thefrontpage.it 20120808
Sinistra e/a puttane

La verginità perduta di fraulein Buba
di CARLO CLERICETTI repubblica.it 20120827
Eh, sì. Anche lei. Anche la Bundesbank, che oggi impartisce all'Europa e alla stessa
Bce lezioni di teutonica coerenza, anche lei ha peccato, ha infranto il suo sacro statuto
e ha finanziato creando moneta il deficit pubblico tedesco. Lo ha fatto soltanto una volta,
ma una volta è quella che basta a perdere la verginità per sempre. E lo ha fatto
in una situazione che - scontate le debite differenze - somiglia moltissimo alla situazione
dell'Europa di oggi.
A ricordarselo è stato un economista tedesco, Peter Bofinger, a cui ha fatto seguito
una nota di Evelyn Herrmann 1 di Bnp Paribas. Joseph Cotterill 2 ne ha scritto
sul Financial Times e l'economista della Sapienza Mario Nuti 3 ne ha parlato in un suo intervento.
Insomma, la storia si sta diffondendo e di certo il super-falco Jens Weidmann dovrà tenerne conto
prima di sparare la sua prossima bordata contro qualsiasi ipotesi di intervento della Bce
sul problema degli spread e dei debiti sovrani.
Il fatto è avvenuto nel 1975. La Germania era in una pessima situazione congiunturale,
quella che si definisce "stagflazione", ossia stagnazione della crescita (il Pil in quell'anno
arretrò dello 0,9%) e inflazione (i tassi a lungo termine sul debito erano arrivati al 10,74%
nella media dell'anno precedente e tendevano a salire ancora). Nell'estate del '75
la domanda di titoli a lungo termine cadde, perché gli investitori temevano che l'inflazione futura
sarebbe stata superiore ai rendimenti. E allora la Bundesbank, scrive Herrmann, "acquistò titoli,
per un importo pari a circa l'1% del Pil, con maturity 6 anni e oltre" (bisogna considerare
che la maturity è minore rispetto alla scadenza nominale dei titoli). La Herrmann sottolinea che
così facendo la Bundesbank contravvenne al suo statuto, che le vieta la
"monetizzazione del debito", che è ciò che avviene se la Banca centrale compra titoli
del suo paese. E infatti vi furono reazioni politiche negative.
Ma la Bundesbank giustificò la sua mossa, affidando la difesa al suo capo economista e
membro del board: si trattava di Helmut Schlesinger, che in seguito sarebbe asceso
alla presidenza della Banca.
"Le nostre politiche di mercato aperto - affermò Schlesinger - non sono dirette a finanziare
il deficit pubblico, ma solo a regolare il mercato monetario". Chiosa la Herrmann: "In altre parole,
la Bundesbank aveva bisogno di acquistare bond allo scopo di mantenere efficiente il canale
di trasmissione della politica monetaria".
Come, come? Ma questa frase ne ricorda un'altra molto più vicina nel tempo, di appena un mese fa:
La soluzione del problema degli spread, e quindi di rendimenti troppo elevati sul debito sovrano
di alcuni paesi dell'Eurozona, "rientra nel mandato della Bce, nella misura in cui il livello di questi
premi di rischio impedisce la giusta trasmissione delle decisioni di politica monetaria".
Lo ha detto Mario Draghi, presidente della Bce, nella sua famosa conferenza a Londra del 26 luglio,
la stessa in cui ha affermato che la Bce avrebbe fatto "tutto il necessario" per risolvere
la crisi dell'euro; "e, credetemi, sarà sufficiente".
Stesso problema, dunque: si è creata una situazione che impedisce alla Banca centrale
una corretta trasmissione della politica monetaria. E anche la soluzione appare simile: si tratta
di acquistare titoli di Stato, in una quantità "sufficiente" a risolvere il problema. Un atto, dunque,
che non ha a che fare con la mutualizzazione del debito o con la sua monetizzazione,
come la stessa Bundesbank sostenne allora, ma con il compito primo e principale di qualsiasi
Banca centrale, che è quello di rendere efficiente la sua politica monetaria.
