vendredi, février 18, 2011

Perché sempre due pesi e due misure?

Il Riformista
Perché sempre  due pesi e due misure?

di Antonello Piroso  ilriformista.it   20110218


Ma perché? Ma perché se difendo il diritto di Repubblica e del Giornale di fare tutte le inchieste che vogliono, non accodandomi però alle loro campagne, magari dissentendo, divento automaticamente un lacchè (di Berlusconi o di De Benedetti, a seconda di chi mi critica)?
Ma perché? Ma perché se difendo il diritto di Repubblica e del Giornale di fare tutte le inchieste che vogliono, non accodandomi però alle loro campagne, magari dissentendo, divento automaticamente un lacchè (di Berlusconi o di De Benedetti, a seconda di chi mi critica)?
Ma perché se a Sanremo Luca e Paolo irridono gli eterni duellanti, cioè Fini e il Cavaliere, con una parodia intitolata “Ti sputtanerò”, cantata sul palco dell’Ariston (dettaglio non trascurabile, e segno di un mutamento dei nostri costumi che può dispiacere, e a me dispiace, ma c’è ed è stupido negarlo), va bene, ma se poi la sera dopo sfotticchiano Roberto Saviano e Michele Santoro va molto meno bene, anzi: va male, perché è chiaro che sono stati obbligati a una sorta di “par condicio”, declassando subito i due artisti a servi sciocchi, o inutili idioti, che avrebbero subito il diktat senza protestare?

Ma perché se dico che l’uso e l’abuso delle irruzioni telefoniche nelle trasmissioni a lui sgradite da parte di Berlusconi mi disturbano, mi irritano e infine mi sorprendono pure (visto che le considero controproducenti e un solido contributo al “martirologio” del conduttore di turno) va bene, ma va molto meno bene se ricordo che mi infastidì, e parecchio, anche la telefonata altrettanto irrituale di Rosy Bindi nella sua qualità di ministro della Salute a uno spaesato Fabrizio Frizzi colpevole di ospitare Gianfranco Funari critico verso la sanità pubblica?

Ma perché se prima l’opposizione chiede al Capo dello Stato di non indire le elezioni politiche, neanche nell’ipotesi di un’evidente paralisi dell’attività parlamentare (magari perché alla Camera rischia di costituirsi una maggioranza diversa da quella che si realizza al Senato, o viceversa), dal momento che si deve verificare se vi siano le condizioni di andare comunque avanti nella legislatura con un governassimo, o un esecutivo tecnico, e dopo la stessa opposizione - magari confidando su sondaggi, volatili per definizione, finalmente favorevoli - chiede allo stesso Capo dello Stato di indire subito le elezioni perché così non è più possibile andare avanti (facendo finta di non ricordare che la spallata al governo Berlusconi - nata sull’onda della deflagrazione del rapporto tra il premier e Fini - il 14 dicembre non è andata a buon fine, come non andò a buon fine la spallata che Berlusconi portò contro il governo Prodi nell’autunno 2007, spallata poi realizzata da Walter Veltroni che annunciò la volontà del neonato Pd di andare da solo alle elezioni), io non posso rilevare la palese e strumentale contraddizione tattica, senza che per questo mi sfugga l’obiettivo strategico finale, cioè la cacciata dell’Usurpatore da Palazzo Chigi, essendo sempre stato il Cavaliere considerato tale da quella parte di intellighenzia “de sinistra” che la sera legge Kant («e cosa dovrebbe leggere, la Settimana enigmistica?» ha ironizzato sul Fatto Quotidiano il direttore di Repubblica Ezio Mauro, bollando di fatto le migliaia di lettori della rivista, tutt’altro che ignoranti per di più, come irrecuperabile “popolo bue”)?

Ma perché se Guido Calvi, per anni parlamentare del Pci fino ai Ds, e oggi componente del Csm, ragiona sui rapporti perversi tra una certa giustizia e una certa informazione, sostenendo che lo scambio continuo tra pm e giornalisti «nuoce alla formazione della prova» (che dovrebbe avvenire solo nel processo, e invece ormai si considera acquisita una volta che la notizia del presunto reato arriva sui giornali o in tv), e che la propalazione in tempo reale delle intercettazioni «è una vergogna» - posizione non dissimile da quella espressa da Luciano Violante, autorevole esponente del Pd, che ha bollato l’andazzo dello sputtanamento a mezzo stampa come un «unicum» italiano - viene subito portato sul banco dei virtuali imputati con l’accusa di «intelligenza con il nemico» e impiccato per alto tradimento delle posizioni, corrette e indiscutibili per antonomasia, dei manettari che sulla pubblicazione degli atti istruttori hanno costruito le loro modeste carriere?

Ma perché nel recensire positivamente “Gli imperfezionisti” di Tom Rachman, un libro che «racconta noi giornalisti per quello che siamo», con i nostri pochi splendori e le nostre troppe miserie, Repubblica riesce ieri a rilevare che manca qualcosa, ovvero la raffigurazione delle «ultime mutazioni genetiche determinate dallo scontro di inciviltà tra fazioni contrapposte e dal fervente desiderio di servire», dimenticando di segnalare quanto rilevato tre mesi fa (quando la sua opera è stata recensita dal Foglio) dallo stesso Rachman, collega che ha lavorato per anni a Roma e che ha studiato alla eccelsa scuola di giornalismo della statunitense Columbia University, a proposito di un’altra «mutazione genetica» avvenuta nella nostra professione alle nostre latitudini: «i giornali italiani sono ossessionati da litigi politici irrilevanti che interessano soltanto ai politici e agli altri giornalisti» e si smascherano malefatte soltanto «quando i magistrati passano le carte ai giornali»?

Ma perché, in nome di una avversione “senza se e senza ma” al modello politico, culturale, sociale, imprenditoriale ed editoriale di Silvio, dovrebbe starmi bene l’essere o venire intruppato in un fronte popolare composto non solo da persone stimabili come Enrico Letta o Matteo Renzi, con le quali si può provare ad andare oltre lo stucchevole antiberlusconismo di maniera, ma anche da figuri con i quali non c’è alcuna affinità elettiva, per quanto sono beceri, ottusi, cialtroni e pure paraculi nella difesa della loro rendita di posizione spacciata per un sovrano e disinteressato amore per le sorti del popolo italiano?

E perché se il popolo va alle urne e, al 51 per cento (percentuale convenzionale per indicare la maggioranza assoluta: per quella parlamentare basta molto meno, grazie all’orrenda legge “porcella”), non si esprime secondo i nostri desiderata, lo dobbiamo considerare irrimediabilmente e antropologicamente perduto, mentre se lo fa è un esempio di virtù e di operosa rettitudine? È dunque solo quel 2 per cento che fa la differenza tra la vittoria e la sconfitta a segnare la nostra salvezza morale o la nostra condanna eterna?


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