lundi, février 07, 2011

Inchiesta fra ragazze sulla questione delle mutande: tenerle o toglierle? E toglierle, se non ora, quando? Né Maria Goretti né Boule de Suif, forse entrambe

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Inchiesta fra ragazze sulla questione delle mutande: tenerle o toglierle?
E toglierle, se non ora, quando? Né Maria Goretti né Boule de Suif, forse entrambe


di redazione (inchiesta)   ilfoglio.it   20110207


"Se un uomo si dichiara femminista non c’è un minuto da perdere: su le mutande e via, senza pensarci un minuto”. Lo scriveva Natalia Aspesi nel 1978 in “Lui! Visto da Lei” (Bur), quando la faccenda dei femministi (signori che in questi giorni si sentono offesi non per la propria, sempre intatta, ma per la nostra dignità) e la questione delle mutande (tenerle o toglierle, e toglierle, se non ora, quando) sembrava perfino più semplice di adesso. La liberatoria certezza, volendo andare un po’ a slogan, “né puttane né madonne, siamo solamente donne”, non è più così certa, poiché si corre a specificare, in appelli, piazze e cambi di foto su Facebook in cui si mette Virginia Woolf al posto della nostra faccia forse non sufficientemente dignitosa, che non siamo per niente zoccole. “Le femmine d’Italia son disinvolte e scaltre e sanno più de l’altre l’arte di farsi amar. Nella galanteria l’ingegno han raffinato: e suol restar gabbato chi le vorrà gabbar”: Gioacchino Rossini (“L’italiana in Algeri”) amava le femmine d’Italia, e anche qui le si adora e si sa che non resteranno gabbate, costrette a dividersi fra ragazze per bene e ragazze per male, a essere “madonne” (madonnina infilzata, mi chiamava mia nonna quando mi lagnavo di qualche terribile ingiustizia, paragonabile a quelle che Luciana Castellina, magnifica fondatrice del manifesto, annotava quindicenne nel suo diario, appena uscito per Nottetempo: “Le maledette tette sono ancora solo accennate”).

Le femmine d’Italia non si divertono con lo spettacolo spiato ad Arcore e nei telefoni cellulari circostanti, non sostengono ringhiando, tendenza Santanchè, che non ci sia nulla di cui parlare (e si potrebbero scrivere nuovi romanzi su uomini che, si infiamma la scrittrice Barbara Alberti, “pagano le donne per non entrare in intimità con loro, che non sanno cos’è il sesso”); osservano Ruby con il politicamente scorretto istinto di darle due schiaffi materni e chiuderla in casa la sera coi mutandoni di lana. Ma mai mai mai con disprezzo anti femminile, mai con il senso dell’onta di genere, mai con il santino in mano di Maria Goretti, per dare ragione oggi a Enrico Berlinguer che la proponeva, allora, alle compagne come modello di femminilità da copiare. Anna Bravo, femminista e storica del movimento delle donne (raccontato in “A colpi di cuore”, Laterza), spiega: “Non partecipo ai movimenti di questi giorni, non ho firmato alcun appello e non andrei mai in piazza contro altre donne. Mi dispiace che non riusciamo a inventarci qualcosa di bello, di vitale, di diverso, qualche forma di disturbo della mascolinità, invece di continuare ad autopunirci”. Luisa Muraro, filosofa e femminista, ha detto una cosa assai chiara: “Sono molto critica verso la separazione fatta da Concita De Gregorio fra quelle che non si prostituiscono, alle quali lei si rivolge, e quelle che si prostituiscono, escluse da ogni considerazione. Io sono impegnata politicamente per la libertà femminile e lotto contro ciò che la ostacola: la ostacolano gli uomini che usano i loro tanti soldi per ridurre il corpo femminile a merce; ma le donne che vanno a questo mercato, io sostengo, hanno una soggettività che non mettono in vendita e perciò vanno prese in considerazione. Altrimenti, dalla politica si scade nel moralismo”.

Quelle che si ricordano le lotte per la libertà di allora si arrabbiano adesso: “Ci eravamo giurate trent’anni fa di non fare mai politica a spese delle donne, e adesso guarda, le divisioni fra buone e cattive”. Continua Anna Bravo: “Non sentivo cose del genere da quarant’anni. Le cattive e le buone, le puttane e le sante: non fatemi diventare perbene e santa, vi prego”. Le femmine d’Italia non vogliono essere sante (“Sono una femminista, non una donna per bene”, dice la scrittrice e giornalista Paola Tavella; “Una donna non può star bene se non è anche un po’ per male”, Anna Bravo), e basta Colette per capire che la tentazione ha molte sfaccettature, e la faccenda delle mutande, tra l’altro, ognuna di noi la porta dentro nel modo che sceglie, e con i segreti che ha.

