mardi, août 17, 2010

Il bipolarismo piace agli elettori ma va stretto ai politici I quali politici, dopo il voto, desiderano fare ciò che vogliono .......

ItaliaOggi Numero 194 pag. 4 del 17/8/2010 PRIMO PIANO


Il bipolarismo piace agli elettori ma va stretto ai politici I quali politici, dopo il voto, desiderano fare ciò che vogliono e ciò che a loro interessa


Le scelte espresse con il voto sono ritenute, tutt'al più, dei semplici auspici


di Diego Gabutti

Nonostante l'appello del presidente della repubblica, che dalle colonne dell'Unità ha lanciato il dovuto (ma ormai un po' sciapo) invito a «moderare i toni», la «campagna di stampa contro la terza carica dello stato» non cesserà. Esattamente come non vedremo tanto presto i titoli di coda della jihad infinita contro il Cavaliere (una guerra santa abbracciata di recente dai futuristi di Gianfranco Fini ma proclamata oltre vent'anni fa dalla proprietà e dalla redazione di Repubblica senza che Napolitano e i due presidenti della repubblica che l'hanno preceduto sul Colle abbiano mai neppure pensato di denunciare le campagne di stampa «destabilizzatrici» contro due o tre presidenze del consiglio). Questa è una di quelle giostre che semplicemente non si possono fermare.

E non soltanto perché la guerra interna ai Palazzi italiani è disgraziatamente «fondata su qualcosa di concreto», come si leggeva un tempo sui giornali dabbene (infatti c'è davvero del marcio a Montecarlo, e Silvio Berlusconi, da parte sua, sta veramente «cospirando» con Umberto Bossi e gli ex An traditori, come sostengono i finiani, per isolare la componente centralista, «nazionale» e in definitiva postfascista del Popolo della libertà). Ma anche, anzi soprattutto, perché c'è qualcosa che non torna nei calcoli del bipolarismo italiano, che piace agli elettori ma va stretto ai politici. Questi hanno tutti l'aria di santarellini, sbattono candidamente le lunghe ciglia verginali, ma la verità è che coltivano un'idea hollywoodiana della politica e che si sentono a loro agio soltanto quando possono affrontare il nemico politico a torso nudo e armati di coltello, come Rambo II e III a caccia di consiglieri sovietici nelle giungle vietnamite o nelle valli afghane. O qualcuno crede davvero ai sospiri di quei politici che dicono di rimpiangere i partiti tradizionali, radicati nel territorio, «identitari», di massa, i partiti pieni di tesserati che organizzano feste, affiggono manifesti, portano gli striscioni in corteo, indossano magliette con i faccioni di riferimento, strillano slogan nel megafono, distribuiscono volantini nei mercatini rionali e in generale si comportano come invasati? Dei partiti tradizionali ai politici importa meno di niente. Quel che i politici vogliono davvero è una lotta senza esclusione di colpi. Vogliono la guerriglia, meglio se praticata da piccoli commando nei più sperduti avamposti parlamentari della repubblica, lontano dalla civiltà (e dall'elettorato). Bei tempi, pensano, quando si può vivere pericolosamente, come nei romanzi di James Fenimore Copper, dove gli ultimi dei mohicani e i loro amici cacciatori bianchi campano scuoiando alci e procioni, scambiandosi frasi pompose, tendendo imboscate alle «giubbe rosse» e mangiando radici crude. È nelle correnti dei partiti (o nei gruppi e gruppuscoli dissidenti che nascono per lo più fuori stagione, a metà legislatura) che le Giovani marmotte della seconda repubblica realizzano, proprio come i boy scout della prima repubblica che le hanno precedute sulla scena, il loro più autentico destino: fare parte d'una banda.

Nei vecchi partiti, quando c'erano eretici e pagani da combattere, i politici ricorrevano ad argomenti più o meno razionali: che fare, perché farlo, come farlo. In una banda di mocciosi armati di fionde gli argomenti razionali non si sa neanche dove stanno di casa. Ai vecchi tempi nessuno si sarebbe permesso di dedicare intere pagine di giornale agli amorazzi mercenari del Cavaliere, così come nessuno avrebbe chiamato la moglie del presidente della camera (vedi Libero) «l'ex di Gaucci», nella convinzione che in politica sia giusto non fare prigionieri. Una banda, diversamente dai partiti (e dai giornali) tradizionali, non conosce la differenza tra una vendetta privata e un atto di giustizia, tra il verdetto d'una giuria e un regolamento di conti. Una banda controlla il territorio, con ogni mezzo, come nei Ragazzi della Via Paal, e peggio per chi sconfina.

Aucun commentaire: