Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese.
Così nasce la “locomotiva”
La ricetta tedesca per passare da "grande malata" a traino
d'Europa: comprimere i salari per favorire le esportazioni. L'ex cancelliere
Gerhard Schröder ha creato sette milioni di "mini-job", contratti
iperflessibili con stipendi da 450 euro netti. E Berlino ha mandato in crisi i
partner dell'Eurozona
La Germania ha fatto le riforme, ha saputo
tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa.
In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella
mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri
cinque anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei
dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti
pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà
solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro,
Berlino era “la grande malata d’Europa”. La
reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni.
Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti
economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate
nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e
un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività.
Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di
disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione
di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte
all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di
prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei
prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi
dell’euro”.
Strana locomotiva. La
politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La
compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non
tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia
commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona:
nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni
pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato
(dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi
periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si
occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche
è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area
euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le
riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale
in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla
rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin
Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak)
presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi
il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio
delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel
2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per
una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrla ricchimonio
nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di
disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di
lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del
Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono
aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo
indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun
nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha
infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”,
contratti iperflessibili da circa 20 ore
settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150
euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco
contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un
massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco”
appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Statoindiretto alle imprese costato
almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento,
riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha
alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a
termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro
l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen
Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha
“denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale:
“Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone
che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito
accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di
mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul
fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8
del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i
politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo
contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita
della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi.
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