vendredi, décembre 17, 2010

Caro Saviano, la tua lettera è ipocrita

Il Riformista
Caro Saviano, la tua lettera è ipocrita

di Stefano Cappellini   ilriformista.it    20101217


C’è una patina di ipocrisia nella «Lettera ai ragazzi del movimento» pubblicata ieri su Repubblica da Roberto Saviano...
C’è una patina di ipocrisia nella «Lettera ai ragazzi del movimento» pubblicata ieri su Repubblica da Roberto Saviano. La sua forzata lontananza dai fatti del 14 dicembre merita rispetto. Ma per chi vuole cercare di capire cosa è successo in piazza, e non solo oscillare tra l’ovvia condanna delle violenze e l’altrettanto facile assoluzione del movimento, il suo è un contributo di disinformazione.
Due tesi si fronteggiano da giorni sui disordini di Roma del 14 dicembre. La prima vuole che un gruppo di facinorosi professionisti abbia approfittato dell’occasione di piazza per mettere in atto un piano preordinato di guerriglia urbana a spese della massa pacifica di studenti e manifestanti. La seconda sostiene che tracciare una linea netta tra i “violenti” e i “buoni” non è così semplice, sia perché molti dei protagonisti degli scontri (e delle udienze di ieri al Tribunale di Roma) hanno facce e curricula del tutto analoghi a quelli degli “angeli dei tetti”, sia perché le azioni più estreme hanno goduto, se non della partecipazione diretta, comunque del consenso di una larga parte del corteo.
Saviano sposa la prima - la più rassicurante, la più “democratica” - delle due tesi. Anzi, la porta alle estreme conseguenze: il movimento è buone cose, buone facce e buoni propositi, poi «ci sono cinquanta o cento imbecilli che si sono tirati dietro altrettanti ingenui sfogando su un camioncino o con una sassaiola la loro rabbia», che hanno agito a danno e dispetto di chi vuole cercare pacificamente di cambiare le cose. Non solo, questi «cinquanta o cento» sarebbero doppiamente estranei al movimento, perché pure Saviano si appoggia sulla comoda etichetta mediatica dei black bloc. «Il blocco nero è il pompiere del movimento», scrive l’autore di Gomorra, additandolo come l’agente di una nuova «strategia della tensione». Qui le sciocchezze sono due in un colpo solo.
Saviano, e molti prima di lui, chiaramente non sa di cosa scrive quando parla di black bloc. I quali sono un’area ben definita, con una “ideologia” e un network internazionale. E a Roma non c’erano. Dopo Genova 2001, black bloc è diventato sinonimo di teppista politico e, ogni qual volta si verificano incidenti gravi da parte di manifestanti mascherati, sui media si chiama in causa a sproposito il «blocco nero», con la stessa faciloneria con cui alla fine degli anni Novanta si parlava in casi analoghi di “squatter” e nei decenni precedenti di “autonomi”. Sono definizioni a prescindere, è un’informazione un tanto al chilo. E spiace che Saviano se ne faccia autorevole tramite. Anche perché gli sarebbe bastato leggere, proprio su Repubblica, gli informati pezzi di Carlo Bonini, compreso quello pubblicato ieri in contemporanea al suo, per capire che la partecipazione dei black bloc è una leggenda, una bufala. O, per meglio dire, un alibi. Che Saviano ingigantisce evocando addirittura una nuova strategia della tensione.
Un professionista delle parole come lui dovrebbe stare più attento a ciò che dice e scrive. In Italia la «strategia della tensione» c’è stata. Ha significato bombe, stragi, depistaggi, collusioni tra pezzi di Stato e criminalità organizzata. È stata una tragedia nazionale. Evocarla a proposito dei fatti del 14 dicembre è ridicolo e serve solo ad alimentare una distorta visione dietrologica, offrendola in pasto a un pezzo di opinione pubblica - i ragazzi delusi, non a torto, dalla politica e dalla sinistra “ufficiale” - in cui già da anni spacciatori a tempo pieno di Complotti e Inciuci producono danni pesanti. Se poi Saviano crede davvero al bau-bau, all’uomo nero e al blocco nero pure lui, allora eviti di scrivere che «carabinieri e finanzieri usano le camionette come esca su cui far sfogare chi si mostra duro e violento in strada». Questa dei manifestanti traviati dalle provocazione delle camionette lasciate ad arte sul percorso del corteo è, nella sua rozza partigianeria, una versione da velina della Questura. E pure una contraddizione: se, come sostiene lo scrittore, in strada c’erano i professionisti della guerriglia, non avevano bisogno di «esche» per darsi alla guerra.
Ma se non si vuole essere ipocriti, se non si vuole fare la figura di quei commentatori da Raisport che davanti ai tafferugli allo stadio se la cavano con un «scene che non vorremmo mai vedere», bisogna aggiungere un’altra e più importante considerazione. Non si può evocare e denunciare quotidianamente la crisi, il disagio, l’impoverimento - tutte realtà autentiche dell’Italia del 2010, tutti temi su cui Saviano si è soffermato - e poi avere paura di guardare a quali conseguenze può portare questa situazione. Si badi, non si tratta giustificare la violenza. Ma di fare uno sforzo maggiore di comprensione dei fenomeni, di non chiudersi nelle versioni edulcorate e apologetiche della protesta, di non pensare che la sofferenza produca solo elenchi e ospiti da talk, questo sì, dovrebbe essere obbligatorio per chi vuole raccontare credibilmente il paese. Cullarsi sull’illusione che la violenza venga da fuori, da agenti provocatori e infiltrati, è comodo. Più arduo è farci i conti quando diventa la prassi di ventenni che non sono né black bloc né vecchi arnesi della contestazione. Il conflitto sociale, caro Saviano, non è un pranzo di gala. E nemmeno un format televisivo di prima serata.


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