vendredi, novembre 12, 2004

Perché Berlusconi perde Il Foglio 12/11/2004

Come e perché Berlusconi ha perduto la battaglia delle tasse senza mai davvero combatterla
Il leader che era partito con il sogno liberale e si è arreso alla gestione dell’esistente
Roma. L’autodifesa del Cav. sulle tasse si è tenuta per una forma di nemesi al comando generale della guardia di finanza in occasione del 230° anniversario del corpo. Il Cav. ha usato i suoi argomenti: la riforma fiscale è fallita per le scarse risorse a disposizione, “a causa della gestione avventurosa della spesa pubblica fatta in passato”; poi ha rilanciato: “Se lo stato ti chiede più di un terzo di quello che guadagni hai la sensazione di essere vittima di un’ingiustizia”. Infine con quella berlusconiana eccentricità, che ne fa comunque un fuoriclasse, davanti ai finanzieri ha aggiunto: “Se lo stato chiede più di un terzo, il contribuente si sente autorizzato a trovare sistemi elusivi o evasivi che non lo fanno sentire colpevole”. Un passaggio con cui ha cercato di rimettersi in sintonia con l’opinione pubblica, dopo la malinconica sconfitta della giornata precedente. Il Cav. di mercoledì sera immalinconiva: “Avrei osato di più, ma non ho il 51 per cento dei consensi, e queste sono le mie truppe”, aveva detto. Eppure nessun leader italiano democraticamente eletto aveva mai contato su tante truppe, e per di più la forza politica di Silvio Berlusconi non era stata la truppa, ma l’entusiasmo rivoluzionario. L’abbondanza di truppa ne era stata la conseguenza. Immalinconiva il Cav., perché la decisione maturata mercoledì era la fine di una stagione: riduzione delle tasse sui redditi rinviate al 2006 (a tempo scaduto, ne sentiremo gli effetti sulla denuncia dei redditi 2007); in cambio via libera alle richieste concertative dei tre sindacati degli imprenditori – guidati dalla zazzeruta Confindustria di Luca di Montezemolo – e alle rivendicazioni postdemocristiane degli onorevoli Gianni Alemanno e Marco Follini. Qualcuno dice che era inevitabile. Ecco Tito Boeri, professore di economia alla Bocconi, animatore del sito lavoce.info: “Era una decisione obbligata. Con quella situazione finanziaria, non si poteva fare altrimenti. E’ stata una scelta di realismo”. Ma non era il realismo la posta iniziale con cui il Cav. si era seduto al tavolo della politica dieci anni fa. Berlusconi aveva vinto le elezioni del 1994 e poi quelle del 2001 con una carica eversiva di liberismo temperato da padano buonsenso. E oggi sono proprio i liberisti i più immalinconiti. Dice Alberto Mingardi, direttore della fondazione Bruno Leoni: “La fine del berlusconismo era già avvenuta. Mercoledì, però, abbiamo assistito al funerale solenne. E’ vero che il programma di governo del centrodestra era articolato su cinque punti, ma la riduzione della pressione fiscale era la cosa più importante, quella su cui Berlusconi aveva costruito il suo consenso”. Gli uomini del presidente cercano di attenuare l’effetto della ritirata. “Non è detto che tutto finisca qui – dice Luigi Casero, responsabile economico di Forza Italia – E’ solo un rinvio al 2006. La situazione economica questo ci consentiva, un intervento complessivo di 4 o 5 miliardi e la coalizione ha spinto sull’Irap”. Per il Cav. il problema oggi è capire quanto del suo ottimismo resti in circolazione. Questo spregiudicato Ronald Reagan brianzolo ha ancora un credito rivoluzionario? In dieci anni Berlusconi ha completamente ribaltato quasi tutte le nostre abitudini politiche e ha dato un ritmo alla vita pubblica nazionale che prima non aveva. Ha reso possibile la riforma del sistema politico in senso maggioritario, tenendo insieme tre o quattro anime diverse della costituenda destra italiana e costringendo il fronte opposto a fare lo stesso; ha realizzato una formidabile rivoluzione del linguaggio politico che si è spinta fino al limite di soluzioni spesso incomprensibili per lo snobismo politichese corrente, ma incredibilmente efficaci; in politica estera ha dato un peso nuovo al paese, lo ha sottratto alla sudditanza psicologica all’asse