lundi, novembre 15, 2010

L'errore di Fini: vuol sostituire Berlusconi, diventandolo

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L'errore di Fini: vuol sostituire Berlusconi, diventandolo

Poteva, con un po' di pazienza, candidarsi ad essere il post Berlusconi che è un'altra cosa

di Diego Gabutti   italaioggi.it    20101115

È dire che al principio della fiera, prima che la maionese della crisi impazzisse, c'è stato un momento in cui Gianfranco Fini aveva ragione da vendere e il Cavaliere torto marcio.

Come la stragrande maggioranza dei politici italiani da Garibaldi in poi, tutti imprudentemente ma pazzamente innamorati di se stessi, Silvio Berlusconi era tutto un «io, io, io». Berlusconi di qua, Berlusconi di là. «Ghe pensi mi», e meno male che ci sono io, e sapeste quanto sono ricco, quante ville ho, e quante urì del paradiso. Una barba! Una pena! Da non poterne più.

Gianfranco Fini, dichiarando di volerlo ridimensionare, e trattandolo anche con un certo disprezzo, si candidava alla leadership d'una fronda liberale al populismo accentratore del Cavaliere (per riconoscergli questo ruolo si doveva magari sorvolare un po' sulla storia politica del futuro leader futurista, ma da noi si è sorvolato su ben altro). Ai berlusconiani esagerati e di stretta osservanza la fronda finiana dava fastidio? Meglio!

Ai berlusconiani tiepidi, ai berlusconiani critici, per non parlare dei berlusconiani per forza di cose che votano a destra perché non vogliono vedersi piombare tra capo e collo un governo autoritario e gabelliere, cioè cattocomunista e dipietrista, be', a questi particolari elettori berlusconiani piaceva invece moltissimo l'idea d'un controcanto liberale alle inesauste autocongratulazioni del grande megalomane. «Guarda lì un bel segmento di mercato», avrebbe detto un funzionario di Publitalia.

In un paese come il nostro (finché dura) che ha per oppositori comunisti vetero e comunisti post, ex democristiani invasati, giornali apocalittici, antipatizzanti a prescindere del presidente del consiglio, magistrati pronti a tutto e comici posseduti dal demonio ma non un solo politico moderato e razionale, c'era e c'è bisogno come e più del pane d'un controcanto liberale a Berlusconi. Più in piccolo, senza un'ombra di carisma, ma tollerato dal pubblico (applaudito è troppo) anche recitando in una parte che non è la sua, il Cofondatore avrebbe potuto passare per una specie di Marco Pannella, deciso a far valere le ragioni del diritto, e dei diritti, di fronte all'elettorato di centrodestra. Per un momento, prima di farsi prendere la mano dal suo ingombrante portavoce, Italo Bocchino, sembrò che Fini si fosse candidato proprio a questo ruolo. Tutto filava liscio. Berlusconi chiamava i probiviri e minacciava di mandarlo a letto senza cena come la direttrice del collegio aveva fatto con Gianburrasca nel grande romanzo di Vamba.

Bastava che Fini aspettasse con pazienza il momento in cui il Cavaliere si fosse reso così ridicolo da far perdere la pazienza anche a Emilio Fede. Ma i finiani no, i finiani volevano tutto e subito, e il cofondatore a ruota: gruppi parlamentari autonomi, un nuovo partito, discorsi pubblici senza grandi idee da sbandierare ma in diretta televisiva e soprattutto quel ditino alzato, che ha fatto apparire lui come la direttrice del collegio mentre il cavaliere, sotto minaccia, è diventato Gian Burrasca. Partito per denunciare il berlusconismo, che Berlusconi e i sacerdoti della sua religione (gli Stracquadanio, i Cicchitto) vorrebbero al di sopra d'ogni critica, il leader neofuturista, già cofondatore del Popolo della libertà, ha preteso di diventare lui stesso Berlusconi.

Sicuro, deve aver pensato, ne ho tutto il diritto. E il fisico, poi, dove lo mettiamo? Vado tutti i giorni in palestra, guarda qua che muscoli, tocca i pettorali. Se omaggiano lui, che è alto «due mele e poco più» come i puffi, qualcuno mi spieghi perché i finiani militanti non dovrebbero omaggiare me, che sono alto come l'intero albero di mele? Se Fini, all'inizio della fiera, conservava ancora una sua civile compostezza, alla fine della fiera lo ammiriamo col tricorno di Napoleone, la mano infilata nella giubba, una spada di cartone alla cintura mentre fissa con aria pensosa l'orizzonte lontano lontano e la sua clacque intona Meno male che Gianfry c'è.

Una parte difficile da sostenere, anche per un attore consumato come Luca Barbareschi, figurarsi per uno col suo magro curriculum teatrale: il saluto romano, Dio-Patria-Famiglia, il Dux.


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