Intervistata post festini di Arcore, Natalia Aspesi, che pure ha firmato appelli e ha fatto su MicroMega il ritratto della donna del berlusconismo, ha ripetuto una sua convinzione antica: “Credo che essere un puttanone debba dare tante soddisfazioni… Non lo so, io non lo sono stata purtroppo. Per essere un puttanone prima di tutto bisogna essere bellissime, io ero bruttarella ma mi sono molto divertita lo stesso, adesso sono vecchia purtroppo. Spasimanti ne ho avuti, ma i puttanoni ne hanno tanti. Non ritengo che essere un puttanone sia negativo, è una forma di potere che si può esercitare finché si è giovani. E siccome quel tipo di vita fa parte della vita di una donna da sempre, io non mi sento offesa, è il contesto che mi offende. La seduzione riguarda la vita di tutte le donne e, in caso di lavoro, convincere delle proprie capacità anche con il corpo, va benissimo, capita spesso e talvolta è anche molto piacevole: i capi non sono tutti vecchi e brutti. Si può fare il puttanone nel periodo di preparazione a quel che sei, che diventerai, può essere divertente, ai miei tempi purtroppo non si usciva neanche la sera, ma ci deve essere poi il tempo di fare la propria strada e non si può stare in un Consiglio regionale a venticinque anni per quel tipo di meriti. Certo, la storia ci dice che se queste ragazze fossero più sveglie avrebbero in mano non solo il premier ma tutte noi. Ho sempre come esempio le amanti del Re Sole, belle e intelligentissime”.

La scrittrice trentenne Chiara Gamberale ha in mente Honoré de Balzac, “Splendori e miserie delle cortigiane”, e il padre di Anna Bolena che, nella serie televisiva americana “I Tudors” le consiglia di mettersi nel letto del re (“Tu saprai come farlo impazzire”: sembrano i parenti delle ragazze coinvolte nelle notti di Arcore), e Anna Bolena stessa che quando capisce che la preferita è diventata un’altra, Jane Seymour, fa girare pettegolezzi sulla virilità del re. “Quando c’è un uomo con un forte narcisismo – dice la Gamberale – va da sé che attiri un certo tipo femminile, che cerca lo sfruttamento reciproco e mai il confronto: il narcisista vuole possedere, ma appena ha posseduto deprezza ciò che ha, e intanto le cortigiane mirano alto, vogliono il potere, la corona, il rituale della vestizione. In questa storia dei festini di Arcore posso sentirmi offesa come cittadino, perché mi tolgono qualcosa che è mio quando Nicole Minetti viene nominata nel Consiglio regionale della Lombardia, ma non come donna, perché il modo che hanno le ragazze di Arcore di gestire la loro femminilità non toglie niente al mio”.

A proposito di cortigiane, in un meraviglioso libro di Benedetta Craveri, “Amanti e regine” (Adelphi), Madame du Barry, prostituta dei bassifondi sedusse Luigi XV e “non si fece intimidire dal suo regale cliente e si comportò con la sfrontata sicurezza di una professionista dell’eros, decisa ad avvalersi di tutti i segreti del mestiere. A cominciare dal suo celebre ‘baptême d’ambre’, che faceva sempre molto colpo”, e che qui non si intende dettagliare. Luigi non poté più fare a meno di lei e la impose a corte, dove divenne “maîtresse en titre” (finì ghigliottinata, dopo la Rivoluzione, proprio lei, figlia del popolo che non aveva mai conosciuto l’orgoglio aristocratico). Si dà e si chiede, si offre e si pretende, il mondo è rigonfio di questi scambi, i letti per fortuna non possono ancora parlare, e Michela De Giorgio, studiosa del movimento delle donne, che guarda l’Italia da Berlino e sta scrivendo adesso un libro intitolato: “La bella italiana, storia del corpo femminile dall’Unità a oggi”, racconta le sartine torinesi di inizio Novecento, indagate nel libro di Robert Michels, “Dove va la morale sessuale”, del 1912: osavano portare i cappelli che le midinette parigine non portavano, si concedevano ai clienti nei caffè, nelle sale da ballo, per una borsetta e un cappotto da cinque lire, e contravvenivano al divieto di confezionarsi abiti uguali a quelli che facevano per le signore. Scambiavano favori con favori, consapevolmente, e senza farsi chiamare puttane”.

