mardi, juillet 03, 2012

Un sogno fino alla Casa Bianca e… Ritorno a casa da un figlio adolescente Perché Anna-Marie è una di noi

Un sogno fino alla Casa Bianca e… Ritorno a casa da un figlio adolescente Perché Anna-Marie è una di noi

corriere.it   20120703


Un sogno fino alla Casa Bianca e… Ritorno a casa da un figlio adolescente Perché Anna-Marie è una di noi

Quel mercoledì sera, il presidente Barack Obama e la moglie Michelle hanno accolto gli illustri ospiti a un ricevimento elegante presso il Museo di storia naturale. Con in mano un calice di champagne mi aggiravo tra i dignitari stranieri, intrattenendomi con varie personalità. Eppure inutilmente cercavo di scacciare dalla mente il pensiero di mio figlio quattordicenne, in terza media da appena tre settimane, che già manifestava il solito comportamento burrascoso: non faceva i compiti, disturbava la classe, prendeva brutti voti in matematica e si mostrava apatico e indifferente verso tutti gli insegnanti che cercavano di aiutarlo. Nel corso dell’estate avevamo a malapena scambiato poche parole, io e lui – o meglio, era lui che a stento mi aveva rivolto la parola”.
Anne-Marie Slaughter ha deciso di dire la verità. E il coming out della super-prof di Princeton chiamata ad alti incarichi di governo potrebbe stare tutto in questa bella sequenza cinematografica – gli Obama e i potenti d’America, conversazioni istruite e luci soffuse, gli spazi immensi del museo newyorkese, il vuoto dentro per un figlio brufoloso in crisi – che apre un recente e già storico trattato di oltre trenta pagine pubblicato su Atlantic. Un manifesto su leadership e parità intitolato provocatoriamente
“Perché le donne non possono avere tutto”
nel quale l’autrice indica un percorso possibile per tutta la società, per uomini e donne, genitori e non. Un documento che pare destinato a spostare la riflessione in corso sulle politiche di conciliazione nel mondo occidentale. E che, come racconta Alessandra Farkas sul Corriere, ha riacceso gli animi delle femministe storiche americane e aperto un dibattito che ha coinvolto blog e media tradizionali.
“E’ ora che le donne in posizioni di potere riconoscano che, benché impegnate a sfondare soffitti di cristallo, molte di noi contribuiscono a ribadire una falsità, ovvero che “farcela nel lavoro e nella famiglia” dipende, più di ogni altra cosa, dalla caparbietà personale”.