Draghi, dunque, ha inquadrato il problema perfettamente, e Weidmann può dargli torto solo
rinnegando la storia recente della sua stessa Banca centrale. Poi, però, il presidente della Bce
ha preso altre due posizioni che sono politicamente abili, ma deleterie
per la sbandierata indipendenza politica della Bce. La prima: gli interventi avverranno solo
dopo una formale richiesta di aiuto da parte degli Stati interessati, a cui saranno poste delle condizioni.
Ma questa è la procedura stabilita per gli interventi dei Fondi "salva-Stati" (Efsf e, quando ci sarà, Esm).
Che c'entra con quello che la Banca centrale ritiene di dover fare?
E se nessuno chiede aiuto la politica monetaria può continuare ad essere inefficace?
Il fatto è che quella era la linea indicata dalla Cancelliera Merkel.
Della quale si è detto che è poi intervenuta ad appoggiare Draghi:
ci sarebbe mancato altro, visto che era stato Draghi ad accettare la sua linea!
La seconda posizione è quella che riguarda l'accesso del Fondo salva-Stati
ai finanziamenti della Bce.
Quasi tutti i commentatori affermano che, per renderlo possibile, va concessa al Fondo
la licenza bancaria e Draghi aggiunge che senza di essa - che è competenza dei governi concedere
- la Bce non può finanziarlo, richiamandosi a un parere legale espresso sulla base
dell'articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea del 2009.
Ebbene, questo non è vero: come sottolinea Mario Nuti, il primo comma di quell'articolo
sembrerebbe in effetti escludere organismi di quel tipo, ma il secondo comma recita: "Il paragrafo 1
può non essere applicato alle istituzioni di credito pubbliche che, nel contesto dell'offerta di riserve
da parte della Banca centrale, potranno avere lo stesso trattamento degli istituti di credito privati".
La Bce dunque avrebbe tutto il potere, a norma di Trattato, per decidere in materia. Se non lo fa
è perché aspetta che sul problema gli Stati si mettano d'accordo, cosa che finora non è avvenuta
essenzialmente per l'opposizione tedesca.
Una seconda, pesante concessione al "primato della politica".
D'altronde, se Draghi siede su quella poltrona non è solo per le sue universalmente riconosciute
capacità tecniche.
Sarà forse il più autorevole tecnico oggi in circolazione nel mondo, ma questo non sarebbe
bastato senza il consenso politico di chi conta di più in Europa, ossia dei tedeschi.
E il realismo insegna che è abbastanza inutile aver ragione, se poi non si riesce a farla valere.
Certo, può arrivare un momento in cui si deve scegliere tra il fare qualcosa che appare
ormai indispensabile e il mantenere una copertura politica a costo di rischiare il disastro.
Speriamo che, quando arriverà quel momento, Draghi scelga bene.
Quelle bufale del pentito
gustose solo per i giudici
Il tribunale del Riesame smonta pezzo per pezzo il teorema
d'accusa che in luglio ha portato in cella il re delle mozzarelle.
"E' lui la vittima dei clan".
Di Stefano Zurlo - Lun, 27/08/2012 - 07:14 ilgiornale.it
Non era vero. Il re della mozzarella Giuseppe Mandara non era in affari
con i clan della camorra. Altro che favoreggiamento. Altro che disponibilità.
Altro che capitali da riciclare. Tutto falso. Tutto costruito su presupposti
inesistenti. Tutto capovolto, in un mondo alla rovescia. Si resta senza parole
nel leggere pagine con cui il tribunale del Riesame di Napoli fa letteralmente
a pezzi l'ordinanza con cui il gip a luglio aveva spedito in carcere Mandara
e dato uno schiaffone a una delle eccellenze del made in Italy. La manette
a Mandara e il commissariamento dello stabilimento di Mondragone avevano
fatto il giro del mondo e ora sarà difficile ricostruire l'immagine, compromessa,
di un prodotto che tutti ci invidiano. Fra l'altro nel groviglio di accuse assemblate
dalla Procura distrettuale antimafia di Napoli era finito davvero di tutto: persino
il presunto cinismo di Mandara che decideva di lasciare in commercio una partita
di formaggi contenente un pezzo di ceramica pericolosissimo per la salute;
e addirittura l'utilizzo di latte di qualità inferiore, vaccino, truffando così
il consumatore.
