La storia del patto indecente tra giornali e magistrati
Ecco perchè i giudici di Mani pulite si
accanirono su Gardini e ignorarono De Benedetti
di Filippo Facci liberoquoditiano.it
27/08/2013
Beh,
è interessante che anche un signore come Piero Ostellino - un ex direttore del
Corriere della Sera, insomma non il primo scemo che passa (...)
(...)
- abbia messo nero su bianco quello che definisce «un pactum sceleris fra il
mondo dell’informazione e la parte della magistratura interessata a sovvertire
gli equilibri politici esistenti». Ostellino l’ha scritto ieri su Il Foglio e
partiva essenzialmente dal periodo di Mani pulite, quando il patto, cioè,
secondo lui, sarebbe stato più o meno questo: «Voi - dissero i media a
magistrati - tenete fuori da Mani
pulite i nostri editori e noi vi aiutiamo a
mettere le mani, e a far fuori, i loro concorrenti e ad attribuire tutta la
responsabilità della corruzione alla politica». Partendo da questo, dice
Ostellino arrivando così all’oggi, «si realizzò la trasformazione dell’Italia
in un Paese nelle mani di una magistratura inquirente e di un sistema
informativo che ignoravano l’Habeas corpus e istruivano processi e comminavano
condanne sulle pagine dei giornali prima ancora che a farlo fossero i
tribunali». Poi Ostellino parla di un patto dei direttori, ma per ora
fermiamoci qui.
Sommersi e salvati -
Anche perché, messa così, dar torto a Ostellino è davvero difficile. Nella
prima parte di Mani pulite, la parzialità della magistratura nei confronti di
certi grandi imprenditori e proprietari di mass media (Agnelli e Romiti, De
Benedetti, ma attenzione, da principio anche Berlusconi) è riscontrabile non
tanto da singoli atti giudiziari bensì dalla loro assenza. Sulla Fiat e sulla
responsabilità dei vertici (Agnelli ma soprattutto Romiti) c’è tutta una
letteratura probatoria pubblicata e stra-pubblicata: «Sono stati i magistrati
di Mani Pulite a suggerire a Romiti di scrivere la lettera-articolo sul
Corriere della Sera nella quale il 24 aprile 1993 si rivolge agli industriali
invitandoli a collaborare con i giudici»: questo, per esempio, lo si legge in
«Storia segreta del capitalismo italiano» (Longanesi, prefazione di Ferruccio
de Bortoli) tutti i cronisti dell’epoca restano convinti, a tutt’oggi, che fu
questo a evitargli l’arresto: al pari di un discorso pro-giudici pronunciato da
Agnelli il 17 aprile 1993 al Teatro la Fenice di Venezia. Dopodiché il
procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, disse che «i legali
della Fiat hanno espresso disponibilità a collaborare». Nei fatti,
successivamente, a Romiti fu concesso di presentarsi come semplice teste e di
produrre un semplice memorialetto difensivo: ciò che non fu assolutamente
permesso, ad esempio, a un Raul Gardini. Romiti, per contro, non fu arrestato
neppure quando si appurerà che proprio in quei giorni aveva fatto bruciare
delle carte: «A Vaduz (Liechtenstein, ndr) dovevano scegliere chi doveva
attribuirsi i fatti... hanno deciso di distruggere tutto il resto del conto
Sacisa, in modo da dare ai magistrati qualche informazione per farla contenta e
chiudere il conto con la Procura... ritengo che tutto ciò sia stato coordinato
e disposto da Romiti, in quanto fu lo stesso Romiti che dette ordine in tal
senso». Questo l’avrebbe messo a verbale un manager Fiat, Antonio Mosconi.
Tuttavia la maggior parte dei giornali scrisse della deposizione di Romiti
definendola «una svolta»: da far impallidire il filo-berlusconismo del Tg4. La
Fiat, in ogni caso, fu messa sotto torchio, sì: ma anni dopo, e dalla
magistratura di Torino. Così come fu la magistratura di Roma, sfuggevolmente, a
mandare Carlo De Benedetti agli arresti domiciliari in data 30 novembre 1993. A
Milano, invece, De Benedetti - proprietario del gruppo Repubblica-Espresso - si
presentò in Procura una domenica, il 16 maggio, con un memoriale lunghissimo
nel quale sosteneva che la sua Olivetti era stata sistematicamente concussa
dalle Poste italiane. «De Benedetti», scriverà Di Pietro in un suo memoriale
difensivo, «si presentò spontaneamente». E tutti a crederci. Non manca una
certa letteratura anche un Silvio Berlusconi lasciato miracolosamente stare dai
magistrati di Milano almeno fino alla fine del 1993 - quando, ricordiamo, i
suoi telegiornali sostenevano Mani pulite a spada tratta - il che è stato
ammesso e documentato anche dai suoi più feroci detrattori di oggi. Ma non è
certo a Berlusconi che Ostellino si riferiva nel suo articolo.
Poi
c’è il discorso dei direttori di giornale e dei giornali, cioè, che
appartenevano ai succitati imprenditori. Ai tempi, nel 1992, si mormorava che i
direttori si telefonassero per concordare spazi e titoli comuni: un pool di
vertice, in pratica. Si stupirono in molti, diversi anni dopo, quando Piero
Sansonetti, condirettore de l’Unità nel 1992-1993, raccontò che era tutto vero:
«Nel biennio 1992-1993 nacque un’alleanza di ferro tra quattro giornali
italiani: il Corriere, la Stampa, l’Unità e Repubblica. Il direttore de l’Unità
era Walter Veltroni, alla Stampa c’era Ezio Mauro, il caporedattore di
Repubblica era Antonio Polito.
Titoli
concordati - Tra i quattro giornali si stabilì un vero e proprio patto di
consultazione che li rendeva fortissimi: ci si sentiva due o tre volte al
giorno, si concordavano le campagne, le notizie, i titoli. Il punto di
riferimento di tutti era Paolo Mieli». Paolo Mieli ed Ezio Mauro non hanno
confermato, ma Antonio Polito sì: «Le cose funzionavano pressoché come
dice Sansonetti… il governo perse in pochi mesi una decina di ministri che si
dimettevano subito, appena ricevuto l’avviso di garanzia, anche per via delle
nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l’opinione
pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme… Quella
scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico
oggi».
In
effetti stiamo parlando di roba di vent’anni fa. Che cos’è cambiato, da allora?
Molte cose, compreso un diluvio di intercettazioni che ai tempi non c’era, e
che oggi, troppo spesso, si accompagna a procedimenti che poi non reggono il
vaglio dei processi. Quelli dei tribunali, almeno: i processi imbastiti sui
giornali funzionano ora come allora.
Filippo Facci
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