Qualsiasi madre che lavora lo sa: c’è una non-scelta all’origine dei tanti, troppi, passi indietro professionali delle donne. Quando tutto, a cominciare dalla struttura del tempo del lavoro, ti gioca contro ti è anche fin troppo chiaro il perché “non puoi avere tutto”.
Se però a puntare i piedi è una vera leader, una ascoltata da Michelle Obama e Illary Clinton e dalle ventenni universitarie, icona di colei che ha quasi tutto, figli, amore, potere, studenti adoranti, amici, un bel sorriso e un gran cervello, qualcosa allora sta già cambiando.
“A un certo punto ho capito: avevo passato una vita dall’altra parte della barricata a far sentire in colpa, sia pure involontariamente,milioni di donne, se non riuscivano a farsi strada nel lavoro come gli uomini e in più essere madri presenti e in gamba. Mantenendosi, è ovvio, sempre magre e belle”, scrive la giurista che ha lasciato dopo due anni il lavoro dei suoi sogni a Washington – è stata la prima donna a capo del “Policy Plannig” del dipartimento Usa degli affari esteri – per tornare a Princeton dalla famiglia.
Prima di addentrarsi nella sua storia, della quale non cela le pieghe più intime, Slaughter chiarisce: “Parlo al mio pubblico” intendendo forse con esso l’inarrivabile inner circle ma il messaggio è universale perché
“le donne sono capaci di comandare e meritano pari diritto di rappresentanza nella leadership della nostra società”.
Per tornare a dire in chiusura del documento che
“sarà necessario mettere una donna alla Casa Bianca per migliorare la condizione delle cassiere nei supermercati”.
Dunque, riavvicinarsi ai figli e rallentare la carriera, per Anne-Marie Slaughter vuole dire “insegnare a tempo pieno all’Università, scrivere analisi di politica estera su stampa e online, presentare 40-50 relazioni all’anno, partecipare regolarmente a dibattiti radio e televisivi, e mettere un nuovo libro in cantiere”. Eppure vuoi mettere con la vita fatta a Washington? Racconta l’ex capo-dipartimento:
Sapevo di essere privilegiata nelle mie scelte professionali, ma non avevo nessuna idea di quanto fossi fortunata finché non ho trascorso due anni a Washington, imprigionata da una burocrazia rigida, malgrado la presenza di superiori molto comprensivi come Hillary Clinton e il suo capo di gabinetto Cheryl Mills.
La mia settimana lavorativa cominciava alle 4.20 del lunedì mattina, quando mi alzavo per prendere il treno delle 5.30 da Trenton a Washington, e finiva il venerdì, in tarda serata, con il viaggio di ritorno. I giorni intermedi erano zeppi di incontri, e dopo gli incontri cominciava il vero lavoro: un fiume interminabile di appunti, relazioni, analisi e in più la correzione delle bozze dei colleghi. Per due anni, non ho mai lasciato l’ufficio prima dell’orario di chiusura dei negozi, e ciò voleva dire che tutto il resto, dal lavasecco alla parrucchiera agli acquisti natalizi, era rimandato al fine settimana, tra le attività sportive dei ragazzi, le lezioni di musica, i pranzi in famiglia e le chiamate in teleconferenza. Avevo diritto a quattro ore di ferie per ciascun periodo lavorativo, il che equivaleva a una giornata libera al mese. E non mi lamentavo, perché le cose mi andavano meglio che a tanti altri colleghi a Washington. Il segretario di stato Clinton si presentava in ufficio verso le 8 e andava via alle 19 proprio per consentire ai suoi collaboratori di trascorrere qualche ora in famiglia la mattina e la sera (anche se lei iniziava a lavorare molto prima, da casa, e proseguiva ben oltre l’orario d’ufficio).
In breve, nel momento stesso in cui mi sono ritrovata a svolgere un lavoro tipico per la stragrande maggioranza delle lavoratrici (e dei lavoratori), e cioè a dedicare molte ore ai compiti che mi erano stati assegnati, non sono più riuscita a fare la madre e la professionista come avrei voluto – specie con un ragazzo che attraversava i momenti più turbolenti dell’adolescenza. E così mi sono accorta di un’ovvietà: riuscire a farcela, perlomeno nel mio caso, dipende quasi interamente dal tipo di lavoro svolto. Ma la verità più difficile da digerire sta nel rovescio della medaglia: in molti settori lavorativi, tra cui gli incarichi governativi ai massimi livelli, per una donna non è possibile “farcela”, certamente non nel lungo periodo.