Il Riesame non affronta direttamente questi episodi ma lo studio attento
delle intercettazioni - incredibilmente Mandara e il suo staff sono stati
ascoltati per anni e anni - fa scricchiolare anche la lettura devastante
arrivata sui giornali.
Il collegio prende di petto Augusto La Torre, il camorrista che, nel 2011,
dopo anni e anni di carcere e l'ennesimo pentimento, ritrova improvvisamente
la memoria e racconta di aver immesso negli anni Ottanta settecento milioni
nel capitale del caseificio di Mondragone. Peccato che la sua confessione
non trovi riscontro nella realtà. Mandara, che ha avuto la sfortuna di operare
in una terra bellissima ma disgraziata, infestata dalla malapianta della criminalità,
si è ritrovato come vicini proprio i La Torre. Forse all'inizio ha coltivato
con leggerezza la loro amicizia, poi è finito, come tanti industriali del Sud,
nell'imbuto delle estorsioni e delle umiliazioni finchè, nel 2003, si è ribellato e
ha avuto il coraggio di denunciare il boss. Ecco allora che lo spartito va rovesciato:
il re della mozzarella non era un complice ma, semmai, una vittima.
«La Torre Augusto - scrive il riesame - -è stato già ritenuto soggettivamente
inaffidabile in più provvedimenti giudiziari e nei suoi confronti si è più volte proceduto
per calunnia. Il programma di protezione in corso fu revocato soprattutto grazie
alla denuncia del Mandara, per la estorsione tentata, commessa in costanza di contratto
collaborativo. La Torre Augusto è, ad avviso di questo collegio, del tutto inaffidabile
nella qualità di teste, la sua storia criminale (per tale intendendo anche l'intervallo
collaborativo che non ha sedato gli entusiasmi delinquenziali del soggetto) è talmente
costellata di costruzioni artefatte (oltre che di estorsioni e di omicidi a dozzine)
da rendere sospetto e non credibile ogni suo movimento labiale ed ogni suo scritto».
Eppure i suoi movimenti labiali, per usare le parole ironiche del riesame, sono i pilastri
di questa inchiesta. Non solo, il collegio fa un calcolo semplice semplice: l'azienda
fu acquistata, nel marzo dell'83, per «215 milioni di lire, dei quali solo 7 pagati in contanti
, tutta la restante
parte pagata con accollo di un mutuo e il rilascio di effetti cambiari». Insomma,
il racconto di La Torre, con quei fantomatici 700 milioni, fa acqua da tutte le parti.
Ma c'è di più, in un crescendo surreale; Mandara è finito in carcere per essere membro
di un clan che però non esiste più da molto tempo: «Si può fondatamente ritenere che
il clan La Torre non sia più operativo da almeno dieci anni. Si è detto altresì che nel 2003
sono cessate le contribuzioni (estorsive) del Mandara al clan. Ebbene il gip ritiene di
applicare la misura coercitiva per la partecipazione di due soggetti( (Mandara e il suo
collaboratore Vincenzo Musella, n.d.r.) ad un clan che non esiste più da oltre dieci anni e,
nel rendere ragione di tale necessità cautelare, scrive che non si rileva alcun elemento
di recisione di tali vincoli. Sono parole - prosegue il riesame - che... non sembrano
potersi spiegare altrimenti che con l'evidenza di un “refuso“, non cancellato dal file
precedentemente in uso». Sconcertante.
E quantomeno controversa è anche la lettura delle telefonate avvenute nell'estate del 2008.
Davvero l'azienda ha messo sul mercato le mozzarelle contenenti un pezzo di ceramica?