Secondo Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi “ad Arcore c’è stato uno scambio nel quale, piaccia o no, quelle ragazze erano la controparte. Il femminismo ha pure lavorato per riconoscere l’autonomia di ogni donna: non esiste un modello unico di comportamento femminile. Care sorelle di sesso, certo c’è da discutere sul fatto che alcune o numerose donne scelgano di vendere il proprio corpo a chi ha tanto potere per ricavarne vantaggi. Ma cerchiamo di non ricadere nella misoginia e nel moralismo. Anche perché mentre le brave ragazze vanno in Paradiso, le cattive sono dappertutto”. E allora, se bisogna stare da qualche parte, viene l’istinto di mettersi fra le cattive: “Se andrò alla manifestazione, mi metterò dietro lo striscione delle prostitute”, dice Ritanna Armeni, giornalista, scrittrice e femminista. “Istintivamente ero contro questi appelli, contro la manifestazione: le donne non hanno niente da cui difendersi, lo squallore è maschile e fastidioso esteticamente. Capisco e ascolto però nelle giovani donne, questo senso profondo di ingiustizia, come se solo le belle avessero diritto a qualcosa in più, ma non possiamo proporre in alternativa un modello morale, punitivo, sacrificale: da una parte le puttane, l’infima minoranza da cui distinguersi, e dall’altra quelle che faticano ad arrivare a fine mese, le precarie, le sante, le laboriose, le pure. Sai che soddisfazione: è un errore, dobbiamo invece proporre alle donne un modello di leadership, non l’infelicità. L’iniziativa delle donne che si sentono offese nella dignità e che prendono le distanze dalle ragazze di Arcore rischia di abdicare a quanto di eversivo e rivoluzionario c’è stato nel femminismo”.

Ritanna Armeni è arrabbiata. Sia con le donne politiche di destra che negano il problema (“vorrei che il ministro Carfagna dicesse qualcosa invece di rinchiudersi nel proprio perbenismo”), sia con le femministe di allora che “non possono non capire che un’iniziativa del genere ci rende di nuovo subalterne a un modello bacchettone, che la persecuzione delle ragazze dell’Olgettina distrugge il significato eversivo delle nostre lotte di allora, quel che abbiamo costruito. E’ come vedere ritornare l’esempio sacrificale, che è quello con cui sono cresciuta io e che detesto: dovremmo proporre l’audacia, il coraggio, andare alla conquista del mondo per farlo come piace a noi”. Marina Terragni, giornalista e scrittrice, vuole andare all’attacco: “Ecco, se invece di scendere in piazza per dire che le donne hanno una dignità si scendesse per dire che questo paese ha già una premier bell’e pronta, ed è Rosy Bindi, forse sarebbe meglio”. Rosy Bindi secondo Barbara Alberti (inferocita con le ragazze di Arcore non per perbenismo ma perché “credo che si possano permettere delle avventure più esaltanti, che possano usare il libero arbitrio per qualcosa di meglio”) è anche infinitamente più bella del premier, che pure osa prenderla in giro, “stupenda, con quella faccia da monaca che sprizza salute”, e la indiscutibile bellezza, anche se gonfiata a dismisura, accomuna insieme alla giovinezza le ragazze dello scandalo (“Più sei giovane più sei adatta a fare il puttanone: dopo diventa ridicolo”, spiega Natalia Aspesi).

Secondo Sigmund Freud, ricorda Michela De Giorgio, “le romane sono le più belle di tutte, ognuna è una statua”. Franca Fossati, femminista, nota che fra le donne giovani, fra i venticinque e i trent’anni, grava sulla bellezza un senso di ingiustizia e spaesato rancore: ho le gambe corte e non sono bella come la Carfagna, che sarà di me?, e da un sondaggio di Renato Mannheimer emerge una triste assenza di sogno: vorrei insegnare all’università ma finirò per fare la commessa, vorrei andare sulla luna ma starò seduta in un call center, “una cosa che ai nostri tempi non esisteva: eravamo tutti protesi ad affermare la nostra individualità, pensavamo di cambiare il mondo, nulla ci preoccupava e nulla avrebbe potuto deprimerci, c’era una generale incoscienza che però potevamo permetterci, e le belle magari andavano a letto con il leader, ma non si conquistavano per questo posizioni di potere, suscitavano la solita invidia che suscitano le belle e basta”. Il problema è il senso di nulla, di vuoto, un orizzonte plumbeo e ristretto che toglie luminosità, ma “Concita De Gregorio, con il suo appello, non propone nulla se non un grigiore rancoroso che non fa bene alle donne, non le scuote, ma anzi le incita a lamentarsi e a prendersela con altre donne, contribuendo perfino a coltivare il tabù della prostituzione, dalla quale in realtà nessuna donna può tirarsi fuori. E come al solito non c’è un pensiero maschile, ma si rovescia tutto su di noi: siamo noi che dobbiamo pensare, indignarci, farci il controcanto, manifestare”.

