la politica dell’unità nazionale e del compromesso storico lo portò a rompere definitivamente con il Pci attraverso una critica radicale della scelta dei mezzi cosiddetti di emergenza contro il terrorismo.
Ma già allora il suo discorso non era solo un discorso in difesa di garanzie che venivano meno per la libertà dei cittadini, tanto meno da parte sua vi fu indulgenza verso il terrorismo eversivo. Il rispetto della legge davvero uguale per tutti, il diritto effettivamente tale e non plasmabile secondo l’eccezione della emergenza: questo è il punto di non ritorno nella polemica con il Partito comunista in quegli anni. In Sciascia c’era la delusione per un mancato rinnovamento sociale che produceva una spirale sempre più indistricabile di eversione ed emergenza che rendeva l’Italia sempre più simile alla realtà apparentemente irredimibile della Sicilia. E in quegli che Sciascia cominciò a citare, a mo’ di esempio sullo stato del paese, la scoperta dei botanici dell’avanzare della “linea della palma”. E proprio «La palma va a nord» mise come titolo a un suo libro-intervista per affermare quanto l’Italia stesse sicilianizzandosi nel senso peggiore.
Ne discendeva come corollario che proprio quella «cultura» criminale che Sciascia aveva svelato nei suoi meccanismi avesse finito per modificarsi. Sciascia, già deputato radicale, lo spiegò a suo modo sette anni prima dell’articolo sui “professionisti dell’antimafia” a proposito del primo omicidio politico palermitano che vide ucciso il segretario dc Michele Reina, un andreottiano onesto. Il delitto venne camuffato con un improbabile comunicato di rivendicazione di un sedicente gruppo rivoluzionario. Naturalmente nessuno abboccò e tutti riconobbero l’evidente matrice mafiosa. Sciascia fu più possibilista e quando a gennaio ’80 venne ucciso il presidente della Regione Mattarella scrisse di avere l’impressione che comunque ci si trovasse di fronte non alla mafia ma «ad un terrorismo che, inevitabilmente e confortevolmente, ci si ostina a vedere come mafia». Subito ci fu chi disse che era impazzito. Invece, terribilmente in anticipo coi tempi, Sciascia voleva semplicemente dire che la palma era tanto andata a nord da cambiare perfino la mafia. E il senso di questo cambiamento gli parve fosse sfuggito a tanti, anche al generale Dalla Chiesa nel momento in cui fu la successiva vittima della mafia-terrorista.
Inutile dire che anche quelle sue parole furono l’innesco di una violenta polemica. Anche allora vi fu chi, a cominciare dal figlio maoista del generale, disse che lo scrittore - che per di più aveva la “colpa” di essere siciliano e non piemontese - insultava un eroe e «faceva oggettivamente il gioco della mafia». Naturalmente Sciascia tenne il punto anzi rilanciò criticando il concetto dei «poteri eccezionali» che il generale aveva invocato prima di essere ucciso.
Forse definire Sciascia solo come «garantista» può rischiare di immiserirne il pensiero. A ben vedere nella sua opera il tema della giustizia è centrale, quasi ossessivo perché portatore di una contraddizione vitale e drammatica. E può forse valere per la giustizia quello che Sciascia disse sulla verità a due giornalisti del Nouvel Observateur: «In fondo credo anch’io all’avvenire della verità, ma penso che a quel punto sarà una menzogna». L’intervista è del 1977 e questa frase, formidabile espressione del “pessimismo della ragione” appare singolarmente profetica per quello che Sciascia dovrà affrontare negli anni successivi quando tentava di spiegare, a chi non voleva capire, quanto fosse mutato il rapporto fra mafia e politica. E già nel 1982 scriveva come a Palermo certi politici «infeudati alla mafia o infeudanti la mafia», che una volta facevano «ironia su chi ci credeva e la temeva», avessero «preso a parlarne non solo credendoci ma - visibile anche nelle loro facce - con paura. Ciò vuol dire che il tentativo di districarsi dalla mafia, e di districarne i loro partiti è in atto. Ho ricordato altre volte il vecchio capo mafia Vito Cascio-Ferro che disse ai giudici che stavano condannandolo per un omicidio non commesso mentre per i tanti che aveva commesso non erano riusciti a condannarlo. Alla Dc oggi sta accadendo qualcosa di simile. Non in quanto partito, ma attraverso un certo numero di singoli che ne partecipano, per anni ha dato alla mafia protezione sicurezza e prosperità; oggi vuole distaccarsene e come non mai è accusata di esserci dentro». La giustizia stava portando la verità, ma nel frattempo era divenuta una menzogna.


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