Il geometra Pasquale Franzese afferma: «Aspettiamo un attimo». Fino alla mattina successiva,
par di capire. Per poter prima cercare il frammento, che poi non è di ceramica ma di plastica,
all'interno dell'impastatrice e bloccare, semmai in seguito, le mozzarelle sospette, ancora ferme
nel deposito di Pistoia. Ma l'indomani i Nas sequestrano il formaggio. Che quattro anni
dopo è ancora in un frigorifero in attesa di analisi. E anche il campione di latte vaccino, peraltro
percentualmente modestissimo, muove i collaboratori di Mandara, pure loro perennemente
intercettati, all'indignazione nei confronti del fornitore disonesto: «Li minacci- dice una certa
Anna - io il latte non lo prendo più». Vallo a spiegare agli americani e ai tedeschi che ora non
si fidano più delle bufale made in Italy.
L'Europa sta cercando di costruire una diga contro gli eccessi della finanza e lo sta facendo
molto meglio degli Stati Uniti, che per lungo tempo hanno vantato un'efficienza del proprio sistema di regole
e vigilanza che la crisi finanziaria ha dimostrato essere ampiamente immeritata. Il vecchio continente
nel corso dell'estate, ha fatto due passi avanti importanti, mentre la vigilanza americana e in particolare la Sec,
ha segnato due clamorosi autogol. Se fosse una partita di calcio, saremmo quattro a zero per noi.
Nel corso dell'estate hanno preso definitivamente corpo due regolamenti europei importanti, relativi a tre aspetti
che sono stati al centro della crisi finanziaria: le vendite allo scoperto, le posizioni in Credit default swap (Cds),
i mercati derivati Over-the-counter (Otc) cioè non regolamentati e comunque privi di una controparte centrale
che assuma su di sé il rischio di insolvenza di uno dei contraenti. Questi ultimi, come hanno dimostrato i casi
Lehman e Aig, sono un fattore scatenante delle crisi sistemiche.
Fin dal 2009, sulla base di un documento del Financial Stability Board (Fsb) allora presieduto da Mario Draghi,
il G-20 aveva indicato la necessità di una regolamentazione adeguata su questi, come su altri problemi.
Quel documento iniziava con un'interessante premessa che ribadiva la necessità di un quadro di nuove regole
e rivolto alle banche diceva testualmente che «la speranza illusoria che gli affari possano andare avanti esattamente
come prima deve essere cancellata».
L'Europa, pur travagliata dalla crisi, ha «fatto i compiti a casa» e sta completando l'iter legislativo e regolamentare
delle importanti misure prima citate. Il Regolamento su vendite allo scoperto e Cds entrerà in vigore
il prossimo novembre, mentre la consultazione sui mercati Otc è in fase avanzata. Due aspetti meritano
di essere sottolineati. Primo: è molto difficile disciplinare settori tecnicamente così complessi, in cui finora nessuno
era intervenuto in modo sistematico.
Il regolatore europeo si è spinto davvero in territori inesplorati dell'attività finanziaria, ma lo ha fatto con decisione
ed assicurando un'ampia dialettica con gli operatori e il mercato. Non è esagerato dire che nei grandi territori
della finanza in cui, come nel vecchio West, dominava solo la legge del più forte, oggi è arrivato lo sceriffo.
Il secondo punto è ancora più importante. La regolamentazione di vendite allo scoperto, Cds e Otc ha alla base
un concetto fondamentale: non tutta l'attività finanziaria è utile, anzi una parte può costituire un grave fattore inquinante
e destabilizzante per l'attività produttiva. L'obiezione cara alle lobby che il regolatore ostacola in questo modo l'innovazione
finanziaria è priva quindi di fondamento, perché è provato al di là di ogni ragionevole dubbio che non tutta l'innovazione
è efficiente. Come hanno messo in evidenza autorevoli economisti e anche molte autorità di vigilanza (in particolare
Adair Turner nominato nel 2008 a capo della britannica Financial Services Authority) esiste una finanza utile
all'attività produttiva (useful), una finanza puramente fine a sé stessa (useless) e una finanza nociva (harmful).