Al finale già scritto ( “Le donne potranno conciliare famiglia e carriera solo quando avranno la facoltà di impostare il loro orario di lavoro, in totale autonomia”) l’ex preside di giurisprudenza arriva con un racconto che ci inchioda alla lettura.
Tra le molte fortune (fortune?) della vita di Slaughter c’è pure quella di unmarito dedicato come e più di lei alla famiglia. Senza “Andy” – trattasi di Andrew Moraskvcsk, anche lui stimato professore a Princeton –Anne-Marie, non sarebbe andata a Washington.
E’ il papà che si è “dedicato ai compiti, imparato a memoria il copione della recita scolastica, preparato la pietanza tipica er la festa dei sapori, fatto il tifo alle partite di baseball”.
Tuttavia, anche “la tesi che le donne possano dedicarsi alla carriera purchè ci siano a casa i mariti o compagni a occuparsi della prole” mostra qualche limite secondo Slaughter che, anzi, consapevole di scivolare “su una china pericolosa e disseminata di pregiudizi” afferma: “Nella mia esperienza le cose non stanno affatto così”.
Il punto è che “donne e uomini reagiscono in modo assai diverso quando i problemi che insorgono in casa li costringono ad ammettere che la loro assenza fa soffrire i figli o per lo meno che la loro presenza potrebbe migliorare la situazione”. Anche questa, in definitiva, per le donne che per lo più rispondono a un imperativo materno assai radicato si tratta, alla fine, di una non-scelta.
“Il leader maschi vengono regolarmente elogiati per aver sacrficato la loro vita personale sull’altare del servizio pubblico. E quel sacrificio riguarda quasi sempre la famiglia”.
“Non mi è chiaro fino a che punto questa struttura etica sia rilevante per la società – è l’affondo di Slaughter – Perché mai dovremmo chiedere ai nostri leader di sottrarsi alle responsabilità personali? E invece proprio quei leader che hanno maggiormente investito il loro tempo nella cura della famiglia potrebbero rivelarsi molto più sensibili al peso delle loro politiche, dalla guerra alla previdenza sociale”.
E ancora non basta, perché Anne-Marie la dice proprio tutta sulla sua fuga da Washington, facendo imbufalire le colleghe coetanee, donne nate negli anni ’50 e come lei cresciute nel credo femminista americano.
 “Non avevo semplicemente bisogno di andare a casa: mi sono accorta che, dentro di me, lo desideravo intensamente. Volevo poter trascorre il tempo con i miei ragazzi negli ultimi anni, prima dell’ università, gli anni cruciali per il loro sviluppo in adulti responsabili, impegnati e felici. Ma questi sono anni insostituibili anche per me, per godermi le semplici gioie di essere madre – le partite, i saggi di pianoforte, la colazione a casa, le gite in famiglia, le festività tradizionali. Mio figlio maggiore è molto migliorato in questi mesi ma anche quando ci fa dannare, come è normale che sia per un adolescente, essere a casa per aiutarlo a prendere le sue decisioni rappresenta per me il compito più gratificante”.
E’ quest’ultimo il nervo scoperto delle femministe americane, insorte alla pubblicazione di “Perché le donne non possono (ancora) avere tutto”; riconoscere la fatica e a volte l’impossibilità di mettere assieme dignitosamente il ruolo di capo di dipartimento e quello di mamma di un adolescente.
Qualcosa ci sfugge, al di qua dell’Oceano, quando leggiamo di un gruppo di professoresse associate che si presentò alcuni anni fa in grande agitazione nell’ufficio di Anne-Marie Slaughter, allora preside di Giurisprudenza.
“Deve smetterla di parlare dei suoi figli – le hanno detto – Lei sminuisce la serietà dell’incarico che ricopre e questo è tanto è più lesivo in quanto lei è il primo preside donna di questa facoltà”.
Da quel momento in poi, Anne Marie Slaughter non ha fatto altro che parlare fieramente dei suoi figli in ogni occasione pubblica. Ma oggi fa molto di più. E per una volta ci piace esser bollate come mamme italiane. O meglio per dirla con Maria Laura Rodotà:
“Anne-Marie è una di noi, il figlio che sbrocca è uno dei nostri”.
Così Conclude il suo manifesto la professoressa di Princeton:
“se vorremo conquistare la parità come leader dovremo smettere di accettare il comportamento maschile e le scelte maschili come norma ideale cui aderire. Dobbiamo insistere per cambiare le politiche sociali e modificare le nostre carriere in modo da soddisfare anche le nostre esigenze. Non mancano gli uomini che appoggiano la nostra causa. Mio marito è d’accordo me”.

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