mercredi, août 18, 2010

La lunga lotta ai terroristi (con onore delle armi finale)

Corriere.it 20100818 Giovanni Bianconi

La lunga lotta ai terroristi (con onore delle armi finale)

Gli ex brigatisti ricordano che fu l'unico a considerarli nemici politici

ROMA - «E' stato l'unico», hanno sempre ripetuto all'unisono i terroristi rossi e neri (ma soprattutto rossi) che negli anni Settanta l'hanno considerato come il principale nemico e poi, appunto, «l'unico» ad aver riconosciuto loro l'onore delle armi; la dignità di avversari politici che, cessati gli spari e pagati i debiti con la legge, avevano diritto a essere considerati ciò che si consideravano: rivoluzionari sconfitti, non criminali comuni. Una sorta di legittimazione postuma, arrivata a guerra finita, che in realtà serviva anche a lui, per legittimare se stesso e una linea che avrà pure portato alla sconfitta del terrorismo - ma dopo quanto tempo? E dopo quanti morti? - e però è costata sacrifici immani. A cominciare dal sostanziale «via libera» all'esecuzione di quello che definiva il suo amico e maestro, Aldo Moro, ucciso dalle Br anche per la «fermezza» sponsorizzata in primo luogo da lui stesso, ministro dell'Interno di quei drammatici 55 giorni.
Il giorno della morte di Francesco Cossiga (non più Kossiga, come scrivevano trent'anni fa) quel giudizio non cambia. E accomuna pressoché tutti gli ex brigatisti di ogni risma e categoria: dissociati, pentiti, irriducibili, arresi, e qualsiasi altra definizione si voglia trovare per chi è passato dalla principale formazione armata dei cosiddetti «anni di piombo». Capi o gregari che fossero.
Uno che ha sempre rivendicato la propria militanza brigatista collezionando ergastoli senza mai rispondere alle domande di un magistrato - Francesco Piccioni, della colonna romana delle Br, responsabile di diversi omicidi firmati con la stella a cinque punte - l'ha intervistato per un libro sul '77, l'anno delle sparatorie in piazza, dei morti in divisa e fra i dimostranti; quasi rivendicati, questi ultimi, da Cossiga. «Con lui - ricorda oggi Piccioni - s'era instaurato un rapporto simile a quello fra ufficiali di eserciti nemici che si sono combattuti e presi a fucilate, ma una volta terminato il conflitto hanno concesso alla controparte il dovuto rispetto». E per i brigatisti rispetto significa essere catalogati come guerriglieri battuti in uno scontro senza quartiere, e non solo assassini che seminavano morti agli angoli delle strade, di solito la mattina presto, quando gli «obiettivi» uscivano di casa per andare al lavoro. Il ministro dell'Interno e poi presidente del Consiglio di quella sanguinosa guerra aveva riconosciuto la genuinità del fenomeno eversivo italiano. E questo per i militanti della lotta armata, carcerati e assediati dalla «dietrologia» di chi teorizza oscure e indicibili trame dietro le loro gesta, è già un grande risultato.
E' quello che sottolinea anche Valerio Morucci (un «dissociato» degli anni Ottanta, altra categoria di ex brigatista), quando afferma che «Cossiga aveva interiorizzato il dramma della gestione del potere, necessariamente cinica e indifferente alla vita dei singoli». Fosse anche quella di Aldo Moro, lasciato uccidere senza tentare nulla che non fossero spettacolari e un pò farsesche operazioni di polizia che sapevano più di parata che di investigazione.
Allora il riconoscimento dello status di nemici politici insorti, negato al tempo del conflitto (anche al prezzo dell'omicidio di Moro, come di tante altre vittime) è stato pure - forse - un modo per riabilitare la propria rivendicata «fermezza», oltre che i «guerriglieri» dell'epoca. «Cessate le ragioni dell'inimicizia e quella della propaganda, ha saputo riconoscere la nostra identità - spiega ancora Morucci - offrendo la possibilità di una memoria non unica ma comune; non condivisa ma narrabile da tutti, ciascuno per la parte che ha rappresentato».
La legittimazione reciproca con gli ex terroristi ha attraversato gli ultimi vent'anni di vita politica di Francesco Cossiga. Dalla volontà di concedere la grazia a Renato Curcio fino alla lettera inviata agli avvocati brasiliani di Cesare Battisti, utilizzata per tentare di far ottenere l'asilo politico all'ex militante dei Proletari armati per il comunismo, condannato a quattro ergastoli per altrettanti omicidi, di cui l'Italia aspetta ancora l'estradizione. In quella missiva scrisse che i «sovversivi di sinistra» erano dei «rivoluzionari impotenti, che con gli atti di terrorismo credevano non certo di fare, ma di innescare la rivoluzione, secondo gli insegnamenti di Lenin. I crimini della sovversione di sinistra sono crimini ma politici, non comuni».
Difficile sperare di più da un governante al quale, trent'anni prima, i brigatisti e gli altri «rivoluzionari» avrebbero sparato senza alcuna remora. E lui altrettanto.
Giovanni Bianconi
18 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

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