lundi, juillet 19, 2010

Il giudice va a cena da solo

Il giudice va a cena da solo


di CARLO FEDERICO GROSSO 16/7/2010 - lastampa.it

Ricordo che mio padre mi diceva che ai suoi tempi era regola indiscussa che il magistrato non dovesse essere «commensale abituale» di coloro nei confronti dei quali amministrava la giustizia.

Non doveva, cioè, coltivare relazioni sociali, avere rapporti di interesse, anche soltanto ostentare amicizie nella città dove aveva l’ufficio. Lo imponeva una regola elementare di prudenza. Poiché egli doveva non soltanto essere, ma ancor prima apparire imparziale, la sua immagine sarebbe stata inevitabilmente intaccata se egli fosse stato visto sedere abitualmente al tavolo degli stessi commensali, frequentare circoli, salotti, cene o cenacoli.

Altra regola sentita era che il magistrato doveva esprimersi esclusivamente con gli atti processuali e le sentenze: non doveva esibirsi, rilasciare interviste, parlare dei suoi processi fuori dalle sedi processuali, cercare a tutti i costi la vetrina. La sua attività doveva essere improntata a grandissima riservatezza. Ogni eccesso avrebbe infatti potuto intorbidire un’immagine che doveva apparire, invece, manifestazione di equilibrato esercizio delle funzioni.

Ulteriore regola di prudenza era che mai il magistrato avrebbe dovuto utilizzare la notorietà comunque acquisita con i suoi processi per tentare la strada di carriere parallele: nella politica, nei ministeri, negli uffici studi dei partiti od in qualunque altro luogo che gli consentisse di avere rapporti ravvicinati con il potere politico. La stessa possibilità d’intraprendere una carriera parallela avrebbe potuto costituire, infatti, motivo di esercizio turbato della sua attività giudiziaria, improntata al perseguimento d’inconfessabili ragioni d’interesse personale piuttosto che al perseguimento dell’interesse di giustizia.

Può darsi che quest’idea di magistrato avulso da ogni profilo di promozione sociale, estraneo ad ogni gioco di potere o d’interessi, lontano dalle ribalte, di magistrato stretto in una carriera necessariamente separata da tutte le altre carriere, fosse un’idea impraticabile, antica, fuori dal tempo. Osservare, e fare rigorosamente osservare, sempre, quantomeno alcune regole di rigore e di prudenza nelle frequentazioni degli appartenenti all’ordine giudiziario, nelle loro esternazioni, nei loro coinvolgimenti politici, nelle loro manifestazioni pubbliche e private, sarebbe tuttavia stato, probabilmente, utile e sacrosanto.

Lo dimostrano le sconcertanti vicende che la cronaca giudiziaria di questi giorni ha portato sulle prime pagine dei giornali e che stanno coinvolgendo taluni magistrati di rilievo. Esse, si badi, non costituiscono d’altronde un caso isolato. Si inseriscono in una sequenza di episodi che, sia pure interessando settori circoscritti della magistratura, hanno ripetutamente connotato le dinamiche del mondo giudiziario. È significativo, ad esempio, che alcuni dei magistrati che sono oggi al centro dell’attenzione mediatica perché coinvolti nell’ultimo scandalo, siano già stati, anni fa, oggetto d’inchiesta da parte del Csm e scagionati, non so se a ragione o a causa del gioco perverso delle trasversalità correntizie. Segno, comunque, che il sistema di controllo interno della magistratura non ha funzionato.

Che dire, d’altronde, della circostanza che fra i soggetti dei quali oggi si mormora vi siano addirittura Primi Presidenti, componenti del Csm, ex Presidenti della Corte Costituzionale? A poco conta che, come sembra, essi non abbiano accolto le richieste d’interferenza che sono state loro rivolte; è già sufficiente, a preoccupare, che tali soggetti abbiano potuto essere anche soltanto avvicinati.

Ciò che è stato, comunque, è stato. Sarebbe importante, ora, che le vicende emerse, e che rivelano l’esistenza di una questione morale interna alla magistratura oltre che al Paese nel suo insieme, forniscano l’occasione per il rinnovamento quantomeno di alcune regole. Mi limito ad accennare ad alcuni temi sui quali occorrerebbe cominciare a ragionare.

Primo. Attenzione al problema dei rapporti fra appartenenti all’ordine giudiziario e società. Non basta, si badi, vietare ai magistrati la frequentazione di ambienti quali quello degli affari, dei partiti, dei cenacoli e delle società segrete. Bisognerebbe, forse, decidere finalmente che il magistrato faccia, e soltanto, il magistrato, e non possa più essere distaccato in un ministero, in un ufficio politico, in un ufficio studi.

Secondo. Massimo rigore nel vietare le esternazioni improprie, le apparizioni televisive e le interviste sui processi in corso, comunque l’autopromozione mediatica.

Terzo. Divieto che un magistrato possa transitare senza scosse dalla magistratura all’attività politica. Se vuole farlo, si dimetta dalla magistratura ed affronti la nuova carriera libero da ogni condizionamento pregresso e futuro.

Quarto. Una riforma dei criteri di selezione dei componenti togati del Csm, per evitare finalmente che le trasversalità correntizie incidano sulla selezione dei dirigenti degli uffici, sulle decisioni disciplinari, su quant’altro potrebbe essere deviato dall’esistenza di rapporti impropri.

È difficile dire chi potrà, oggi, impostare riforme di questo tipo (le riforme di cui sta discutendo il mondo politico sono, al momento, di tutt’altro segno). Potrebbe, forse, essere la stessa magistratura organizzata a farsi carico, in un sussulto d’orgoglio, dei suoi problemi, nel tentativo di un’autoriforma salvifica dei principi di rigore, d’indipendenza e di onestà ai quali dovrebbe ispirarsi, sempre, l’attività dei magistrati.

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