La crisi ci ha insegnato non solo che eravamo totalmente privi di strumenti contro la seconda e la terza, ma non avevamo
neppure le informazioni necessarie per identificarle e misurarle. E' quindi un'autentica innovazione leggere
nel Regolamento europeo (art.4) che "le posizioni scoperte in Cds su emittenti sovrani sono posizioni che non servono
come copertura legittima", oppure che "chi detiene una posizione corta netta in debito sovrano superiore
ad una determinata soglia deve notificare tali posizione all'autorità competente".
Naturalmente, l'applicazione tecnica di questi principi sarà molto complessa, ma il significato politico di questa innovazione
regolamentare non può essere sottovalutato. Da un lato, si è detto chiaramente che vi sono operazioni finanziarie che è
nell'interesse generale considerare nocive e dall'altro si è scelta la strada della trasparenza, anziché del divieto generalizzato,
per le vendite allo scoperto.
E l'America? Come è noto, è stata varata una riforma a tutto campo (il Frank-Dodd Act del 2010) tanto ambiziosa
quanto farraginosa: il testo è un agile volumetto di oltre 2000 pagine che rinvia a decine di altri provvedimenti
delle autorità di vigilanza. Fra queste, la Sec appare quella più in difficoltà e nel corso dell'estate ha lanciato
due segnali negativi al mercato. A luglio, ha deciso di rinviare, non si sa bene per quanto, la discussione
sulla adozione negli Stati Uniti dei principi contabili internazionali.
Qualche giorno fa, è arrivata una notizia ancora più clamorosa: la presidente, Mary Shapiro ha scritto sul sito dell'autorità
che tre commissari, che costituiscono la maggioranza della Commissione, non condividono un documento preparato
dagli uffici sulla regolamentazione dei Money market mutual funds e che questo quindi non sarà messo
in pubblica consultazione.
Si badi che questi fondi sono quantitativamente molto importanti negli Stati Uniti (2,6 trilioni di dollari, di cui 1,7
detenuti da operatori istituzionali) e promettono agli investitori una liquidità eccessiva rispetto ai normali rischi
di un investimento in titoli, sia pure a breve.
Quando il prezzo rischia di scendere sotto il valore nominale (cioè breaks the buck, la soglia fatidica di 100) scatta un'autentica
spirale distruttiva fatta di vendite a prezzi sempre più bassi e di ritiro di fondi liquidi (l'equivalente di una corsa agli sportelli bancari)
che dal 2008 si è dimostrata essere una delle cause fondamentali delle implicazioni della diffusione sistemica della crisi.
Sia l'adozione dei principi contabili internazionali (cioè quelli vigenti oggi in Europa), sia la regolamentazione dei fondi monetari
erano incluse fra le raccomandazioni del Fsb e del G-20 di tre anni fa. Ma su entrambi gli Stati Uniti e in particolare la Sec
hanno alzato bandiera bianca. Purtroppo, non possiamo consolarci con la legittima soddisfazione di aver realizzato
in Europa quello che l'America non è stata in grado di fare perché nel mondo della finanza globale, le asimmetrie di regolamentazione
possono avere effetti devastanti. Anche noi quindi abbiamo legittimi motivi per preoccuparci, ma sappiamo fin d'ora dove stanno
quelli che vogliono continuare a "fare gli affari esattamente come prima". Una frase di Mario Draghi,
non di uno del movimento Occupy Wall Street.
di Maurizio Stefanini liberoquoditiano.it 20120825
Anche in Germania protestare in una cattedrale espone a una condanna a tre anni di carcere.
«La sentenza troppo severa ed eccessiva non è in linea con i valori della legge europea e
della democrazia sottoscritti dalla Russia in qualità di membro del Consiglio d'Europa»,
aveva dichiarato Angela Merkel quando si era saputo della condanna alle Pussy Riot
a tre anni per la “preghiera punk” alla Madonna nella Chiesa del Cristo Salvatore,
a «liberare la Russia da Putin».
