dimanche, mai 26, 2013

Per fermare la crisi serve una rivolta

 

Per fermare la crisi serve una rivolta

 

Fermare l'autolesionismo. Scendere in piazza. Rottamare i politici. Il sociologo Revelli: «Rischio di recessione infinita».

 

 

di Antonietta Demurta     lettera43.it   23/05/2013

 

La crisi economica è sempre più sociale. A testimoniarlo è il rapporto annuale 2013 La situazione del Paese firmato dall'Istat e incentrato sulla situazione economica delle famiglie, il cui potere d'acquisto ha registrato una caduta di «intensità eccezionale» (-4,8%). Che ha portato l'istituto di statistica a definire quella dal 2008 al 2012 la più forte riduzione dei consumi dagli Anni 90.
Una fotografia che secondo Marco Revelli, docente universitario di Scienza della politica, economista e sociologo, testimonia come l'Italia sia finita «in una spirale a scendere», dice aLettera43.it, dove «non c'è un punto di rimbalzo se non lo determiniamo noi».

 

SERVE UNA NUOVA CLASSE POLITICA. Per riuscirci è però necessario ritornare all'economia reale, non a quella della finanza e delle banche «che sono la malattia, non la cura». Ma soprattutto «ci vorrebbe una classe politica nuova che viene da un altro mondo rispetto a quello che ha prodotto questi disastri».
Un allarme che il sociologo aveva già lanciato nel 2010 quando nel libro Poveri, noi raccontava come gli italiani fossero convinti di crescere quando invece il declino era in atto. E ora che l'Istat ne ha confermato la caduta libera, avverte: «Questa è una crisi sistemica e se non si interviene con una netta rottura del trend, la situazione potrà solo peggiorare».

 

DOMANDA. Che cosa l'ha colpita di più del rapporto dell'Istat?

RISPOSTA. Il dato più sconvolgente è quello sulla deprivazione materiale che è cresciuto del 9% dal 2010 al 2012. Ci sono famiglie che non riescono più a mangiare adeguatamente, ad arrivare a fine mese e a sostenere una spesa extra.
D. Il 16,6% degli italiani non ha più accesso nemmeno a un pasto decente.
R.
 E l'Istat ha rilevato che la quota è triplicata in soli due anni. Questo ci dà la misura dell'impatto della crisi.

D. Spagna e Grecia non sono poi così lontane?

R. No, basta vedere i dati sull'occupazione. La riduzione del volume di ore di lavoro è inquietante.

D. Soprattutto nel Mezzogiorno: il tasso di disoccupazione supera il 17%, quasi 10 punti più che al Nord. L'eterno ritorno della questione meridionale?

R. Sì, senza contare che il Meridione è in una condizione limite per quanto riguarda tutti gli indicatori di povertà. Nel Sud è concentrata la percentuale più alta di poveri. E non dal 2012, ma dal 2007, prima ancora che iniziasse la crisi.

D. Quando finirà?

R. Il dato più inquietante è che questo rapporto dà l'impressione di una spirale a scendere perché esamina indicatori di disagio che si alimentano a vicenda.

D. Ci spieghi meglio.

R. L'impoverimento della popolazione comporta un deterioramento delle sue condizioni di salute. Così come è destinato a deprimere i tassi di scolarizzazione, perché la riduzione di reddito delle famiglie comporta un disinvestimento nell'educazione dei figli. Fattore a sua volta strettamente correlato con il tasso di povertà, perché chi ha un basso titolo di studio tende a essere più povero o a impoverirsi più facilmente.

D. Nessuna crisi temporanea insomma?

R. Non penso si possa intravedere un punto di rimbalzo in cui la curva inizi a salire. Questi dati danno l'impressione di una crisi sistemica e se non si interviene con una netta rottura del trend, la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente.

D. Dal 2010 si prevedeva un miglioramento, si sono sbagliati?

R. Erano tutte balle, la fine del tunnel non la vede nessuno ed è impossibile da individuare dentro la dogmatica che guida gli orientamenti economici europei. È un meccanismo che non riguarda tanto la riduzione della spesa o il rigore di bilancio che pure pesano, ma i modi e i tempi del pagamento del debito pubblico.

D. Colpa del Fiscal compact?

R. Questo comporta l'esborso di circa 50 miliardi all'anno solo per ricondurre la dimensione del nostro debito pubblico dentro la soglia del 60% del Pil in 20 anni. E si tratta di 50 miliardi di gettito sottratto agli investimenti, ai cittadini e trasferito al sistema finanziario globale. Oltre agli 80 miliardi di interessi sul debito pubblico che ogni anno dobbiamo pagare.

D. Ma come si può spezzare questa spirale?

R. Credo siano due i pilastri. Il primo è una diversa filosofia socio-economica da parte delle istituzioni, a cominciare da quelle europee, che però finora hanno proposto solo formule retoriche e non politiche concrete.

D. Il secondo pilastro?
R.
 Questo Paese avrebbe bisogno di una grande energia morale e politica. Risalire una china così pesante richiederebbe una ventata di entusiasmo o comunque la percezione di una discontinuità.

D. Una bella rottamazione?

R. Sì un nuovo inizio. Invece la nostra politica presenta la continuità con tutti i peggiori passati. È la riconciliazione con i nostri peggiori vizi.

D. Per esempio?
R.
 Non si interroga mai su come spezzare il rapporto perverso tra la sfera finanziaria e l'economia reale.

D. Un rapporto parassitario?

R. La finanza globale è una gigantesca spugna che assorbe le risorse prodotte dall'economia reale e le trasferisce all'economia di carta, anzi di bit. Una massa di ricchezza invisibile che ha continuato a far crescere le Borse. Le gigantesche iniezioni di liquidità che fanno gli Stati Uniti e il Giappone, vanno tutte a finire nel circuito finanziario.