franco–tedesco e lo ha spostato verso un sistema di rapporti più congeniale ai cambiamenti in atto nel mondo. Dice Mingardi: “Ha fatto un’altra cosa per la quale bisogna essergli grati. Anche se domani scomparisse in una nuovola di fumo, è soprattutto grazie a lui se il dibattito politico si è enormemente ampliato: tornando al tema della sconfitta di due giorni fa, è grazie a lui che oggi in Italia è possibile parlare di riduzione delle tasse senza essere presi per matti. Prima di Berlusconi non esisteva un diritto di cittadinanza per questi argomenti”. Ma Berlusconi è stato anche l’uomo che da un certo momento in poi ha attenuato la sua carica. Che cosa gli rimproverano gli appassionati di com’era una volta? In politica economica ha consentito che i suoi ministri galleggiassero, ha abbandonato la battaglia sull’alleggerimento dei vincoli di bilancio imposti dalle regole europee. (D’altra parte, anche in politica estera ha abbassato un po’ la guardia, rendendosi disponibile a condividere con il Quirinale una attitudine di rapporti che non perdesse di vista una più tradizionale diplomazia internazionale). Sulle questioni sociali si è fatto intrappolare da una visione solidarista portata da cattolici, aennisti, forze sindacali di complemento che cercano di dare una risposta di maniera ai problemi del paese. Nell’assestamento dei rapporti di forza nel sistema politico, finanziario e industriale, è sembrato abdicare al suo ruolo di outsider preferendo una specie di integrazione che molti suoi sostenitori vorrebbero scoraggiare: pensano che oggi Berlusconi faccia parte del sistema. Dice Mingardi: “E’ facile individuare il primo errore. Ha vanificato il suo momento d’oro nei primi cento giorni. Era allora che poteva fare tutto. Invece è sembrato concentrarsi su una scaletta il cui ordine di priorità non era l’economia, ma quelle difficoltà personali che riteneva gli fossero d’ostacolo per ben governare. Ma è da lì che è cominciata la lenta agonia del suo governo”. Troppi annunci Casero non condivide questa analisi: “Durante i cento giorni si poteva accelerare – ammette – ma ricordiamoci che subito è venuto fuori il conto delle spese elettorali ereditato dal governo Amato, e poi è arrivato l’11 settembre”. L’11 settembre è una tappa decisiva nella storia del secondo gabinetto del Cav. La prima occasione perduta. Spiega Boeri: “Uno degli errori fatti dal governo è stato insistere su annunci che avevano come obiettivo incoraggiare psicologicamente l’opinione pubblica, ma che hanno ottenuto il risultato contrario. Non si può dire che le cose vanno bene, se la gente è in grado di misurare autonomamente un peggioramento della vita quotidiana. Non è solo un errore politico, ma anche un errore in politica economica, perché quegli annunci hanno generato incertezza”. Altra occasione perduta, articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Due anni di scontro con il sindacato su una questione poi abbandonata. Mingardi: “La verità è che Berlusconi sul terreno economico ha giocato solo battaglie che ha perduto”. Replica Casero: “L’articolo 18 non era una battaglia sua, e la battaglia sulle tasse è più difficile di quanto sembra. Non è in gioco solo la riduzione del carico fiscale, ma la diminuzione della quantità di ricchezza che lo stato deve ridistribuire. E’ una battaglia culturale: tagliare le tasse vuol dire prima o poi tagliare la spesa. Tre mesi di discussione ci hanno insegnato che non c’è solo un problema di rappresentanza politica (dove e quanto tagliare), ma una diffidenza ideologica nei confronti della riduzione del potere dello stato”. “Ma anche questo – osserva Boeri – forse sarebbe stato preferibile dirlo apertamente”. Certamente dunque, molti errori e qualche duro colpo subìto (come questo sulle tasse), ma non bisogna sottovalutare la capacità di reazione del Cav. Ieri con i finanzieri non è stato capace di risparmiarsi una battuta del suo repertorio allegro, felicitandosi per essere stato lui a fare una visita a casa loro e non il contrario.

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