Ma è la stessa pena che il codice della Repubblica Federale di Germania riserva
ai tre attivisti che lo scorso fine settimana hanno fatto irruzione in una cattedrale
di Colonia per manifestare proprio in favore del gruppo russo.
Insomma, un altro bel saggio di ipocrisia da parte della Kanzlerin, che peraltro deve
esserci ormai abituata! I tre, due uomini di 23 e 25 anni e una donna di 20,
si erano vestiti esattamente come le Pussy Riot nella famosa performance,
e si erano messi non solo a distribuire volantini con la scritta “Libertà alle Pussy Riot
e a tutti i prigionieri”, ma anche a gridare slogan dello stesso tenore. La Chiesa cattolica
li ha denunciati e ora i tre rischiano la condanna. «La pace della Cattedrale di Colonia
è stata interrotta. Non possiamo accettarlo e non lo accetteremo»,
ha detto il decano della cattedrale Robert Kleine al quotidiano Frankfurter Rundschau.
«Il diritto di manifestazione non può stare al di sopra della libertà religiosa e dei
sentimenti religiosi della congregazione». Va detto che mentre per le Pussy Riot
sono state una condanna anche mite visto che avrebbero potuto arrivare
a un massimo di sette anni, per i tre tedeschi si tratta della punizione massima
. In effetti potrebbero cavarsela anche con una multa, e nel 2006 un berlinese
che interruppe un servizio religioso gridando e lanciando volantini ebbe nove mesi.
Ci sono pure alcune differenze di contesto, che però dal punto di vista dei tedeschi
potrebbero essere considerate aggravanti. Innanzitutto, mentre le Pussy Riot
contestavano l’allineamento del Patriarcato di Mosca al governo di Putin, non si
capisce cosa c’entri la Chiesa cattolica tedesca con le scelte della chiesa ortodossa russa.
Sarebbe come dire che la Juventus ha rubato l’ultima Supercoppa a Pechino, e per protesta
andare a sfasciare la sede dell’Inter o del Milan.
E poi, la Germania è un Paese dove esiste una larga libertà di manifestazione,
e i tre non avrebbero avuto problemi a ottenere il permesso per manifestare il proprio appoggio
alla Pussy Riot in qualunque altro luogo più consono. A differenza della Russia, dove ci sono
effettivamente alcune storiche limitazioni alla libertà di manifestazione: ora riconosciute
implicitamente anche dal Comune di Mosca, nel momento in cui ha appena annunciato l’istituzione
di due “manifestodromi” in cui si potranno organizzare proteste e comizi senza bisogno neanche
di chiedere l’autorizzazione. Comunque un passo avanti, anche se gran parte dell’opposizione
ha già espresso il proprio rifiuto per quella “ghettizzazione”.
Ma anche se ci si trovasse nei confronti del più totalitario dei regimi, sarebbe moralmente lecito
usare per una protesta un luogo di culto senza il consenso dei religiosi che vi sono preposti?
Il problema si è posto poco prima dell’ultima visita di Benedetto XVI a Cuba,
quando un gruppo di 13 militanti del clandestino Partito repubblicano di Cuba aveva occupato
una chiesa dell’Avana per chiedere la liberazione dei prigionieri politici, la fine della repressione,
l’aumento dei salari e delle pensioni, e che Benedetto XVI si incontrasse con esponenti del dissenso.
Lo stesso cardinale Ortega, che pure in passato è stato detenuto nei famigerati campi di lavoro
castristi della Umap, chiese alle autorità di intervenire, e la polizia sgomberò la chiesa in 10 minuti.
Ne seguirono dure polemiche, ma due importanti esponenti del dissenso come Marta Beatríz Roque Cabello
e Yoani Sánchez riconobbero che i “repubblicani” avevano sbagliato, e che trasformare un luogo di culto
in una trincea di scontro politico era un’offesa alla sensibilità dei credenti.