D. Il solito falò delle vanità?

R. Continuiamo a costruire bolle che poi regolarmente scoppiano in faccia alla povera gente.

D. Che ora non ha più alcuno strumento per difendersi?

R. L'Italia aveva assorbito in modo non traumatico la crisi del 1929 perché era un Paese già di per sé povero e prevalentemente agricolo con un costume di coattiva sobrietà. Non aveva ancora vissuto l'ubriacatura del consumismo che ci fu dagli Anni 80 al 2000 e che ha fatto del consumo il tratto principale dell'identità e del legame sociale.

D. Per questo ora il calo dei consumi ha dimensioni così drammatiche?

R. Sì perché abbiamo un crollo verticale delle identità individuali, familiari, dei ruoli, del sistema di relazioni. I cellulari, i capi firmati e la cura del benessere per anni hanno strutturato anche i sistemi di relazione. E nel momento in cui vengono meno lasciano gli individui assolutamente indifesi.

D. Come ha scritto nel suo libro la «modernizzazione è un piano inclinato verso la fragilità e l'arretratezza». Un processo di evoluzione che se si ferma produce involuzione?

R. E macelleria sociale.
D. Quando ci sarà quella vera?
R.
 L'unica minaccia che può smuovere i politici è che ci siano rivolte, moti di piazza. E per quanto possa sembrare una bestemmia, solo se ci fossero davvero potremmo dare una lettura ottimistica della crisi.

D. Perché?

R. Perché vorrebbe dire che in questo Paese ci sono ancora delle energie. Se ci fosse una mobilitazione collettiva, magari anche controllata politicamente, seppure nelle forme non ortodosse delle manifestazioni di piazza, sarebbe comunque una voce.

D. Invece?

R. Temo che questa crisi venga consumata nel privato delle famiglie, che si esprima in micro violenza inter-familiare, a partire da quella nei confronti delle donne, dei soggetti più deboli e dei migranti.

D. O contro se stessi.

R. Il fenomeno del suicidio per ragioni economiche è in scandalosa crescita rispetto al passato. C'è un incremento della violenza individuale non collettiva che diventa anche autolesionismo, depressione, malattia, apatia, disistima di sé, pena dei fallimenti individuali.

D. E il velo della vergogna nasconde tutto?

R. È la forma peggiore, perché uccide il tessuto sociale, resta invisibile e non riesce afarsi ascoltare. Così chi governa continua a fare come se nulla fosse. Tanto anche se qualche milione di persone non va più a votare, loro si spartiscono i voti dei pochi che ci vanno.

D. Non si può spezzare questo silenzio?

R. Le grandi macchine che permettevano di mettere insieme i tanti 'io' e trasformarli in un 'noi' sono a pezzi. La grande crisi del sindacato è evidente. Come quella dei partiti politici, che sino a qualche decennio fa organizzavano la protesta, erano in grado di analizzarla. Ma oggi sono del tutto inadeguati, non stanno più sul territorio, in mezzo alla gente.

D. Al loro posto oggi ci sono le mafie...

R. È questa l'altra faccia della medaglia: le macchine occulte vanno a nozze in queste situazioni, si sostituiscono allo Stato, svolgono un surrogato di compito statale e tendono a peggiorare la situazione.

D. Non c'è nessuna speranza?

R. Ci vorrebbe una classe politica che viene da un altro mondo rispetto a quello che ha prodotto questi disastri, che si sia formata fuori dalle mura di questa città corrotta.

D. La sua è una visione utopistica?

R. No. Per fortuna non siamo un Paese totalmente disfatto. Ci sono ancora delle strutture valide. Penso al ruolo svolto in questi anni dalla Fiom, compresa l'ultima manifestazione del 18 maggio: finalmente abbiamo avuto una piazza, un'occasione collettiva con una presa di posizione. E poi ci sono organizzazioni del volontariato che continuano a presidiare il territorio e monitorare il disagio.

D. Il vero stato sociale.

R. Una supplenza dello Stato non solo per quanto riguarda l'aiuto dato alle famiglie, ma anche per le informazione che danno sul fenomeno. Non avremmo un profilo della povertà se non avessimo il rapporto annuale della Caritas.

D. Dovrebbero essere loro a governare il Paese?

R. Basterebbe che i politici si sturassero le orecchie, invece tentano di fare le leggi per bloccare i colleghi e azioni anche peggiori.

D. Che cosa pensa delle prime proposte del governo in tema di lavoro?

R. Ci sarebbe una mossa principe che avrebbero dovuto dare da tempo: siamo gli unici insieme con Grecia e Ungheria a non avere un reddito minimo garantito. Siamo solo tre su 27 Paesi dell'Unione europea e i risultati si vedono perché siamo quelli messi peggio.

D. Anche perché siamo senza un soldo.

R. Per prosciugare l'intero bacino della povertà assoluta - sono circa 3,5 milioni di italiani - basterebbero 4,8 miliardi di euro. Una cifra consistente certo, ma non fuori dalla portata del nostro Paese.

D. Manca la volontà politica?

R. E la cultura adeguata. Anche se in Europa, gli altri governi hanno un minimo di sensibilità, visto che c'è il reddito minimo garantito. Ma quando devono decidere per gli altri...

D. Non sono sensibili ai dati sulla povertà altrui?

R. No. Lo sarebbero se questo mondo dolente sarebbe in grado di prendere con forza la parola, ma purtroppo come ho dovuto imparare, i poveri non fanno le rivoluzioni.

D. Perché hanno troppa fame per lottare?

R. Perché sono deboli. Non hanno più niente. E le rivoluzioni le fanno quelli che hanno qualcosa da perdere.

Twitter @antodem

 

 

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