vendredi, décembre 10, 2010

Le pressioni su Eni le hanno fatte gli americani (capito Rep?)

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Le pressioni su Eni le hanno fatte gli americani (capito Rep?)

di redazione    ilfoglio.it    20101210

Le spinte per lasciare l’Iran, il fondo Knight Vinke e l’ambasciata georgiana. Ecco i veri “casi” da indagare

Alle inchieste sui rapporti fra l’Italia e la Russia, fra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin, fra Eni e Gazprom, gli amministratori della società energetica italiana hanno risposto mercoledì sera, con un paio di dichiarazioni raccolte da Radiocor. Vittorio Mincato, numero uno del gruppo dal 1998 al 2005, ha detto che “la politica non ha mai interferito con l’Eni quando sono stato amministratore delegato. Nessuno ha mai fatto pressioni su di me. Mi chiedevano come andavano le cose, ma nessuna pressione: si sapeva benissimo che era inutile”. Il suo successore, Paolo Scaroni, gli ha risposto poco più tardi. “Mincato dice che la politica non ha interferito e io posso dire la stessa cosa – ha dichiarato – Prima con il governo Berlusconi, poi con Prodi, poi di nuovo con Berlusconi, posso dire esattamente la stessa cosa”. Il passo doppio non fermerà lo sforzo quasi bellico di Repubblica – ieri, per il secondo giorno consecutivo, il quotidiano di Largo Fochetti ha impegnato tre delle sue penne migliori per due pagine sul caso – ma fornisce materiale per una domanda ulteriore. Se la politica italiana ha evitato le interferenze, se Prodi e Berlusconi sono rimasti a distanza, è possibile che qualcun altro abbia mostrato audacia maggiore? Si può escludere che un governo straniero abbia cercato – o cerchi ancora – di modificare l’atteggiamento di Eni e, di conseguenza, le scelte dell’Italia in fatto di energia?

Su questa linea, già ieri, si sono mossi due giornalisti di MF, Fabrizio Massaro e Angela Zoppo. Nel loro lungo articolo, hanno ricordato alcune operazioni eseguite da Eni per assecondare le richieste in arrivo da un grande governo straniero. Che non si trova a Mosca, bensì a Washington. Fra settembre e novembre, Eni ha fermato gli investimenti in Iran, il che ha permesso agli italiani di evitare le sanzioni economiche stabilite dalla Casa Bianca contro le società che sbrigano affari a Teheran. Scaroni ha detto ieri che “Eni ha sempre avuto un atteggiamento trasparente, chiaro e di dialogo” con gli Stati Uniti, “non sempre c’è stato accordo su tutto ma i nostri rapporti con l’Amministrazione statunitense sono sempre stati eccellenti”.

Nonostante le rinunce di Eni – per una compagnia che si occupa di petrolio e di gas naturale, fare a meno dell’Iran non è proprio una buona notizia – gli Stati Uniti hanno lanciato segnali contraddittori verso Roma. A volte in modo scomposto, come nel caso dei cablogrammi trasmessi a Washington dall’ex ambasciatore Ronald Spogli e diffusi dal sito internet di Julian Assange, Wikileaks. Chi conosce gli affari di Eni ricorda anche l’azione di un fondo attivista americano, Knight Vinke, che possiede l’1 per cento del pacchetto azionario e si è impegnato in grandi battaglie per dividere il gruppo in tre grossi tronconi e per ridurre le partecipazioni del governo italiano. “Praticamente, volevano ammazzare l’azienda”, spiega al Foglio Marcello Colitti, analista ed ex presidente di Enichem. Knight Vinke ha alle spalle i fondi pensionistici degli insegnanti della California, e alcuni pensano che le sue posizioni abbiano guadagnato un certo gradimento anche nei palazzi della politica americana.

Per Repubblica, questo affare è un groviglio di nebbie di misteri che s’indagano con il passo del romanzo noir. “Segreti sono i documenti dei giacimenti di Karachaganak e Kashagan che Eni si rifiuta di esibire anche quando è chiamata a risponderne in tribunale”, hanno scritto Giuseppe D’Avanzo, Andrea Greco e Federico Rampini nella prima puntata della loro inchiesta, pubblicata mercoledì, mentre “impenetrabile è il segreto che protegge gli incontri di Berlusconi con Putin lungo il lago tra le colline di Valdai”. Secondo il trio, “ci sono perlomeno tre ‘casi’ in cui si intravede, tra le opacità, una metamorfosi degli interessi nazionali”. Un biglietto con la calligrafia del Cav. passato per le mani di un funzionario russo, una “refurtiva” che Putin vuole dividere con il collega italiano, un giacimento nel cuore della steppa ancora più “misterioso”. In fondo alla nebbia, dopo le prime quattro pagine d’inchiesta, non si vede la luce intermittente della notizia. Quel bagliore che fa dire ok, ho i brividi, ma voglio continuare a leggere.

Ieri, Rep. si è concentrata sui fatti, ha passato in rassegna le fonti americane e ha scovato “il massimo esperto del dipartimento di stato per Eurasia e questioni energetiche”. Così è descritto Jeffrey Mankoff, capelli in ordine e sorriso da studente di college, l’autore del documento che prova “la gravità del rapporto tra i due premier italiano e russo”. Il testo s’intitola “Eurasian Energy Security” ed è molto meno segreto dei contratti di Eni, dato che si trova sul sito internet di un think tank americano molto conosciuto, il Council on foreign relations (Cfr), dal febbraio del 2009. D’Avanzo, Greco e Rampini dicono che è un “rapporto cruciale”, messo a punto quando Mankoff era al dipartimento per gli Studi sulla sicurezza internazionale a Yale.

Non si può dire che l’analista abbia bruciato le tappe da allora. Dopo avere svolto attività di ricerca al Cfr, ha ottenuto un contratto di collaborazione al dipartimento di stato. Oggi si occupa di Russia e di Europa e il governo non gli paga neppure lo stipendio: è lo stesso Council a farlo, attraverso un programma di sostegno ai giovani promettenti. Mankoff avrà un futuro brillante di fronte, ma è difficile – molto difficile – attribuire il suo dossier al dipartimento di stato, un’opera del tutto naturale per gli inviati di Rep. Il verdetto di “Eurasian Energy Security” sulla politica italiana dell’energia non è neppure nuova. Mankoff sostiene che l’Europa non può dipendere da Gazprom perché Gazprom significa Putin e Putin pensa al dominio dell’Europa. Diplomatici e studiosi di maggiore fama – Vladimir Socor, David Smith e Paul Goble, tanto per citarne alcuni – ripetono la stessa storia da quindici anni. Persino i cablogrammi di Spogli sembrano più attendibili.

Nei rapporti di Spogli, il ruolo svolto dall’Italia durante la guerra di Georgia del 2008 ha un ruolo centrale. “L’ambasciatore georgiano a Roma ci ha detto che il suo governo crede che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale dei profitti che arrivano da ogni gasdotto costruito da Gazprom in collaborazione con l’Eni”, racconta Spogli nel 2009. Il governo di Tbilisi ha negato di avere prove sulla “percentuale”, mentre i diplomatici evitano i commenti sul caso Wikileaks. Secondo Gabriele Cirieco, che tiene i rapporti con la stampa per conto della legazione di Roma, non ci fu alcun incontro ufficiale fra l’ambasciatore georgiano e quello americano.


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