Gli uomini, in effetti, si indignano al massimo per la nostra dignità violata, ma mai li ha sfiorati l’idea di interrogarsi sulle proprie debolezze (“La mia parte femminile è molto incazzata”, ha detto Tiziano Scarpa, e Michele Placido si sente offeso da Arcore “in quanto compagno di una donna giovane”), lasciano alle femmine d’Italia il compito di arrabbiarsi per qualcosa che riguarda gli uomini molto da vicino (in una famosa osteria di Trastevere, l’altra sera, un gruppo di ragazzi molto rumorosi ha alzato i calici per Nicole Minetti, “un genio, un idolo”, e alcuni signori sinceri hanno ammesso nell’intimità, dopo aver controllato l’assenza di cimici dalla stanza, che “non si può dire ma lei è il sogno di tutti gli uomini: paga le bollette, porta le amiche, è automunita”). Anche per questo Paola Tavella dice: “L’onta ricade sulla sessualità maschile, non certo sulla mia. Non vado in piazza perché ho smesso di pulire dove i maschi sporcano quando ero ancora una ragazzina”.

Barbara Alberti riporta alla memoria una bellissima novella di Guy de Maupassant, “Boule de Suif”, in cui una rubiconda prostituta, in fuga da Rouen invasa dai prussiani, nel 1860, è all’inizio mal tollerata dai compagni di viaggio, che però accettano il cibo che lei porta nel cesto, poi spinta a concedersi a un ufficiale prussiano che altrimenti non li lascerà passare. Lei non vuole perché è patriottica, ma si immola per la causa, e i viaggiatori “per bene” alla fine continuano a disprezzarla e ad emarginarla, quasi “che l’unico ruolo della donna su questa terra fosse un perpetuo sacrificio della propria persona”. Il perpetuo sacrificio è anche convincersi che fuori dal circuito tette e culi non ci sia speranza per fare qualcosa di bello, perpetuo sacrificio è credere che tette e culi ci offendano e che abbiamo bisogno di mettere Maria Montessori sul profilo di Facebook per significare la nostra diversità (alcune, per allegra protesta anti bacchettona, mettono le pornostar), perpetuo sacrificio è donne contro le donne, donne per bene con la dignità e per male senza la dignità. “Le ragazze di Arcore non mi tolgono nessuna dignità – dice Franca Fossati – sarebbe regressivo pensare che la mia vita e la mia storia personale possano essere oltraggiate da questa vicenda”. “Andare in piazza per dire ‘non sono una prostituta’ ma una giornalista la sento come una miseria troppo grande per una donna – scrive sul blog Marina Terragni – una specie di excusatio non petita che le donne di questo paese non devono sentire di dover dare. Per niente empowering. Mi sentirei ritirata indietro in una miseria femminile che non c’è più, se mai c’è stata. Le donne sono protagoniste della vita sociale ed economica del paese, la miseria è della politica che non si avvale della loro grandezza, della loro forza e della loro intelligenza. E’ questo protagonismo femminile che le nostre figlie devono vedere”. La dignità femminile è cosa troppo seria per perderla in un paio di mutande che volano sull’abat-jour, ma le femmine d’Italia devono essere più scaltre, inventarsi qualcosa di grande, evitare di farsi trattare come Boule de Suif.

In un monologo di Stefano Benni (da “Le Beatrici”, appena uscito per Feltrinelli), c’è una signora benvestita, dall’aria decisa, sta dietro una scrivania-cucina, dietro pentole e documenti, parla al telefono: “Allora, questo favore… sì certo è un onore per te… (rivolta al pubblico) Uffa c’è un limite, io sono circondata da ruffiani, ma questo esagera… Zitto!… Va bene, sono la migliore di tutte, lo so… allora… ho qui una lista di nomi… di rompiballe che vogliono fare la televisione… Attori? Che ne so, sono amici di amici, amanti, reggipalle eccetera… hai solo una parte da centurione? Va bene, è sempre un soldato, va bene…io te lo mando, poi cazzi tuoi”. Arriverà quel momento, saremo al potere, avremo intorno file infinite di adulatori, e saremo molto migliori di così (dopo qualche piccola ma tremenda vendetta).


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